Questo è un momento difficile che dobbiamo guardare e vivere sopratutto con fede, non solo con le misure sanitarie. Qualcosa è nell’aria… e non è solo il virus.
Una riflessione di Giulio Meiattini, monaco presso l’abbazia della Madonna della Scala di Noci (Ba), è professore di teologia al Pontificio ateneo Sant’Anselmo, un’istituzione universitaria cattolica con sede a Roma.
Con qualche esitazione entro nella discussione senza fine, e ormai diciamo pure quasi fuori controllo, sulla diffusione dell’ultimo virus di nuova generazione nel nostro paese e nel mondo. Sarebbe forse meglio tacere, per non amplificare ulteriormente il caso. Tuttavia, il mio piccolo intervento vorrebbe essere proprio un tentativo di “contenere” l’epidemia mediatica e da panico, più che virale, mostrando il punto forse più profondo della nostra vulnerabilità in proposito. Se è vero che il nostro organismo non ha difese immunitarie davanti al nuovo virus (il cui grado di pericolosità, com’è noto, è molto discusso e controverso), è altrettanto vero che noi stiamo subendo soprattutto le conseguenze di una mancanza di anticorpi rispetto a pericoli e minacce che sono diversi da quelli della malattia propriamente detta.
Senza nulla togliere a una legittima, proporzionata e doverosa prudenza e alle misure cautelari di tipo sanitario, l’idea che molti si sono fatti, e che io condivido, è che il problema più serio che sta emergendo è di tipo mentale, culturale e, aggiungerei, spirituale. La verità è che si ha paura, troppa paura. E come diceva Mounier quasi un secolo fa parlando delle crisi dell’occidente, si tratta di una “piccola paura”, cioè una paura miserabile. Il nostro sistema e la nostra mentalità sono da molto, troppo tempo incentrati sulla “tutela”, sulla “sicurezza”, su un concetto esasperato di “salute”, che addirittura, secondo una definizione data dall’OMS già decenni fa, tende a identificarsi non solo con l’assenza di patologie, ma nientedimeno che col benessere. Il che è semplicemente utopico, ma è ormai mentalità.
In realtà, si ha troppa paura di morire, o anche solo di star un po’ male. E in questo momento la paura è spropositata rispetto alla minaccia in atto. E perché? Il motivo forse più profondo, o uno dei principali, penso sia una mancanza di prospettiva futura. Pensiamo un attimo a chi ha fatto l’unità d’Italia o chi ha combattuto in vario modo nella resistenza durante l’ultima guerra mondiale, a chi ha combattuto le guerre americane di indipendenza e persino per chi ha fatto la rivoluzione russa. Per costoro, la patria o la libertà valevano più della vita, perché il futuro era un bene superiore al presente, si pensava alle generazioni future (agendo realmente da adulti-genitori) dando la vita per un avvenire che si sarebbe realizzato. C’era comunque una qualche fede in un futuro (in certi casi anche ideologico o utopico) per il quale comunque valeva anche la pena morire. Analogamente, il credente che preferisce rischiare la vita e perderla, piuttosto che rinnegare la sua fede, ha davanti a sé il futuro eterno, oltremondano, il paradiso. Dunque, sia l’eroe (greco-romano, romantico o rivoluzionario) sia il martire antico (e anche i martiri contemporanei, si pensi alla ex Urss o alla Cina), sono figure emblematiche che rappresentano delle epoche, e hanno fatto epoca.
Ma, come ha fatto notare Baumann, oggi emblema della nostra epoca, non è né il martire cristiano né l’eroe, ma il divo, la celebrità, ovvero il palcoscenico, la visibilità, l’apparire e dunque l’apparenza.
Ciò significa che non disponiamo più di un futuro – l’immortale gloria presso i posteri o l’unità della patria o una società di uguali, il progresso, il paradiso e la vita eterna. La nostra cultura dispone solo del presente, di ciò che appare ora, dell’effimero. E lo vogliamo conservare disperatamente, perché ad esso non ci sono alternative o uscite di sicurezza possibili. Se perdiamo il presente, perdiamo tutto. Siamo giunti al capolinea. Sintomo di questa sindrome narcisistica è il rifiuto di invecchiare e la mancanza di coraggio e desiderio nel generare figli, attestandoci non più su un modello della vita adulta e responsabile verso i posteri, considerati come il nostro futuro, ma sempre più in un modello ideale di vita adolescenziale, l’eterna giovinezza. Ciò non significa che non esistano ancor oggi i martiri e gli eroi, ma essi non sono più additati dalla cultura dominate come modelli educativi e esempi da imitare. Si cerca di emulare il divo, l’uomo di successo. La sconfitta mondana (la morte in per un ideale o il martirio per vivere eternamente con Gesù) non fanno presa. La vita bisogna conservala a tutti i costi, eccetto quando diventa insopportabile o pesante: allora è meglio morire, perché già prima non si aveva un motivo per vivere.
