ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 18 aprile 2020

Cena populi

Quei pericoli nascosti nell’appello di Bergoglio per la riapertura delle chiese


La “fase 2” della graduale riapertura e ripartenza del Paese si avvicina e la CEI tratta col Governo per la ripresa del culto pubblico. A ciò si aggiunta l’omelia pronunziata stamattina da Bergoglio:

Questa familiarità con il Signore, dei cristiani, è sempre comunitaria. Sì, è intima, è personale ma in comunità. Una familiarità senza comunità, una familiarità senza il Pane, una familiarità senza la Chiesa, senza il popolo, senza i sacramenti è pericolosa.
Può diventare una familiarità – diciamo – gnostica, una familiarità per me soltanto, staccata dal popolo di Dio. La familiarità degli apostoli con il Signore sempre era comunitaria, sempre era a tavola, segno della comunità. Sempre era con il Sacramento, con il Pane. Dico questo perché qualcuno mi ha fatto riflettere sul pericolo che questo momento che stiamo vivendo, questa pandemia che ha fatto che tutti ci comunicassimo anche religiosamente attraverso i media, attraverso i mezzi di comunicazione, anche questa Messa, siamo tutti comunicanti, ma non insieme, spiritualmente insieme. Il popolo è piccolo. C’è un grande popolo: stiamo insieme, ma non insieme. Anche il Sacramento: oggi ce l’avete, l’Eucaristia, ma la gente che è collegata con noi, soltanto la comunione spirituale. E questa non è la Chiesa: questa è la Chiesa di una situazione difficile, che il Signore permette, ma l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i sacramenti. Sempre.
Prima della Pasqua, quando è uscita la notizia che io avrei celebrato la Pasqua in San Pietro vuota, mi scrisse un vescovo – un bravo vescovo: bravo – e mi ha rimproverato. “Ma come mai, è così grande San Pietro, perché non mette 30 persone almeno, perché si veda gente? Non ci sarà pericolo …”. Io pensai: “Ma, questo che ha nella testa, per dirmi questo?”. Io non capii, nel momento. Ma siccome è un bravo vescovo, molto vicino al popolo, qualcosa vorrà dirmi. Quando lo troverò, gli domanderò. Poi ho capito. Lui mi diceva: “Stia attento a non viralizzare la Chiesa, a non viralizzare i sacramenti, a non viralizzare il popolo di Dio. La Chiesa, i sacramenti, il popolo di Dio sono concreti. È vero che in questo momento dobbiamo fare questa familiarità con il Signore in questo modo, ma per uscire dal tunnel, non per rimanerci. E questa è la familiarità degli apostoli: non gnostica, non viralizzata, non egoistica per ognuno di loro, ma una familiarità concreta, nel popolo. La familiarità con il Signore nella vita quotidiana, la familiarità con il Signore nei sacramenti, in mezzo al popolo di Dio. Loro hanno fatto un cammino di maturità nella familiarità con il Signore: impariamo noi a farlo, pure. Dal primo momento, questi hanno capito che quella familiarità era diversa da quello che immaginavano, e sono arrivati a questo. Sapevano che era il Signore, condividevano tutto: la comunità, i sacramenti, il Signore, la pace, la festa.
Boati di giubilo hanno accolto queste parole.
Fuori dal coro come al solito, ci permettiamo di eccepire alcune cose.
Anzitutto non è affatto fonte di gioia che il rito montiniano, che l’epidemia ha per eterogenesi dei fini sottratto al popolo nel cinquantesimo anniversario della sua invenzione ed imposizione, venga nuovamente e massivamente riproposto ai fedeli, vista la sua scarsa affinità con il Cattolicesimo Romano.
In secondo luogo, il discorso di Bergoglio, che ha pure i suoi punti condivisibili e giusti: effettivamente la partecipazione fisica all’offerta del Sacrificio è sostanzialmente differente rispetto alla pia assistenza a funzioni trasmesse in streaming e sebbene Dio dia sempre la grazia sufficiente i Sacramenti sono di estrema e vitale importanza; nasconde velenosissime insidie. Infatti non è nient’altro che la riproposizione di quel “comunitarismo”, quell’ “assemblearismo” che è alla base della nuova visione conciliare e postconciliare (che poi è un misto fra Lutero e Calvino) della messa come Cena del Signore celebrata dal popolo.
Per questo il popolo è importante: perché il popolo è il celebrante e non già l’assistente che offre spiritualmente il Sacrificio.
Per questo non va bene la messa sine populo: non perché il culto pubblico dei cristiani è una forza che si oppone alle forze del male, ma perché senza il popolo non si fa famiglia, comunità e la messa non è sostanzialmente tale.
Tutte idee condannate pesantemente da Pio XII nella sua Mediator Dei:
“Alcuni, difatti, riprovano del tutto le Messe che si celebrano in privato e senza l’assistenza del popolo, quasi che deviino dalla forma primitiva del sacrificio; né manca chi afferma che i sacerdoti non possono offrire la vittima divina nello stesso tempo su parecchi altari, perché in questo modo dissociano la comunità e ne mettono in pericolo l’unità: così non mancano di quelli che arrivano fino al punto di credere necessaria la conferma e la ratifica del Sacrificio da parte del popolo perché possa avere la sua forza ed efficacia.
Erroneamente in questo caso si fa appello alla indole sociale del Sacrificio Eucaristico. Ogni volta, difatti, che il sacerdote ripete ciò che fece il Divin Redentore nell’ultima cena, il sacrificio è realmente consumato, ed esso ha sempre e dovunque, necessariamente e per la sua intrinseca natura, una funzione pubblica e sociale, in quanto l’offerente agisce a nome di Cristo e dei cristiani, dei quali il Divin Redentore è Capo, e l’offre a Dio per la Santa Chiesa Cattolica e per i vivi e i defunti. E ciò si verifica certamente sia che vi assistano i fedeli – che Noi desideriamo e raccomandiamo che siano presenti numerosissimi e ferventissimi – sia che non vi assistano, non essendo in nessun modo richiesto che il popolo ratifichi ciò che fa il sacro ministro.
Sebbene, dunque, da quel che è stato detto risulti chiaramente che il santo Sacrificio della Messa è offerto validamente a nome di Cristo e della Chiesa, né è privo dei suoi frutti sociali, anche se è celebrato senza l’assistenza di alcun inserviente, tuttavia, per la dignità di questo mistero, vogliamo e insistiamo – come sempre volle la Madre Chiesa – che nessun sacerdote si accosti all’altare se non c’è chi gli serva e gli risponda, come prescrive il can. 813″.
Timeo modernistas et dona ferentes quindi … Stiamo attenti ad esultare troppo presto e ad prendere per oro colato tutto quello che di apparentemente giusto e condivisibile i modernisti ci offrono. Non foss’altro che nulla essi hanno in comune col sentire cattolico, non essendo tali.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.