È Scalfari che vorrebbe essere Bergoglio o Bergoglio che è tentato di fare Scalfari? Entrambi sembrano concedersi la licenza di confutare la dottrina. È questo il dilemma sul quale ci si interroga nei Sacri Palazzi, dopo la pubblicistica in libreria sul “Grande vecchio” del giornalismo italiano.
In Vaticano, usi a osservar tacendo, qualcuno ricorda che neanche su Giovanni Papini, quando pubblicò il suo ultimo libro Il diavolo(in cui sosteneva che Gesù avrebbe perdonato anche Satana perché necessario all’opera della salvezza), furono sollevate questioni “per riguardo alla canizie dell’autore”. Quello stesso riguardo, evidentemente, esteso anche all’ultimo libro di Eugenio Scalfari Il Dio unico e la società moderna, incontri con Papa Francesco e il Cardinal Martini cui, i più raffinati tra i prelati dentro le Sacre Mura – e, si sussurra, addirittura di autorevolissimi teologi come il Papa emerito Ratzinger e il Cardinal Ravasi – applicano volentieri il lapidario giudizio che all’epoca L’Osservatore Romano riservò all’opera letteraria di Papini: «un libro colmo di errori scapigliati e clamorosi».
Gelosia, irritazione per questa strana coppia rappresentata da un gesuita che dovrebbe essere rigoroso e uno straordinario intellettuale che si professa bigamo e libertino? In effetti, di errori ne sono stati sottolineati e alcuni clamorosi. Che gli Apostoli di Gesù Cristo fossero dodici, si studia nella prima lezione di catechismo: gli Atti degli Apostoli, infatti, testimoniano che, dopo il tradimento e la morte dell’apostolo Giuda, i discepoli di Gesù scelsero al suo posto Mattia, costituendolo “apostolo”. E, quindi, dodici erano e tali rimasero. Sul ruolo “fondativo” del cristianesimo di San Paolo discutono i dotti da quando questa tesi fu postulata dai positivisti del primo Novecento. Inoltre sull’“autoconvincimento progressivo” di Gesù Cristo di essere il figlio di Dio, meglio stendere un velo pietoso. Quello che Scalfari invece “azzecca” è la tesi, certamente non inedita, che «il Dio creatore non può che essere uno solo per tutta l’umanità». E’ esattamente quello che Pietro, primo Papa, e così tutti i suoi successori dopo di lui, ha affermato nella sua prima omelia davanti al tempio di Gerusalemme.
E qui, forse, avviene il fatto più curioso: il politicamente correttoimpedisce persino al Papa di dirlo, per così dire, papale papale. Obbligandolo a delle iperboli non sempre molto felici, come quell’ormai suo «Dio non è cattolico», Eugenio Scalfari, che per età e condizione può ormai infischiarsi anche del politically correct, è invece libero di dire. E rimandando il suo “Verbo” ai colloqui avuti con il Pontefice, si erge a maître à penser del mondo cattolico autorizzato a ripetere i concetti più ovvi del cristianesimo, evitando al tempo stesso di passare per bacchettone e codino. Ma dopo le ripetute smentite della Sala Stampa Vaticana, a proposito dei contenuti dei colloqui, io credo che la verità sulle amnesie dottrinali di Scalfari e le “accelerazioni” di Bergoglio, che pare Ratzinger poco gradisca, per come io ho conosciuto il giornalista alla fine degli anni ‘70, sia un’altra.
Ricordo bene quando veniva a intervistare l’allora Ministro del Tesoro, Gaetano Stammati. Ero sempre presente ed avevo stabilito con lui, per un breve periodo coincidente con la nascita di Repubblica, un bel rapporto. Ebbene, ascoltava il Ministro, scandiva le domande con aria grave, prendeva pochi appunti e poi, dopo qualche ora, rimandava il testo. Era sempre lo stesso copione. “Ma io molte di queste risposte non le ho date”, mi riferiva Stammati sornione. “Chiedo al direttore di cambiarle…?”. Ci pensava un attimo, raggomitolandosi come un micione bianco sulla poltrona dietro la scrivania di Quintino Sella, e aggiungeva: “No, non l’ho detto, ma è esattamente il mio retropensiero…solleverà un vespaio, ma vediamo poi cosa succede…”. Richiamavo il direttore e davo l’ok. E il giorno dopo grandi polemiche con sindacati e Confindustria. Chapeau!
di Luigi Bisignani
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