ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 20 dicembre 2019

Lo stravolgimento dell’idea di santità

Solo il Santo ci può salvare



Un nuovo spettro si aggira per le lande desolate dell’Occidente, è lo spettro dello spettro del comunismo. Nel 1848, Marx e Engels annunciavano con il celebre e terrificante incipit del loro Manifesto l’incombere di un pensiero che avrebbe rapito menti e anime in un inferno fatto di storia e di materia. Non sapevano quali mutazioni avrebbe subito quel fantasma nella lotta darwiniana per la sopravvivenza delle idee, ma avevano ragione profetizzando che sarebbe rimasto a lungo tra noi. Oggi lo spettro del comunismo è divenuto lo spettro individualismo di massa: ossimoro solo apparente, spettro dello spettro comunista nato dall’amplesso con il suo falso opposto capitalista.

Geneticamente modificato, ma è ancora qui. In realtà è qui da sempre, da quando Lucifero ha fatto scoccare la scintilla della prima rivoluzione, e porta in grembo sempre lo stesso mostro: l’irrevocabile vocazione a una santità demoniaca, ossimoro fondativo della disperata speranza che si è impadronita di palazzi ormai non più sacri e di istituzioni ormai non più civili.
Prima di dedicarsi a revanscismi politici o a restaurazioni religiose, penso che la vera questione da affrontare sia questa, lo stravolgimento dell’idea di santità. Che non è semplicemente il suo oblìo o anche solo la sua parziale eclisse. L’uomo è un animale liturgico e non può vivere senza il santo, senza una divinità da adorare e i suoi figli prediletti da imitare. Lo sa benissimo il Nemico, che non sottrae la santità di Cristo al cuore dell’uomo, ma la sostituisce con una santità perversa, una santità demoniaca. Tutto il male quotidiano, poi, diviene ineluttabile, sono gli uomini a chiederlo nelle loro preghiere poiché non possono più farne a meno.
Ho riflettuto su questo tema rileggendo I demoni dostoevskijani e un breve ma intenso romanzo di Geroge Steiner, Il correttore. L’opera di Dostoevskij, uscita venticinque anni dopo il Manifesto di Marx e Engels, disseminata di dialoghi in cui il male sente il bisogno di svelarsi per quello che è veramente, non ha pari nella sua didascalica eloquenza. Ogni volta ho un tuffo al cuore quando arrivo alle pagine in cui, parlando con Stavroghin, il rivoluzionario Verchovensckij spiega: “Non appena sorge la famiglia o l’amore, ecco già anche il desiderio di proprietà. Noi faremo morire il desiderio: diffonderemo le sbornie, i pettegolezzi, le denunce; spargeremo una corruzione inaudita, spegneremo ogni genio nelle fasce. Tutto allo stesso denominatore, l’eguaglianza perfetta. (…) Una generazione o due di corruzione ora sono necessarie; d’una corruzione inaudita, volgare, tale che l’uomo si trasformi in una rettile abietto, vile, crudele, egoista, ecco che cosa occorre! E andrà aggiunto un po’ di ‘sangue fresco’ perché s’abitui”.
È questo, da sempre, il cammino ascetico insegnato nei catechismi della santità demoniaca. Una via che conduce alla conquista politica, civile o ecclesiale, solo come corollario del dominio nel cuore dell’uomo: di ogni uomo. Perché è lì che avviene la vera guerra tra Dio e Satana, come spiega Dostoevskij. È lì il luogo in cui viene raggiunto il punto di fusione da cui si esce salvi o dannati.
Il Nemico sa che esiste anche il fascino della dannazione, per questo il catechismo di Verchovensckij può assumere sembianze mistiche. Lo mostra in una fluviale confessione il correttore di bozze comunista del romanzo di Steiner: “Un vero bolscevico, Carlo, non possiede niente fuorché i vestiti che indossa. Non ha casa. Non ha famiglia. Non c’è perdono se infrange la disciplina o se commette un errore. Ascoltami bene: non può nemmeno avere speranza. Non nel tuo senso. Non lo aspettano né gigli né incenso. Niente messa per la sua anima morta. Possiede una cosa ancora più incrollabile della speranza, più degna dell’intelletto e del coraggio inesplorati dell’uomo. È difficile trovare le parole giuste. Possiede perspicacia. (…) Le speranze di un comunista costituiscono un modo di vedere con chiarezza assoluta. Proprio come quando si guarda in un radiotelescopio che ci porta i dati di un universo infinitamente più antico