George Weigel riflette sul rilancio da parte di Papa Francesco delle parole dette nell’ultima intervista concessa dal card. Martini in cui diceva che la Chiesa era indietro di 200 anni rispetto ai tempi. Quella di Weigel è una riflessione che fa molto pensare.
L’articolo di Weigel è stato pubblicato su The Catholic World Report, e ve lo propongo nella mia traduzione.
La Curva di Martini dovrebbe farci riflettere. Ci ho pensato in quel momento e alla fine mi sono ritrovato con domande più che risposte. A che cosa, precisamente, la Chiesa era indietro di duecento anni? A una cultura occidentale che viene scollata dalle verità profonde della condizione umana? A una cultura che celebra il Sé imperiale autonomo? A una cultura che separa il sesso dall’amore e dalla responsabilità? A una cultura che genera una politica di immediata gratificazione e di irresponsabilità intergenerazionale? Perché mai la Chiesa vorrebbe mettersi al passo con questo?
Chiamatemi ottuso, ma per quanto mi sforzi di aggiustare il mio modo di pensare, temo che sia quello che penso ancora oggi dell’affermazione che i fallimenti del cattolicesimo contemporaneo derivano dal fatto che siamo bloccati in un solco dietro la curva della storia. Inoltre, dalla morte del cardinale Martini, sette anni fa, alcuni fatti empirici sono diventati inconfondibili: le Chiese locali che si sono sforzate di mettersi alla pari con la “storia” e i “tempi” stanno crollando.
Il primo esempio è il cattolicesimo nel mondo di lingua tedesca. Le percentuali di partecipazione settimanale alla messa sono scese a una sola cifra nelle città tedesche e non sono migliori in Austria e nelle zone di lingua tedesca della Svizzera. Questa implosione della comunità sacramentale ha costretto a ripensare la strategia di adattamento culturale? Al contrario. Con una testardaggine un tempo oggetto di caricatura come tipicamente prussiana, la grande maggioranza dei vescovi tedeschi sostiene un “processo sinodale” nazionale che sembra determinato a spingere il pedale che porta ad arrendersi ai “tempi”, anche se – soprattutto se – ciò significa gettare via le verità che, secondo la rivelazione e la ragione, fanno la felicità e la beatitudine.
C’è da qualche parte un solo esempio di una Chiesa locale in cui un frenetico sforzo per raggiungere la laicità del XXI secolo e il suo culto della nuova trinità (Io, Me, Me stesso) abbia portato a una rinascita evangelica – a un’ondata di conversioni a Cristo? C’è una sola circostanza in cui l’abbraccio acritico del cattolicesimo dei “tempi” abbia portato a una rinascita della decenza e della nobiltà nella cultura? O a una politica meno polarizzata? Se è così, si tratta di un risultato straordinariamente ben nascosto.
C’è però la prova che l’offerta di amicizia con il Signore Gesù Cristo come via verso un futuro più umano si fa sentire.
Poco dopo il Grande Trambusto della Pachamama dello scorso ottobre, ho ricevuto una e-mail di incoraggiamento da un sacerdote missionario dell’Africa occidentale. Dopo avermi espresso le condoglianze per la mia “recente penitenza romana” al Sinodo amazzonico (che era stato caratterizzato da molte chiacchiere politicamente corrette sulla sensibilità ecologica delle religioni indigene), il mio amico mi ha raccontato una storia istruttiva: “Sarai felice di sapere che l’anno scorso, quando uno dei nostri villaggi mi ha invitato ad andare ad aiutarli a distruggere i loro idoli e a battezzare il loro capo, prima di farlo non abbiamo intrapreso alcun “dialogo con gli spiriti”, come è stato tanto lodato nel [documento di lavoro del Sinodo (Instrumentum laboris, ndr)]. Non c’era il Tevere in cui gettare [gli idoli], quindi ci sono bastati una mazza e del fuoco (hanno distrutto e bruciato, ndr). In qualche modo il villaggio è riuscito a sopravvivere senza un tale dialogo, e infatti mi hanno invitato a tornare… per celebrare il primo anniversario del grande evento, e per benedire una croce che sarà allestita nel villaggio come ricordo permanente della loro decisione”.
Tre settimane fa, l’arcivescovo locale ha scritto a quegli stessi abitanti del villaggio, raccontando loro della sua “immensa gioia” per il fatto che, l’anno prima, loro si erano “allontanati dagli idoli per volgersi risolutamente al Dio Vivo e Vero… Avete riconosciuto in Gesù Cristo la Via, la Verità e la Vita. Spalancate i vostri cuori a Lui … e vincete sempre il male con il bene”.
Non c’è alcuna Curva di Martini in quella parte del vigneto globale, a quanto pare. C’è, piuttosto, da prendere in prestito dall’ultima intervista del defunto cardinale, “la fede, il coraggio, la fiducia… [e ] “l’amore che vince la stanchezza”. Questo è sicuramente qualcosa a cui pensare in Vaticano – e in tutta la Chiesa mondiale in cui tutti sono chiamati al discepolato missionario.
Di Sabino Paciolla
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