Il Cardinale Ciappi, il teologo di papi, da Pio XII a Giovanni Paolo II (all’inizio del suo pontificato): “Il Terzo Segreto dice che la grande apostasia nella Chiesa inizia dal suo vertice. La conferma ufficiale del segreto de La Salette (1846): “La Chiesa subirà una terribile crisi. Essa sarà eclissata. Roma (il Vaticano) perderà la fede e diventare la sede dell’Anticristo “.
ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...
"Ecco perché le chiese non dovevano essere chiuse"
La fede, con la diffusione del coronavirus, deve misurarsi col tema dei sigilli posti ai luoghi di culto, chiese comprese. Ma anche le piscine di Lourdes sono state interessate da provvedimenti che non tutti condividono. Intervista al professor Roberto De Mattei
Le chiese, per più di qualche cattolico, sarebbero dovute rimanere aperte. Con ogni probabilità, più di qualche medico storcerà il naso dinanzi a questa affermazione. Il Professor Roberto De Mattei, presidente della Fondazione Lepanto, ha domandato a grande voce la riapertura delle piscine di Lourdes.
Anche su questo aspetto ci sarebbe da discutere. Ma il "fronte tradizionale" - così come viene spesso chiamato - sembra certo della natura paradossale di certe contromisure adottate dalle autorità ecclesiastiche per evitare la diffusione dei contagi da coronavirus.
Professor De Mattei, condivide la scelta di chiudere le chiese in relazione alla diffusione del coronavirus?
No, non la condivido affatto. Il coronavirus ci pone in una situazione di emergenza, ma nelle situazioni di emergenza il ruolo dei sacerdoti è analogo a quello dei medici. Mi spiego: i sacerdoti devono svolgere sul piano spirituale e morale quello che i medici svolgono sul piano sanitario. I sacerdoti per la cura delle anime, i medici per la cura dei corpi. I consacrati devono essere a disposizione della comunità. Gli ospedali devono essere aperti, certo, ma anche le chiese. Così come tutti i luoghi di ospitalità.
Dunque "sigillarsi" non è cattolico?
Il problema è che la chiusura delle chiese è espressione di una certa impermeabilità spirituale, che oggi dimostrano di avere le autorità ecclesiastiche italiane e non. Chiudendo le chiese, riducendo le messe, togliendo l'acqua benedetta dalle acquasantiere, sconsigliando assembramenti di fedeli, si rinuncia alla missione delle autorità ecclesiastiche stesse.
Ma non è sempre stato così in casi come questi?
Nel 1576, quando scoppiò la peste di Milano (non quella di Manzoni), brillò la carità di San Carlo Borromeo, che si oppose ai magistrati della città che avrebbero voluto proibire le processioni e le preghiere collettive dei fedeli. Borromeo si impuntò. E al centro della città, nel pieno della peste, si svolsero tre grandi processioni in tre giorni diversi. Il cardinale e arcivescovo della città di Milano le guidò a piedi scalzi. Questo è il modo di comportarsi dei pastori nei momenti drammatici della storia.
Ma non avere paura della morte, in questa fase, non è irresponsabile?
No, nei momenti di catastrofe naturale - come questo che riguarda un'epidemia - è giusto che vengano prese tutte le precauzioni possibili, ma accanto alle precauzioni indispensabili e materiali esistono anche quelle spirituali. Una di queste è la preghiera, che deve essere pubblica. Dove non arriva la medicina, può arrivare Dio, a cui tutto è possibile. Nella storia della Chiesa, dai tempi di San Gregorio Magno ad oggi, i cristiani si sono sempre riuniti per contrastare le epidemie. Come? Invocando l'aiuto di Dio. Non si tratta di non avere paura della morte, ma per scampare dalla morte spirituale e fisica bisogna usare anche il rimedio della preghiera.
Per questo si è scagliato contro la chiusura delle piscine di Lourdes?
