Nolite dare sanctum canibus!
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Pubblico un importante intervento del Prof. Gian Pietro Caliari, sul protocollo per la "celebrazione" delle Sante Messe.
Segnalo agli amici sacerdoti di leggerlo con attenzione, in particolare l'ultima parte.
Nolite dare sanctum canibus! di Gian Pietro Caliari
"Nolite dare sanctum canibus, neque mittatis margaritas vestras ante porcos, ne forte conculcent eas pedibus suis, et conversi dirumpant vos. Non date il santo ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino e, rivoltandosi, vi sbranino” (Matteo 7, 6-7).
Dopo il Discorso delle Beatitudini, l’evangelista Matteo colloca anche questo loghion del Divino Maestro, che all’udirlo - annota l’autore sacro - “le folle erano meravigliate dalle parole di lui, perché trasmesse con l’autorità che era dei maestri (ἦν γὰρ διδάσκων αὐτοὺς ) e non con quella degli scribi (οὐχ ὡς οἱ γραμματεῖς).
I Padri della Chiesa hanno commentato, fin da subito, queste ipsissima verba con limpida e preveggente chiarezza.
Apolinare di Laodicea identificava nel Logos stesso, cioè nel Figlio di Dio, il τὸ ἅγιον (il Santo) e nelle sue parole e azioni le τοὺς μαργαρίτας, perle rare e preziose (cfr. Frammento 31).
Ilario di Poitier, sottolineava invece, che il rischio che cani e porci si rivoltino contro l’annuncio cristiano è generato quando si espone “in maniera confusa l’incarnazione, morte e resurrezione del Verbo” e così i non credenti “a causa della nostra ignoranza di Dio si rivoltino contro di noi con i loro aculei, e frantumino l'incompetenza della nostra fede” (Commentario a Matteo 6,1).
Origine, ammonisce infine i cristiani dal negoziare con "coloro che per la loro imprudenza sono inclini all'ingiustizia, disposti ad ingiuriare e ad adulare per riempirsi lo stomaco”, perché "proprio a causa di ciò con questi non si deve avere nulla in comune […] l’animale è difatti del tutto estraneo alla santificazione” (Frammento 137,1).
Tommaso d’Aquino, con mirabile intuito teologico, proprio nella Sequenza per il Corpus Domini - miracolosamente salvatasi dall’iconoclastia di Annibale Bugnini, ma resa facoltativa o in forma breve - interpreta l’immagine evangelica alla luce del mistero dell’Eucarestia, fonte da cui promana tutta l’energia della Chiesa e culmine cui tende la sua azione (Concilio Vaticano II, Sacrosantum Concilium, 10).
“Ecce Panis Angelorum, Factus cibus viatorum Vere panis filiorum, Non mittendus canibus”, Ecco il Pane degli Angeli, fatto cibo dei viandanti, vero pane dei figli, da non esser gettato ai cani!
Il precetto evangelico ha trovato una sua attuazione anche nel Codice di Diritto Canonico. Il can. 915, infatti, prescrive: “Non siano ammessi alla sacra comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l'irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto”. E il successivo aggiunge: “Colui che è consapevole di essere in peccato grave, non celebri la Messa né comunichi al Corpo del Signore senza avere premesso la confessione sacramentale, a meno che non vi sia una ragione grave e manchi l'opportunità di confessarsi; nel qual caso si ricordi che è tenuto a porre un atto di contrizione perfetta, che include il proposito di confessarsi quanto prima” (CJC can. 916).
Più ampiamente, tuttavia come vedremo, il nolite dare sacrum canibus costituisce il fondamento del dovere-diritto - vale a dire una vera e propria Potestas - affidata da Cristo alla Chiesa di preservare “Il deposito della fede (depositum fidei), contenuto nella sacra Tradizione e nella Sacra Scrittura, e affidato dagli Apostoli alla totalità della Chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori, persevera costantemente nell'insegnamento degli Apostoli e nella comunione, nella frazione del pane e nelle orazioni, in modo che, nel ritenere, praticare e professare la fede trasmessa, si crei una singolare unità di spirito tra Vescovi e fedeli” (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 84).
