ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 19 aprile 2020

Toccare con mano la carne di Cristo Risorto

Con la fede digitalizzata ciò che è in gioco è la visione stessa della Chiesa e dell’uomo. 
   
                                  
    


Minacciati nella carne dal coronavirus, come San Tommaso sentiamo il bisogno di toccare con mano la carne di Cristo Risorto. A causa della pandemia vediamo spostarsi pericolosamente il peso della realtà sulla dimensione spirituale a discapito di quella materiale e corporea. È urgente che la Chiesa rioccupi il suo luogo e ripopoli gli spazi abbandonati. Da tempo una Chiesa in ritirata dalla scena pubblica ha smesso di occupare spazi e ora col Corona virus, lo stop alle Messe e la digitalizzazione della realtà sacramentale corre il serio pericolo di schiacciarsi su una vaga forma di spiritualità che facilmente può tramutarsi in mera virtualità.

Ricevo questo articolo da un amico, giovane professore di religione che ha studiato teologia nella facoltà spagnola di San Damaso (Madrid).  Una interessante riflessione sui tempi che stiamo vivendo e sui rischi di una Chiesa in ritirata, chiusa in una spiritualità fatta di sacramentalità digitalizzata e comunità in streaming…
Pubblico questo articolo proprio nel giorno in cui nel Vangelo di Giovanni Gesù dice a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!».
Proprio ieri mattina il Papa aveva messo in guardia dal pericolo di una fede gnostica. Senza entrare nel dibattito specializzato, proprio degli addetti ai lavori (i teologi), quando ci si riferisce alla gnosi si vuole in qualche modo sottolineare la dimensione spirituale in detrimento di quella corporale. Si pensa a una pienezza dell’umano e del suo fine riconducibile solo alla sua “anima”. Un teologo antico però, e tanti altri con lui, al riguardo aveva idee del tutto distinte e diceva: “Caro cardo salutis (la carne è il cardine della salvezza).
Questi che potrebbero sembrare semplici accenti su alcune questioni marginali, sono la chiave di volta per la comprensione della realtà e quindi dell’uomo. Quando è in gioco la comprensione del tutto, la ricerca della verità diventa una vera e propria battaglia per trovare il senso delle cose e quindi della “mia vita”, in questa continua oscillazione tra il particolare e l’universale propria dell’uomo. Questa battaglia ha spinto, anche nell’ambito cattolico, alla ricerca di qualcosa di essenziale che contraddistinguesse la propria fede dal resto. Non per allontanarsi dagli altri, ma per cercare l’identità più profonda da offrire all’altro come il vero punto di incontro, senza “accessori” che sviassero l’attenzione da quello che era il cuore della questione, appunto: l’incontro.
Ma nel fondo in gioco non c’era solo la fede cattolica, ma una vera e propria visione dell’uomo. Si cercava una visione antropologica che desse ragione di tutte le dimensioni della persona viste nella loro totalità e unità sostanziale e non semplicemente una visione che sommasse le varie realtà affiancandole l’una all’altra.
In campo teologico questa essenza può essere ritrovata nella comprensione sacramentale del creato e quindi, eminentemente, dell’uomo. La Chiesa che sceglie come sua via l’uomo (cfr. RH), si definisce proprio attraverso questo suo farsi portatrice di questo elemento essenziale. La Chiesa si propone come luogo da abitare, e si presenta come spazio capace di generare la persona, alimentando tutte le sue dimensioni.
E’ necessario sgombrare subito sgombrare il campo da un’identificazione tanto facile quanto letale tra sacramentalità e sacramentalismo come ha fatto notare in maniera approfondita il teologo K.H. Menke. Tra i due termini nonostante la notevole assonanza c’è una differenza significativa. Già, perché è proprio nella relazione tra significante e significato che si gioca tutta la partita e quindi la compressione della fede, della Chiesa e dell’uomo credente agli albori del cattolicesimo, come d’altronde oggi, nel 2020.
L’idea della sacramentalità ci mette in contatto con lo spazio. Uno spazio compreso non come pura materialità, ma come luogo. Il luogo che abita la persona, potremmo dire il luogo che è la condizione di possibilità dell’abitare stesso, non è altro se non il  proprio corpo. Tutti gli altri luoghi e tutti gli altri modi di abitare incontrano nella relazione persona-corpo il riferimento imprescindibile. Per questo appare evidente che tutte le idee che creano una spaccatura, ovvero una dicotomia tra la persona e il suo corpo potremmo definirle antisacramentali. Tutto quelle filosofie che riducono il corpo a una semplice possessione sono antitetiche a una visione integrale sull’uomo.
Alcuni autori antichi comprendevano la persona come “microcosmo”, proprio perché nella persona avveniva una sintesi di tutti i livelli della realtà, riassunti nella dimensione spirituale e materiale. Questa idea ci “connette” subito con il sostanziale bisogno della persona umana di abitare un luogo fisico. La persona umana per essere raggiunta deve essere incontrata in un luogo, deve essere toccata nel corpo. Non è per caso questo il significato dell’incarnazione? L’epifania definitiva del Padre, la sua immagine sostanziale (eikon tou theou Col 1,15). Dio che si fa carne, non per superare la carne ma per trasfigurarla in modo da aprirgli la possibilità da accogliere perfettamente le mozioni dello Spirito.
