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lunedì 16 marzo 2020

‘Quasi sempre’ o' Sempre sempre'?

C’è di mezzo papa Benedetto nella guerra tra Re e Zen. Ma a vincere è la Cina



Nella lettera che il decano del sacro collegio Giovanni Battista Re ha scritto il 26 febbraio a tutti i cardinali, in contraddittorio con la precedente lettera a loro indirizzata in settembre dal cardinale Joseph Zen Zekiun, c’è un punto sul quale la divaricazione tra i due porporati è massima.


Nella sua lettera Zen aveva scritto, a proposito dell’accordo provvisorio e segreto del 22 settembre 2018 tra la Santa Sede e la Cina sulla nomina dei vescovi:
“Ho fondamento per credere (e spero un giorno di poter dimostrare con documenti di archivio) che l'accordo firmato è lo stesso che papa Benedetto aveva, a suo tempo, rifiutato di firmare”.
Al che Re ha ribattuto:
“Tale asserzione non corrisponde a verità. Dopo aver preso conoscenza di persona dei documenti esistenti presso l’archivio corrente della segreteria di Stato, sono in grado di assicurare che papa Benedetto XVI aveva approvato il progetto di accordo sulla nomina dei vescovi in Cina, che soltanto nel 2018 è stato possibile firmare”.
La controreplica di Zen è arrivata il 1 marzo in una lettera aperta a Re, nella quale il cardinale cinese scrive:
“Per provare che l’accordo firmato era già stato approvato da Benedetto XVI basta mostrarmi il testo firmato [dell’accordo], che fino ad oggi non mi è stato concesso di vedere, e l’evidenza dell’archivio, che Ella ha potuto verificare. Rimarrebbe solo ancora da spiegare perché allora non è stato firmato”.
In assenza di una documentazione pubblica è difficile dire quale dei due cardinali abbia più ragione.
Alla verità ci si può tuttavia avvicinare se si ripercorre l’intera storia delle relazioni tra la Santa Sede e la Cina durante il pontificato di Benedetto XVI, tra il 2005 e il 2013.
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È quanto ha fatto recentemente uno dei maggiori esperti della Chiesa cattolica cinese, Gianni Criveller, nel capitolo “An Overview of the Catholic Church in Post-Mao China”, apparso nel volume “People, Communities, and the Catholic Church in China”, a cura di Cindy Yik-yi Chu e Paul P. Mariani, edito a Singapore nel 2020.
Criveller, 59 anni, del Pontificio Istituto Missioni Estere, insegna presso la Chinese University e l’Holy Spirit College of Theology and Philosophy di Hong Kong, Il suo saggio è stato integralmente tradotto e pubblicato su “Il Regno”, la più autorevole rivista del campo cattolico progressista italiano.
Il saggio di Criveller è di straordinario interesse, specie là dove tratteggia le differenze tra le due comunità cattoliche in Cina, quella con riconoscimento ufficiale del regime, pesantemente asservita, e quella “sotterranea” ad altissimo grado di rischio, oppure là dove spiega le ragioni e gli effetti della “cinesizzazione” delle religioni e del ritorno al confucianesimo, propugnati dal presidente cinese Xi Jinping.
Ma limitandoci a ciò che Criveller scrive riguardo agli anni del pontificato di Benedetto XVI, egli non esita ad assegnare un’importanza “storica” alla Lettera ai cattolici cinesi scritta da quel papa nel 2007. E a proposito della sorte dei vescovi in quel paese scrive:
“Benedetto XVI chiedeva alle autorità civili di riconoscere i vescovi sotterranei. Tuttavia ammetteva che ‘quasi sempre’ i vescovi ufficiali sono obbligati ad ‘adottare atteggiamenti, compiere gesti e assumere impegni che sono contrari ai dettami della loro coscienza’. Stranamente l’inciso ‘quasi sempre’ venne omesso nella prima traduzione cinese rilasciata dal Vaticano, suscitando la protesta del cardinale Zen. Il papa lasciava che fossero i singoli vescovi a stabilire il miglior percorso di azione da adottare nelle loro situazioni specifiche, ossia se cercare o meno il riconoscimento da parte delle autorità civili”.
Criveller fa notare che “il governo cinese s’impegnò al massimo per sminuire il significato di questa lettera”. E ne fu prova il persistere del regime nell’insediare vescovi illegittimi, cioè non approvati da Roma.