Quello è il provvedimento più paradossale e contraddittorio tra quelli adottati dalle autorità ecclesiastiche. Se c'è un luogo che, per antonomasia, guarisce i corpi e le anime quello è proprio Lourdes. Ci si immerge nelle piscine proprio perché queste ultime hanno una caratteristica miracolosa: nonostante la patologie dei pellegrini, spesso contagiose, nessuno, in 160 anni, è mai stato infettato.
Lei andrebbe a Lourdes in questa fase?
Se io conoscessi un malato di coronavirus, gli consiglierei di andare a Lourdes. E se io fossi a Lourdes e mi trovassi accanto un malato di coronavirus, sarei certo di non poter essere contagiato. Lourdes protegge di più di una mascherina o di un disinfettante. Chiudere Lourdes vuol dire rinunciare a credere al carattere miracoloso di Lourdes.
Quindi questa "Chiesa in uscita" o "ospedale da campo" si è chiusa a riccio secondo lei?
La Chiesa, così facendo, abbandona le corsie dei suoi ospedali. Chiudere Lourdes vuol dire abbandonare un centro di eccellenza delle guarigioni ecclesiastiche.
Quindi lei non avrebbe chiuso niente?
Avrei chiuso cinema, luoghi pubblici ecc.. Condivido le misure restrittive delle autorità. E penso che la situazione sia più grave di come ci viene presentata. Ma l'unica misura non restrittiva che avrei preso avrebbero riguardato le chiese. La decisione di rimuovere l'acqua benedetta dalle acquasantiere è assurda. Significa equiparare quell'acqua a qualsiasi altro liquido. Ma l'acqua benedetta, per un cristiano, è molto più efficace di qualsiasi amuchina. Questa scelta è comprensibile solo se si vive nell'ateismo teorico o pratico, non se si vive la fede cristiana.
PAROLE VERAMENTE CATTOLICHE di un Vescovo francese sull'epidemia di Coronavirus. Leggete e diffondete
Qui di seguito trovate la traduzione italiana e il testo originale francese con il link che rinvia al sito della Diocesi . Dio benedica questo Vescovo.
Comunicato stampa di Mons. Pascal Roland, Vescovo di Ars-Belley:
Più che l'epidemia di coronavirus, dobbiamo temere l'epidemia di paura. Da parte mia, mi rifiuto di cedere al panico collettivo e di sottomettermi al principio di precauzione che sembra motivare le istituzioni civili. Quindi non intendo impartire istruzioni specifiche per la mia diocesi: i cristiani smetteranno di incontrarsi per pregare? Rinunceranno a trattare e aiutare i loro fratelli? A parte le elementari precauzioni che tutti prendono spontaneamente per non contaminare gli altri quando sono malati, non è opportuno aggiungere altro.
Dovremmo ricordare che in situazioni molto più gravi, quelle delle grandi piaghe, e quando i mezzi sanitari non erano quelli di oggi, le popolazioni cristiane venivano illustrate con passi di preghiera collettivi, nonché con l'aiuto ai malati, l'assistenza ai moribondi e seppellire i defunti. In breve, i discepoli di Cristo non si allontanarono da Dio o si nascosero dai loro simili, ma piuttosto il contrario.
Il panico collettivo a cui stiamo assistendo oggi non rivela la nostra relazione distorta con la realtà della morte? Non manifesta l'ansia che causa la perdita di Dio? Vogliamo nascondere che siamo mortali e, essendo chiusi alla dimensione spirituale del nostro essere, perdiamo terreno. Avendo tecniche sempre più sofisticate ed efficienti, intendiamo dominare tutto e nascondere che non siamo i signori della vita.
A proposito, teniamo presente che la coincidenza di questa epidemia con i dibattiti sulle leggi di bioetica ci ricorda la nostra fragilità umana. Questa crisi globale ha almeno il vantaggio di ricordarci che viviamo in una casa comune, che siamo tutti vulnerabili e interdipendenti e che la cooperazione è più urgente della chiusura dei nostri confini. Inoltre, sembra che tutti abbiamo perso la testa.