Alla luce degli ultimi eventi, possiamo senza dubbio affermare che, giuridicamente parlando, il governo ha violato gravemente - grazie al supino asservimento della CEI - la Libertas Ecclesiae, come sancita dalla Costituzione, vale a dire indipendente e sovrana e gli Accordi Internazionali - incluso quello di Villa Madama del 1984 - che lo Stato italiano ha liberamente sottoscritto e che il Parlamento sovrano ha ratifico.
Possiamo, ora, affermare - dimostrandolo - che la CEI si è resa ora complice di una grave violazione di quella Potestas, che non è un potere arbitrario, ma impone alla totalità della Chiesa di perseverare “costantemente nell'insegnamento degli Apostoli e nella comunione, nella frazione del pane e nelle orazioni” (Ibidem)?
La CEI, in buona, sostanza ha acconsentito e anzi operato per dare i Sacra Mysteria in pasto a cani e porci?
Nel diritto, anche quello canonico, il factum, la forma iuris, la res legis et la mens juris sono elementi imprescindibili per poter avere un’autentica interpretatio legis, e conseguentemente valutarne, da ultimo, l’applicabilità.
De Facto. Nella tarda mattinata di giovedì 7 maggio, una nota della CEI annunciava che: “È stato firmato a Palazzo Chigi il Protocollo che permetterà la ripresa delle celebrazioni con il popolo”. E, aggiungeva il Cardinal Gualtiero Bassetti: “Il Protocollo è frutto di una profonda collaborazione e sinergia fra il Governo, il Comitato Tecnico-Scientifico e la CEI, dove ciascuno ha fatto la propria parte con responsabilità”. Così la narrativa ufficiale, con tanto di foto ricordo, senza guanti e mascherine ma a debita distanza di Covid-19!
In realtà, si apprende leggendo le carte che uno sconosciuto funzionario del Ministero degli Interni, Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione (ça va sans dire!) ha inviato una comunicazione al Bassetti “per i profili di competenza” circa un “protocollo per la graduale ripresa delle celebrazioni liturgiche con il popolo” in riferimento al “DPCM del 26 aprile 2020”.
Si è trattato, in realtà, di una notificazione sui generis impropriamente desunta da quanto previsto dal Codice di Procedura Civile. Le leggi vigenti prevedono solo quando “prescritte dalla legge o dal giudice al pubblico ministero, alle parti, al consulente, agli altri ausiliari del giudice e ai testimoni, e dà notizia di quei provvedimenti per i quali è disposta dalla legge tale forma abbreviata di comunicazione” (Codice di Procedura Civile art. 139).
A ben vedere, appare prima facie bizzarro che le parti di un’eventuale accordo, dopo la firma e brindisi d’uso, non se ne vadano soddisfatte ognuno per proprio conto e con relativa copia in tasca, ma invece che una parte - il governo italiano attraverso il ministero degli interni - la notifichi formalmente all’altra, vale a dire alla CEI.
Più che la trasmissione di un funzionario del ministero degli interni appare come la comunicazione di un ufficiale di polizia giudiziaria!
De forma. Il testo firmato ieri s’intitola “Protocollo”. La legislazione italiana conosce un solo tipo di tale fattispecie: il Registro di Protocollo. La giurisprudenza, sia civile, sia penale sia amministrativa, ha definito trattarsi di un atto pubblico di fede privilegiata e, dunque, probatoria. Non certo di un atto negoziale fra due o più parti.
Nel diritto e nella prassi internazionale - e non dimentichiamo che la Costituzione Italiana riconosce che “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani” (art. 7) - il termine protocollo è usato per indicare un atto con il quale si stabiliscono norme integrative rispetto a quelle contenute in un trattato, o si disciplina l'attuazione di un altro trattato in attesa della sua entrata in vigore (protocollo di firma), o si regola una questione specifica.