Nel 2006, l’anno prima della pubblicazione della lettera, le ordinazioni illegittime erano state tre. Dopo di che, dal 2007 all’estate del 2010, i nuovi vescovi furono ordinati con il consenso di entrambe le parte, “benché l’approvazione – fa notare Criveller – fosse data sempre in modo indipendente, senza negoziati diretti”.
Ma nell’autunno del 2010 di nuovo la situazione precipitò. La consacrazione illegittima di Guo Jincai come vescovo di Chengde, scrive Criveller, “causò un deterioramento delle relazioni fra il Vaticano e la Cina”. E all’inizio dell’estate successiva altri due vescovi furono consacrati senza l’approvazione del papa: Lei Shiyin a Leshan e Huang Bingzhang a Shantou. L’affronto fu accolto a Roma con tale allarme che per la prima volta la Santa Sede reagì dichiarando pubblicamente la scomunica di quei vescovi insediati dal regime.
Nel frattempo, nel dicembre 2010, si verificò un episodio non meno inquietante, così descritto da Criveller:
“Il governo tenne a Pechino, con molta ostentazione, l’ottava assemblea nazionale dei rappresentanti cattolici. L’ordine del giorno dell’incontro includeva l’elezione dei nuovi vertici dell’Associazione patriottica e della Conferenza dei vescovi [cioè dei due organismi con i quali il regime esercita un ferreo controllo sulla Chiesa cattolica ufficiale - ndr]. Joseph Xing Wenzhi, vescovo ausiliare di Shanghai, si recò malvolentieri a quella controversa assemblea. Una volta lì, vi partecipò con un atteggiamento passivo. Ritornò a Shanghai depresso, scusandosi con il suo clero per non essere stato abbastanza forte da boicottare puramente e semplicemente l’assemblea. Ben presto la vita personale del vescovo imboccò una triste svolta. Il vescovo Xing fu accusato, da parte della polizia segreta, d’avere una relazione con una donna. Fu un’allarmante rappresaglia contro un vescovo che aveva dimostrato il coraggio di resistere alle politiche del governo”.
Nell’aprile del 2012 si tornò a due ordinazioni approvate da entrambe le parti, a Nanchong e Changsha, ma i nuovi ordinati “furono costretti ad accettare come consacranti vescovi illegittimi”.
Poi di nuovo, il 6 luglio di quello stesso anno, vi fu un’altra ordinazione illegittima. Yue Fusheng venne ordinato vescovo di Harbin “nonostante la richiesta rivoltagli dalla Santa Sede di rifiutare l’elezione”. I preti di quella diocesi che si erano opposti furono costretti a scrivere una lettera di sottomissione e a concelebrare con il vescovo illecito. Anche in questo caso la Santa Sede annunciò pubblicamente la scomunica del nuovo vescovo. Il quale, scrive Criveller, “può essere un esempio significativo di come le autorità cinesi sono capaci, a volte, di portare dalla loro parte persone che in precedenza erano state esplicitamente fedeli al papa”.
Anni prima, infatti, l’allora semplice sacerdote Yue aveva fatto parte di una delegazione di preti cinesi autorizzati a partecipare alla messa celebrata a Manila, il 15 gennaio 1995, da Giovanni Paolo II, in visita nelle Filippine per la giornata mondiale della gioventù. E quando all’inizio della messa furono innalzate le bandiere delle varie delegazioni nazionali tra cui la bandiera di Taiwan, e per ritorsione i capi politici della delegazione cinese ordinarono ai loro di abbandonare la cerimonia, proprio Yue fu uno dei pochissimi che ebbero il coraggio di disobbedire e di restare. Mentre oggi egli “è noto per la sua debolezza e la vicinanza al governo”.
Ma ancor più rivelatore del deterioramento dei rapporti tra Santa Sede e Cina, in quel 2012 che è l’ultimo scorcio di pontificato di Benedetto XVI, è ciò che accadde a Shanghai il 7 luglio, con l’ordinazione in cattedrale di Thaddeus Ma Daqin come nuovo vescovo ausiliare. Scrive Criveller:
“Egli venne ordinato con l’approvazione di entrambe le parti. Ma le autorità cinesi imposero la presenza di un vescovo illegittimo, suscitando la costernazione di molti preti, religiosi e laici che decisero di non partecipare al rito. Thaddeus Ma, con un accorto stratagemma, evitò che il vescovo illegittimo imponesse le mani su di lui durante il rito di consacrazione. Verso la fine della messa il nuovo vescovo dichiarò di voler essere il pastore di tutti i fedeli, per cui avrebbe smesso di essere membro della Associazione patriottica. Un video amatoriale del breve discorso del vescovo Ma, pubblicamente applaudito dalle persone presenti nella cattedrale, comparve per alcuni giorni su vari siti internet, finché non venne rimosso.
“Molti considerarono il gesto del vescovo coraggioso e profetico. Ma i funzionari governativi presenti alla messa entrarono in uno stato di grande agitazione e lo portarono via con la forza la sera stessa. I funzionari misero la diocesi sotto investigazione, interrogando preti e suore. Dopo otto anni, Thaddeus Ma è tuttora agli ‘arresti domiciliari’ nel seminario di Sheshan. Le sue ‘confessioni’ del 2016 furono scritte in cattività e non sappiamo se fossero sincere e se egli si fosse pentito o meno per ciò che aveva fatto”.
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Se questa è la trama nota, pubblica, delle relazioni tra la Santa Sede e la Cina riguardo alle nomine dei vescovi tra il 2005 e il 2013, non si capisce come possa comporsi con questa trama l’asserita “approvazione” in quegli stessi anni, da parte di Benedetto XVI, dell’accordo firmato cinque anni dopo. Un accordo di cui è tuttora tenuto segreto il contenuto e che non ha fin qui prodotto alcuna nuova nomina episcopale, a diciotto mesi dalla sua stipula, anzi, è coinciso con un ulteriore “inasprimento” – come Criveller scrive all’inizio del suo saggio – del controllo del regime sulla Chiesa cattolica.
Va inoltre tenuto presente che riguardo alla Cina Benedetto XVI si avvaleva non solo della segreteria di Stato, ma anche di una commissione “ad hoc” di esperti nella quale aveva un peso notevole il cardinale Zen. Commissione mai più convocata durante il pontificato di Francesco.
Non è quindi da escludere che a papa Benedetto siano stati presentati dei progetti di accordo sulla nomina dei vescovi. Così come non si può escludere che la controparte cinese abbia lasciato cadere, in quegli stessi anni, eventuali proposte da parte vaticana.
Ma che l’accordo che il cardinale Re dice “approvato” da Benedetto XVI fosse identico a quello siglato nel 2018 è tutto da dimostrare.
E vista la cronistoria di quegli anni, così come riferita da ultimo da Criveller, la cosa appare inverosimile. A maggior ragione se la si confronta con la “storica” lettera scritta da papa Benedetto ai cattolici cinesi.
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Va aggiunto che la lettera del cardinale Re si inscrive in una fase di intensificazione della politica della “mano tesa” della Santa Sede verso il regime cinese.
La lettera porta la data del 26 febbraio. E il 14 dello stesso mese, a Monaco di Baviera, in margine a una conferenza internazionale, vi è stato, per la prima volta dalla rottura dei rapporti diplomatici nel 1951, un incontro tra i due ministri degli esteri della Santa Sede e della Cina, Paul Richard Gallagher e Wang Yi (nella foto).
La segreteria di Stato vaticana – retta dal cardinale Pietro Parolin ritenuto da Zen il principale colpevole della resa – ha emesso nell’occasione un comunicato dai toni molto elogiativi.
E il 5 marzo, in un videomessaggio diffuso in nove lingue, papa Francesco in persona ha espresso l’auspicio che “i cristiani cinesi siano davvero cristiani e siano buoni cittadini”. Con una raccomandazione che includeva anche un rimprovero ai resistenti: “Devono promuovere il Vangelo ma senza fare proselitismo, e raggiungere l’unità della comunità cattolica”.
Il tutto, fin qui, senza alcun corrispettivo da parte cinese, che ha solo beneficiato di queste aperture vaticane senza pagare il minimo prezzo. Esattamente come per l’accordo del 2018, giustamente definito da Criveller “asimmetrico”.

Settimo Cielo
di Sandro Magister 16 mar

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