ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 2 gennaio 2020

"La Profezia"

LA VERA DIMENSIONE DI DANTE


Qual è la vera dimensione di Dante? La cifra più autentica dello "Spirito di Dante" che è anche il segreto più intimo della sua coscienza morale e la giusta "Chiave di lettura" per comprendere tutte le sue opere è:"La Profezia" 
di Francesco Lamendola  

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Qual è il vero Dante? Qual è la vera dimensione di Dante? Quella poetica, quella filosofica, quella politica, o quale altra? Qual è il Dante più autentico, più profondo, quello che sta al nucleo della sua possente personalità intellettuale, culturale, spirituale, che ispira le sue opere e che non cessa di stupirci e lasciarci ammirati e quasi sbigottiti davanti alla vastità del suo genio, a sette secoli di distanza? 

Quando si pensa a Dante, si pensa automaticamente alla Divina Commedia: questo è giusto, naturalmente, eppure in un certo senso rischia di limitare la prospettiva, e quindi la nostra possibilità di comprendere il suo messaggio. La Divina Commedia esprime pienamente la visione matura di Dante, ma non è tutto Dante; per giungere a scrivere il suo capolavoro, l’opera cui han posto mano e cielo e terra, egli ha dovuto percorrere una strada lunga e faticosa, irta di spine e di pericoli, sia per il suo corpo che per la sua anima. Due volte condannato a morte dal comune di Firenze; posto all’indice dalla Chiesa e bruciato in effigie; costretto a vagare come un esule per vent’anni, sino all’ultimo giorno della sua vita, con la costante incertezza del domani e una famiglia da mantenere, dopo che gli erano stati confiscati tutti i beni e dopo che i suoi figli, raggiunta la maggiore età, erano incorsi nello stesso bando che aveva cacciato lui dalla patria: questi i pericoli fisici e i disagi economici e materiali che egli dovette affrontare come scotto per la sua sete di libertà, di verità e di giustizia. Ma i pericoli e le difficoltà che dovette affrontare sul piano spirituale e morale non furono certo meno gravi: non dimentichiamo che egli giunse fino al limite estremo della tentazione intellettuale, giunse a dubitare di tutto, e si smarrì nella foresta del dubbio – non del peccato! -, dalla quale non sarebbe mai uscito senza l’aiuto della fede e senza quello, umanamente non meno importante, della vocazione che lo chiamava a rendere testimonianza presso i suoi contemporanei. Ma qual era, codesta vocazione? A che cosa Dante era stato chiamato, e si sentiva lui stesso prescelto? Non la poesia pura e semplice: Dante non è un Foscolo, un Leopardi o un Carducci del XIII secolo. Del resto, nel XIII secolo non esiste una mentalità paragonabile a quella del XIX; la cultura non è un fatto individualistico, e nemmeno l’arte lo è: molti scultori e architetti medievali non firmano neppure le loro opere, le loro cattedrali, perché non se ne ritengono i soli artefici e perché la funzione che esse devono assolvere non c’entra con l’io dell’artista, non è quella di far vedere a tutti la sua bravura e la sua sapienza. Inoltre la vena poetica di Dante non è lirica, ma epica: la poesia lirica si afferma con Petrarca; al tempo di Dante i poeti lirici, stilnovisti compresi, stanno muovendo appena i primi passi. E allora qual è la vocazione di Dante, qual è il destino al quale egli si sente chiamato, e che gli appare manifesto per gradi, una esperienza dopo l’altra, un distacco dopo l’altro? Distacco da Guido Cavalcanti; da Beatrice; da Firenze; dai guelfi bianchi; dal sogno di veder affermarsi, con Arrigo VII di Lussemburgo, l’idea imperiale, in una pacifica e fruttuosa collaborazione col Papato, che egli brama di veder tornare in Italia, a Roma, dall’esilio avignonese: e basterebbe già questo solo fatto per farci accorti che il suo ghibellinismo finale è tanto sui generis quanto lo era stato, prima dell’esilio, il suo guelfismo.