In ogni caso, viviamo in bugie. Perché improvvisamente focalizziamo la nostra attenzione solo sul coronavirus? Perché nascondere che ogni anno in Francia l'influenza stagionale banale colpisce tra 2 e 6 milioni di persone e provoca circa 8.000 decessi? Sembra anche che abbiamo eliminato dalla nostra memoria collettiva il fatto che l'alcol è responsabile di 41.000 decessi all'anno e che si stima che 73.000 siano causati dal tabacco.
Lontano da me, quindi, l'idea di prescrivere la chiusura delle chiese, la soppressione delle messe, l'abbandono del gesto di pace durante l'Eucaristia, l'imposizione di questa o quella modalità di comunione considerata più igienica (detto ciò, ognuno può fare comunque), perché una chiesa non è un luogo di rischio, ma un luogo di salvezza. È uno spazio in cui accogliamo colui che è la Vita, Gesù Cristo, e dove, attraverso Lui, con Lui e in Lui, impariamo a vivere insieme. Una chiesa deve rimanere quello che è: un luogo di speranza.
Dovremmo masticare le nostre case? Dovremmo saccheggiare il supermercato del quartiere e accumulare riserve per prepararci ad un assedio? No! Perché un cristiano non teme la morte. È consapevole di essere mortale, ma sa in chi si è affidato. Crede in Gesù, che lo afferma: "Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà; e tutti quelli che vivono e credono in me non moriranno per sempre" (Giovanni 11, 25- 26) Sa di essere abitato e incoraggiato dallo "Spirito di colui che risuscitò Gesù dai morti" (Romani 8:11).
Inoltre, un cristiano non appartiene a se stesso, la sua vita deve essere offerta, perché segue Gesù, che insegna: “Chi vuole salvare la propria vita la perderà; ma chi perde la sua vita per me e il Vangelo la salverà ”(Marco 8:35). Certamente, non è indebitamente esposto, ma nemmeno cerca di preservarsi. Seguendo il suo Maestro e Signore crocifisso, il cristiano impara a donarsi generosamente al servizio dei suoi fratelli più fragili, in vista della vita eterna.
Quindi, non cediamo all'epidemia di paura. Non siamo morti viventi. Come direbbe Papa Francesco: non lasciarti rubare la speranza!
Ci salverà l’Amuchina o l’ostia consacrata? Prima il medico o prima il prete?
Di Stefano Bataloni
Domande che si affacciano in questi giorni di lotta del mondo contro una brutta influenza. E domande che si ripresentano abbastanza puntualmente di fronte alla sofferenza per malattia. Non penso di avere gli strumenti e le competenze per dare risposte soddisfacenti, però quelle sono domande con le quali mi sono confrontato più volte nel corso di una fase importante della mia vita, quella che iniziò nell’estate del 2008.
Il mio secondo figlio, Francesco era nato da poche decine di minuti, ma con quasi 3 mesi di anticipo, il suo peso era di un solo chilogrammo. La sua vita era appesa ad un tubo infilato nella sua trachea e ad una macchina che lo faceva respirare, essendo i suoi polmoni ancora troppo immaturi per farlo da soli. È bastato uno sguardo con Anna e la decisione di battezzarlo seduta stante è arrivata in un attimo. Francesco ricevette il primo sacramento il giorno stesso in cui nacque, in un reparto di terapia intensiva neonatale, per opera di una (santa) infermiera. Seguirono 4 mesi di cure mediche, di gioie e di fatiche, non risparmiammo nulla, ci affidammo a delle brave dottoresse. Francesco ora ha 11 anni, gioca a basket ed è in preparazione per la cresima.