Queste poche linee spero possano convincerci dell’importanza della carne. Purtroppo oggi a causa dell’ “emergenza” coronavirus vediamo spostarsi pericolosamente  il peso della realtà sulla dimensione spirituale. Questioni tutt’altro che chiuse nella riflessione teologica diventano la prassi pastorale, vedi per esempio la pubblicizzazione della comunione spirituale con tutti i problemi che comporta, e che erano stati sotto i riflettori per un breve lasso di tempo. Di nuovo ci ritroviamo a rincorrere i fatti. Cosa è successo?
Questa “emergenza” sembra averci chiuso gli occhi su parecchie cose. Sembra che nel sentire cattolico, gerarchia e popolo santo (inutile e poco produttivo fare distinzioni anche se le missioni specifiche di ognuno determinano anche la distinzione nell’agire), si siano assuefatti, si stiano sentendo comodi in questa digitalizzazione della realtà sacramentale. Si moltiplicano i canali e gli strumenti per le celebrazioni, le catechesi, gli incontri come se avessimo ammesso inconsciamente che tutto è negoziabile meno la salute.
Credo che questa semplice circostanza (scusate il termine non vorrei offendere la sensibilità di nessuno), per quanto grave, non abbia il potere di traviare in cosi poco tempo le coscienze delle persone. Allora ci potremmo chiedere come si è arrivati a poter barattare in cosi poco tempo la sacramentalità della Chiesa, quindi la sua essenza più profonda in favore di una non ben chiara comunione spirituale?
Vorrei che la mia seguente riflessione venga presa con le dovute precauzioni, non vuole essere un giudizio ne tanto meno un accusa, ma credo che qualcosa vada ripensato, seguendo il parere di autorevoli teologi e non certamente il mio. Credo che il criterio ermeneutico proposto dal Papa, “il tempo è superiore allo spazio”, criterio usato con chiare motivazioni riscontrabili nella lotta, certamente importante, contro il clericalismo e ogni forma di abuso di potere, oggi non possa più essere sostenuto. Tutte quelle tesi che ci obbligano a una quantità di chiarimenti per essere sostenute e non fraintese, quanto meno dovrebbero indurci a ripensare una possibile formulazione delle stesse. A mio parere uno di questi casi è il criterio proposto nella Evangeli Gaudium G 222. Credo che oggi il pericolo che corriamo è molto più grave del clericalismo. Viene messa costantemente in discussione, o viene ritenuta non rilevante, non solo una determina visione di Chiesa, ma una determinata visione dell’uomo.
Col pretesto della superiorità del tempo, la Chiesa è in ritirata dalla scena pubblica, si colloca tra le distinte forze spirituali che in modo più o meno anonimo e in modo più o meno efficace spingono il mondo verso il “progresso”. Si potrà obbiettare che la Chiesa è molto presente nella scena pubblica, ma si sarebbe perso di vista, nuovamente, la modalità della sua presenza. Quindi la domanda potrebbe essere, la Chiesa è oggi presente nella scena pubblica attraverso quello che la definisce, e quindi presenta al mondo ciò che la caratterizza essenzialmente?
Mi sembra di no, ed oggi in un batter d’occhio assistiamo a una fuga dai luoghi dove incontrare le persone, assistiamo ad una assenza “ingombrante” della Chiesa. Abbiamo smesso di incontrare le persone in quel luogo che appartiene ad ognuno: il proprio corpo. E senza toccare il corpo, non possiamo toccare il cuore delle persone, organo di frontiera proprio perché simbolicamente (che non è il contrario di realmente) rappresenta sia ciò che vi è di più spirituale, sia ciò che è “pesantemente” carnale.
Stiamo vivendo nell’illusione che la vita ecclesiale si relazioni con una vaga idea di spirito, “uno stesso sentire” non esplicitamente chiarito. E se al contrario questo “sentire” si riferisse a uno stesso toccare, uno stesso sentire tra le miei mani il Corpo di Cristo, che mi unisce al fratello, al compagno (cum-panis), e mi apre a una relazione originaria insostituibile, all’incontro, quello sì, nel quale mi gioco la totalità della vita.
Credevamo che il mondo avesse occupato tutti i luoghi, e ancora una volta il coronavirus ci ha mostrato che quello che si cerca e proprio la demonizzazione dello spazio, della prossimità, del luogo. La ritirata dell’uomo e della Chiesa dai luoghi già era avvenuta, il coronavirus l’ha solo esplicitata. E’ tempo di aprire gli occhi per scoprire che non ci sono luoghi (I “non luoghi” di Marc Auge) e la Chiesa è chiamata in prima linea in questa, che è la vera guerra, a creare luoghi dove si possa generare la persona, e avendola generato possa poi generare un sentire e una coscienza pienamente ecclesiale e cristiana. Questa generazione, pero, avviene solamente attraverso la vita sacramentale nella quale veniamo inseriti fisicamente nel corpo di Cristo, partecipiamo delle sue relazioni e diveniamo sue membra.
Penso che tutta questa crisi ci obblighi a ripensare l’assioma proposto dal Papa, e riformularlo nella seguente maniera “lo spazio è superiore al tempo”. Questo spazio è stato aperto dalla Croce di Cristo, affinché “siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”. Il luogo non è maledetto, non è fonte di morte, ma di vita, quella vera che non finisce e vince anche il coronavirus.

Ripopoliamo i luoghi, creiamone di nuovi, con prudenza certamente, ma sapendo che lì nel luogo si gioca la nostra identità di uomini e la nostra identità di credenti. È proprio lì, in quella carne che si può ammalare che si gioca tutto. È in quella carne che veniamo salvati, ovvero esprimiamo la pienezza della nostra umanità così come l’ha pensata il Padre guardando al Figlio. Quindi non lasciamo che questa carne venga toccata solo dal virus, lasciamo che la tocchi Cristo nei suoi sacramenti e il fratello nel suo abbraccio, o, al momento almeno, con la sua presenza fisica seppure a una “panca” di distanza.

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