In effetti, non solo non esiste più, per le masse occidentalizzate, un futuro oltre la morte, ma non abbiamo più neppure un futuro storico per cui valga la pena spendere e anche perdere la vita presente. Il filosofo Karl Loewith ha scritto nel secolo scorso un libro famoso: La fine della storia. In realtà l’umanità nata dalla crisi e dalla dissoluzione della modernità, non ha più storia, perché non ha più una mèta, un ultimo approdo, né terreno né ultraterreno (la società senza classi o la liberà della patria o il regno di Dio), e sente di non aver più un futuro “migliore” o un fine ultimo davanti a sé. Per questo neanche il progresso fa più testo. Pro-gressus e pro-gredire significa letteralmente fare un “passo in avanti”, avanzare, il ché suppone un procedere verso una direzione e verso un senso, i quali giudicano se c’è stato o no un avanzamento oppure se si è fuori strada. Oggi si parla sempre meno di progresso e sempre più di “crescita”, che è una parola neutra e proteiforme: una realtà e un corpo qualunque possono crescere sempre in dimensioni, anche a prescindere da un obiettivo. La metropoli contemporanea cresce in questo modo, aggiungendo quartieri e periferie sempre nuovi, in modo estensivo e quantitativo. In questo modello di crescita proteiforme non si perde, ma si accumula, non si avanza, ma ci si appesantisce.
Finito il mito del progresso e della società fatta di uguali, scomparso il Cielo come termine di desiderio, quale futuro ancora resiste? L’utopia superstite, è ormai quella di “uscire dall’umanità”, ormai giunta al capolinea, e accedere al trans-umano, a qualcosa cioè di non più umano, perché oltre-umano, ma che si profila, ahimé, come qualcosa anche di meno che umano. Se una volta la collocazione dell’uomo era vista in una posizione intermedia fra l’animale, da una parte, e gli dèi dall’altra (Esiodo e la Grecia classica) o fra l’animale e gli angeli o fra il mondo infra-umano e Dio, adesso la destinazione dell’uomo è quella di essere una via mediana fra l’animale e la macchina. Un essere umano, cioè, che per un verso regredisce al livello dell’istintualità non raffrenata, che soddisfa tutti i suoi bisogni senza remore (emozionalismo dell’istante) e dall’altro un uomo tecnologicamente trapiantato, munito di protesi e applicazioni sofisticate che lo avvicinano all’assemblato. Per altro verso, l’animale assurge al rango di soggetto avente diritti, compagno di vita e membro familiare a tutti gli effetti (fino a sostituire il figlio o una compagnia umana che non c’è), mentre il robot tende ad assomigliare all’essere umano, simulandone i comportamenti. Cosa è umano, cosa è animale e cosa tecnologico, lo si sa sempre di meno.
Concludendo possiamo dire che l’epidemia in atto, se così può essere chiamata a confronto con le vere e grandi epidemie di peste, vaiolo, colera, che nei secoli passati decimavano la popolazione, in questo momento attinge tutta la sua forza, non dal numero delle vittime o dalla sua obiettiva pericolosità, ma dalla debolezza spirituale dell’umanità, che è aggrappata al suo presente e non vuol perdere nulla, non vuol cedere niente e vuole perpetuarsi crescendo in modo indefinito. Mantenersi in questo stato di crescita permanente e indeterminata (senza scopo se non il crescere stesso), significa esattamente volersi mantenere adolescenti. Per questo si rischia di perdere tutto. Lì dove non c’è qualcosa di più alto e di più prezioso del presente adolescenziale non determinato, dove cioè non esiste un senso ultimo della storia e della vita a cui approdare (neppure l’età adulta dell’illuminismo) e che possa dare ragione della perdita parziale o totale del presente, se non esiste, cioè, qualcosa che valga più della vita, per cui valga la pena anche morire (non come fuga dalla sofferenza, ma come coraggio della convinzione) la vita si spegne, perché la paura uccide più della spada e più dei virus.
Ma la cosa più triste, e preoccupante per il futuro dell’umanità, è che la stessa Chiesa (o meglio gli uomini di Chiesa) hanno dimentica che la grazia di Dio vale più della vita presente. Per questo si chiudono le chiese e ci si allinea ai criteri sanitari e igenici. La chiesa trasformata in agenzia sanitaria, invece che in luogo di salvezza. Ci pensino bene i vescovi a chiudere le chiese e a privare i fedeli dei sacramenti, dell’eucaristia, che è medicina dell’anima e del corpo: chiudere le porte ai cristiani e pensare di potersela cavare con la scienza umana, è chiudere le porte all’aiuto di Dio. E’ confidare nell’uomo, invece che confidare in Dio.
di Giulio Meiattini
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