della razza umana e continuerà a evolversi molto tempo dopo la nostra estinzione. Questa visione è più lucida della speranza. Onora l’uomo più di ogni altro onore. È lì che abbiamo sbagliato. (…) Tutti illusi. Ma lo erano davvero? Quelli che (…) mantennero la fede anche nel gulag (…) e morirono lodando Stalin perché sapevano, persino nell’insanità dello sconforto, che era stato lui a rendere la Russia capace di resistere all’assalto fascita. L’umanità non è fatta di santi e di martiri. Non è fatta di quelli che sono ubriachi di giustizia e posseduti dalla ragfiuone. Sì abbiamo sbagliato. Sbagliato mostruosamente, come dici tu. Ma il grande errore, quello di sopravvalutare l’uomo, l’errore che ci ha traviato, è in assoluto la mossa più nobile dello spirito umano nella nostra tremenda storia”.
Non c’è soluzione di continuità fra la turpe concretezza catechetica di Verchovensckij e il tragico volo mistico del correttore di Steiner. Si presuppongono a vicenda poiché sono parte dello stesso dogma elaborato da Satana: che l’uomo si può salvare da solo.
Se non fossi cristiano, al cospetto di una tale constatazione potrei solo provare disperazione o, al più, associarmi a qualche adepto di qualche restaurazione sapendo che nulla comunque potrà essere restaurato. Ma sono cristiano e so che a ogni uomo, in ogni luogo in ogni tempo e dunque anche nei nostri, è data la possibilità della vera santità, quella che lo rende simile a Cristo. E so anche che questa è la sola strada da intraprendere, in ogni luogo e in ogni tempo, senza pensare che al termine del cammino vi sia un ordine costituito dai disegni umani. Al termione del pellegrinaggio c’è la Croce, la stessa che siamo chiamati a caricarci sulle spalle fin dal principio. Del centuplo quaggiù disporrà il Signore, io debbo preoccuparmi delll’eternità.
Per questo ho trascorso le ultime settimane sul Monte Athos, l’Agion Oros, la Santa Montagna, in contemplazione dei veri santi. Ci sono stato rimanendo rinchiuso nella celletta di casa mia, leggendo vite quasi inesprimibili, attingendo a insegnamenti così elementari da disorientare. Non so fin dove arriverò lungo il sentiero della santità, ma so quale è. Non sono un santo, ma ho incontrato veri santi. Tanto basta per cacciare dal mio cuore le tenebre dello spettro che si aggira nelle lande desolate di un Occidente che non vuole più saperne della santità, dentro e fuori le sue chiese.
Sulla Santa Montagna, le cui fondamenta sono fatte di reliquie, trova rifugio ogni sospiro dell’uomo per Dio, anche il più flebile, timido e impercettibile come quello di un peccatore come me. Qui, uomini come e come te stai leggendo hanno crocifisso e stanno crocifiggendo la loro natura per guadagnare le loro anime: fra lo stupore degli angeli. Qui sudano, piangono, sanguinano gli asceti: qui Dio riposa.
Nikolaos Chatzinikolaou racconta in un breve diario che si intitola Monte Athos. Il punto più alto della terra i suoi primi viaggi sulla Montagna, compiuti quando ancora apparteneva al mondo. Poi divenne monaco tra quei monaci e poi ancora vescovo, ma il suo approdo da laico sulle sante pendici mostra come non sia data altra strada per la salvezza che l’approccio al versante tremendo della santità.
A Karoulia, in visita all’eremo in cui visse fino a pochi anni prima il padre Gavriìl, annota: “Siamo arrivati al punto cruciale. La pendenza del terreno: tra i 75 e gli 80 gradi. Sospeso, lì, inerpicato, il piccolo, oblungo kellion di padre Gravriìl, quest’uomo celeste. Un copricapo monastico e una tunica a brandelli rappresentano gli ultimi elementi certi che dimostrano come questa tana disumana sia servita da abitazione umana; come il suo eroico abitatore fosse, in fin dei conti, anche un po’ uomo. Ben presto mi rendo conto che i battiti del cuore aumentano sia in intensità sia in ritmo. Non è l’altezza a stordirmi; né il senso di pericolo che percepisco a ogni passo. È il pensiero di quest’uomo. La mia ammirazione supera le mie resistenze. Vedo questa sua veste stracciata e la bacio. Così ha stracciato i suoi sogni, la sua vita, la sua natura e li ha appesi al chiodo della speranza divina. Penso a come ha vissuto e piango. Penso a come vive e… prego: Santo di Dio intercedi per noi”.