Sempre in quella estate, il fratello maggiore di Francesco, Filippo, si ammala di leucemia. In quei giorni, mai l’avremmo immaginato, iniziò una battaglia che sarebbe durata sei anni. Affrontammo con convinzione la chemioterapia e poi un primo trapianto di midollo osseo. Non ci arrendemmo di fronte ad una seconda recidiva e nemmeno alla terza, che comportarono il ricorso a nuova chemioterapia, a due altri trapianti di midollo e ad una terapia sperimentale. Fummo sempre a fianco a fianco con i medici, fiduciosi nel loro operato e nelle terapie che somministravano, ma eravamo anche sempre con la corona del rosario in mano e centinaia di persone che pregavano per noi, perché sapevamo che la vita di Filippo non era solo nelle mani dei suoi medici. Avremmo potuto fermarci tante volte lungo il percorso di quei sei anni; lo facemmo solo dopo la quarta recidiva. Filippo, negli ultimi suoi giorni, ricevette la prima comunione e l’unzione degli infermi per il tramite di un (santo) prete, e tornò al Cielo al cospetto del Santissimo Sacramento.
Traggo queste conclusioni dalla mia storia. Innanzitutto ringraziamo Dio che oggi possiamo porci quelle domande di cui sopra: c’è stato un tempo, anche molto lungo, in cui l’Amuchina non esisteva e i medici, quando erano a portata di mano, avevano ben poche armi per combattere le malattie. In quel tempo era quasi inevitabile precipitarsi a chiamare il prete per far somministrare i sacramenti al malato.
La scienza medica ha fatto progressi enormi nell’ultimo secolo, non si contano le malattie che hanno afflitto l’umanità e che ora sono state debellate, esistono oggi terapie raffinatissime ed estremamente efficaci, i progressi sono all’ordine del giorno. Eppure la complessità dell’organismo umano, in buona parte svelata, è elevatissima; le diversità tra un individuo e l’altro sono talvolta radicali, l’agire degli stessi medici non è certamente quello di un automa. La medicina, quindi, non è la matematica.
Esiste un margine, che forse mai si esaurirà, in cui la scienza non capisce e non può nulla, ed è proprio lì che l’intervento divino si può contemplare, e si deve invocare, quanto meno da chi professa che Dio è creatore del cielo e della terra. D’altra parte, sempre a mio modesto parere, la questione in fondo è: mi fido più del medico o del prete? Esiste certamente il rischio di credere che la scienza, a causa della sua imperfezione, non possa nulla e che solo Dio e i sacramenti possono guarirci dalle malattie; ma questo io non lo credo: la scienza è un dono di Dio e non può che concorrere alla salvezza dell’uomo. D’altra parte trovo molto più concreto il rischio che alla luce degli odierni prodigiosi progressi tecnici e scientifici ci si affidi soprattutto (quando non unicamente) al medico, considerando il prete quasi inutile o al massimo la proverbiale “ultima spiaggia”, per poi cadere nel panico quando il medico non avesse più risorse.
Ecco perché sebbene le cure sul piano “sanitario” non possano essere confuse con quelle sul piano “spirituale”, entrambe devono comunque necessariamente andare di pari passo, senza che si rinunci alle une o alle altre: che senso avrebbe curare il corpo senza salvare l’anima? Epperò, alla luce della mia esperienza, intimamente io credo che la cura dell’anima, tanto più in un malato, sia più importante.
Mio figlio non è guarito dalla sua malattia, pur, come detto, avendone provate tante. Ma io non sono mai stato lì ad inseguire una terapia piuttosto che un’altra come fosse la medicina ad ogni suo male, come se fosse la chiave della sua felicità. Piuttosto ho cercato, per quanto potevo e nei limiti della sua età, di trasmettergli la fiducia nel fatto che la sua meta finale non era in questa vita, che tutto quanto stesse vivendo era in preparazione di quella. Che lui sia giunto a quella meta è per me una certezza; la consapevolezza di poterlo raggiungere, quando Dio vorrà, non mi pone dubbi sul fatto che io ho soprattutto bisogno del prete e dell’ostia da lui consacrata.
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