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 Qual è il Dante più autentico, più profondo, quello che sta al nucleo della sua possente personalità intellettuale, culturale, spirituale, che ispira le sue opere e che non cessa di stupirci e lasciarci ammirati e quasi sbigottiti davanti alla vastità del suo genio, a sette secoli di distanza?

Per rispondere a questa domanda bisogna prender in mano le opere minori di Dante. Non troveremo la risposta nella Divina Commedia, perché la Divina Commedia è la domanda: la domanda di quale sia la giusta chiave di lettura di un’opera così gigantesca, così sublime, così unica in tutto il panorama della letteratura universale. Se si parte dalla Commedia; se si cerca di forzare il segreto di Dante affrontando direttamente la Commedia, si rischia di far un buco nell’acqua: l’impresa è troppo ardua, la Commedia è un poema da giganti e noi, uomini comuni, ci perderemmo in esso come dei nani. Le opere minori, dunque: ma in quale di esse si trova la chiave che stiamo cercando? Scartando le minori fra le minori, restano la Vita Nova, il Convivio, il De vulgari eloquentia e il De MonarchiaLa Vita Nova ci dà il Dante stilnovista; il Convivio, il Dante filosofo; il De vulgari eloquentia, il Dante studioso di linguistica e la Monarchia, il Dante pensatore politico. Nessuna di esse, di per sé, ci fornisce la chiave desiderata; ciascuna è troppo circoscritta, troppo “specialistica”, troppo limitata, rispetto alle profondità abissali della vocazione dantesca. Non ci resta che tornare alle opere minori fra le minori, le più trascurate anche dagli amanti di Dante. Possiamo scartare subito le Rime, perché sono un laboratorio stilistico tanto vario quanto provvisorio, poiché il “vero” Dante non è né nelle rime giovanile, come Guido, i’ vorrei, né nelle rime petrose, e meno ancora in quelle comico-realistiche, come nella tenzone con Forese Donati. Ci restano la Questio de aqua et terra, le Egloghe e le Epistole. La Questio è un’opera di carattere prettamente scientifico: è un bell’esempio del rigore logico e argomentativo del Nostro, ma non va oltre l’ambito della dissertazione erudita, per quanto brillante, strutturata secondo i rigidi schemi della scolastica (cfr. il nostro saggio La “Questio de acqua et terra” di Dante Alighieri, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 20/09/07, poi su quello dell’Accademia Nuova Italia il 13/08/17). Le Egloghe sono il frutto del suo amore per il Virgilio delle Bucoliche e per la poesia latina pastorale in genere: in esse non troviamo la vena più genuina del Nostro, bensì un Dante in qualche modo manierista, che vuol gareggiare a distanza col suo maestro ideale, e mostrarsi all’altezza di esser considerato suo discepolo. Restano le Epistole, anch’esse in latino. La critica, di solito, le considera importanti quale testimonianza dei pensieri e dei sentimenti “privati” del Poeta, sia pure nel riflesso vivissimo delle vicende drammatiche che fecero da sfondo alla sua vita terrena; insomma come documento storico e biografico. E se fossero proprio le tredici Epistole, invece, e specialmente alcune di esse, molto più che questo: se fossero proprio la chiave che andavamo cercando, per comprendere quale sia la più profonda vocazione di Dante, e perciò quale sia la giusta prospettiva da cui bisogna guardare a tutto l’insieme della sua opera gigantesca, di cui la Commedia è solo la punta del maestoso iceberg?

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 Dante non si risparmia nella missione della quale si sente investito da Dio stesso; altrimenti non direbbe che: "Il Cielo lo ha aiutato a scrivere il suo poema"!

Qual è la vera dimensione di Dante?


di Francesco Lamendola
  
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Vedi anche: 
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La “Questio de acqua et terra” di Dante Alighieri - LA QUESTIO DE AQUA ET TERRA


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