Gavriìl, Ephrèm, Josif, Paissios, Silvanos, Cherubim, Kallinikos… li guardo, passo alla lente le loro immagini e, per quanto siano diversi, scopro che in fondo sono uguali, perché una sola è l’Immagine, l’Icona, a cui hanno scelto di somigliare. Soprattutto nello sguardo, con quei loro occhi innocenti, mai più usati per guardare il mondo e votati alle lacrime. La loro vista si fa veramente acuta quando li chiudono.
Sono gli occhi di Ephrèm di Katounakia, così come li ricorda il vescovo Chatzinikolaou: “Le lacrime dei suoi occhi, mescolate al sangue di Cristo, e il suo pentimento, fecondato dalla Grazia di Dio, di continuo generavano quel mistero dell’uomo divinizzato e producevano quella magnificenza dell’anima incristizzata che scorgevi nei suoi occhi trasparenti. Papa-Ephrèm parlava assai più con gli occhi che con la bocca. Le sue lacrime hanno scritto più libri di quanti non abbiano letto i suoi occhi. I sospiri della sua preghiera hanno riempito le biblioteche della vita di tantissime persone. La sua presenza ha sostenuto la Montagna, la chiesa, il mondo intero, nei nostri anni sterili e infruttuosi”.

Sull’Agion Oros è più facile per un uomo riconoscere un angelo che per un angelo riconoscere un uomo. Gli uomini che resistono negli eremi athoniti vedono, ma non sono visti, sono essere celesti più che terrestri, profumano di eternità più che di tempo. “La purezza del deserto è tale da trasferirsi anche dentro di te. La tua anima, senza che tu te ne avveda, diventa trasparente. Senza uno sforzo particolare, il tuo mondo interiore sale in superficie, si rivela”.
Ho davanti a me lo sguardo di Giuseppe l’esicasta, il cui esempio è raccontato nella vita che ne ha scritto il suo discepolo Giuseppe di Vatopedi. Una storia semplicissima che porta seplicemente il nome del santo che la riempie, Giuseppe l’esicasta, appunto. Morto nel 1959, questo è uno di quegli uomini che si sono fatti simili agli angeli trovando nel corso di decenni il modo sempre più faticoso di sottrarsi al mondo. “Mancava di tutto” dice il suo discepolo “compreso lo stretto necessario per poter vivere. Anche l’andare alla Liturgia divenne per l’Anziano una prova penosa; non poteva più camminare, soprattutto su una strada dissestata come quella. Le numerose fatiche, i duri combattimenti, i lunghi digiuni e tutte le testimonianze del suo zelo di combattente, ch’egli non voleva in nessun modo attenuare, tutto questo aveva indebolito il suo corpo e lo aveva logorato. Riusciva a malapena a muoversi per assicurarsi i bisogni essenziali, e tuttavia continuava a farsi violenza”.

Il mondo non capisce la crocifissione, ogni crocifissione, ma gli uomini di Dio sanno che, perseverando fino al termine, troveranno requie perché nella loro vita hanno partecipato della Croce e della Resurrezione.
Ciosì Giuseppe l’esicasta “concluse la sua corsa” completamente abbandonato alla fiducia nella dolcissima Madre di Dio. “Nostra Signora ha compiuto fino in fondo la promessa fatta all’Anziano: egli poteva riporre la sua speranza in Lei. Il suo ultimo intervento nella vita dell’Anziano fu quello di raccogliere la sua anima nel giorno della sua Santa Dormizione. Seduto nella sua sedia, lottando contro la costante difficoltà respiratoria, guardava vicino a lui il padre Arsenio, come sempre, dopo aver benedetto tutti gli altri. Quando padre Arsegnio volle strofinargli i piedi, glielo impedì dicendo: ‘Fermati padre Arsenio, non fare niente. Tutto è compiuto. Io parto’. Presa la mano del suo inseparabile copmpagno, come per salutarlo un’ultima volta, alzò gli occhi al cielo e, placidamente, rese la sua anima beata”.
Se teniamo almeno per un po’ lo sguardo su questi angeli non possiamo più temere gli spettri che si aggirano nelle nostre lande desolate. “Tutto ciò che umiltà” insegna Isacco di Ninive “è divinamente bello”.
Alessandro Gnocchi 20 Dicembre, 2019

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