Aveva facoltà, dunque la capacità ad agire, la CEI di firmare un Protocollo di carattere internazionale con il governo della Repubblica Italiana? La risposta è negativa.
L’Accordo di Villa Madama del 1984 prevede che “Ulteriori materie per le quali si manifesti l'esigenza di collaborazione di collaborazione tra la Chiesa cattolica e lo Stato potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti sia con intese tra le competenti autorità dello Stato e la Conferenza Episcopale Italiana” (art. 13 § 2).
Solo la Sede Apostolica come definita dal can. 361 del CJC, dunque, esercitando una “potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa” (CJC can. 331) che include anche il “diritto nativo e indipendente” (CJC can. 362) di soggetto di Diritto Internazionale, dunque, titolare della facoltà di agire pattiziamente per sottoscrivere Accordi con altri soggetti riconosciuti dal diritto o Protocolli per modificare, derogare, integrare e/o interpretare gli accordi sottoscritti.
Alla CEI dall’Accordo di Villa Madama è riconosciuta la facoltà di addivenire a delle intese.
Le intese sono previste dall’art. 8 della Costituzione per regolare i rapporti delle confessioni religiose non cattoliche con lo Stato “per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”.
Ora, un’intesa consiste in atti contrattuali stipulati ed elaborati all'interno dell'ordinamento statuale tra soggetti qualitativamente ineguali: lo Stato sovrano, da una parte, e le confessioni religiose non sovrane, dall’altra. L’intesa, infatti, è un contratto interno di diritto pubblico, per il quale lo Stato non ha nessuna responsabilità internazionale.
Sulla forma, infine, dobbiamo osservare il modo di apposizione delle firme. A prima vista, ma superficialmente, può essere interpretato come la semplice successione dell’identificazione di tre soggetti dotati di eguale dignità e dunque di corrispondente capacità ad agire.
La prassi protocollare - se così fosse - prevede, allora, la secessione dell’identificazione dei soggetti e dei titoli e delle firme una dopo l’altra, nell’ordine di precedenza stabilito dal protocollo, dall’alto verso il basso.
Un dettaglio - si dirà - ma rivelatore dell’animus juris di chi l’ha redatto. Più che di Protocollo o Intesa, il testo sembra avere la forma dell’edictum imperiale o del rescritto imperiale. Al centro la firma di Giuseppe Conte, auctoritas edicendi, a destra quella del ministro degli interni, auctoritas vigilandi, e - infine - a sinistra il subjectus edictatus, la CEI, appunto.
Questo dettaglio della forma è confermato dalla pronta, solerte e precisa notificazione che lo sconosciuto funzionario del Ministero dell’Interno, quasi esercitando poteri di polizia giudiziaria, ha inviato al cardinal Bassetti.
De objecto. Sui contenuti del testo si possono fare quattro precise osservazioni. Alcune norme sono generi precetti di tipo sanitario (evitare assembramenti, distanze di prevenzione, pulizia e areazione dei luoghi, uso delle mascherine, ecc.) che in alcun modo rientrano nel diritto concordatario ed ecclesiastico e neppure nel diritto canonico o in quello liturgico.
Sarebbe bastato che i Vescovi invitassero i buoni parroci alla prudenza e diligenza. E la paura del contagio avrebbe fatto il resto!
Altre, invece, sono scritte con una vaghezza risibile. “Si consideri l ’ipotesi di incrementare il numero delle celebrazioni liturgiche” (Protocollo 1.5). Quali celebrazioni liturgiche? Sacramenti? Sacramentali? Liturgia delle Ore? Pie pratiche? Saranno, forse, elencate in un prossimo DPCM la notte prima del 18 maggio?
Altre, poi, sono un concentrato di spudorato politically correct: “Si favorisca, per quanto possibile, l’accesso delle persone diversamente abili, prevedendo luoghi appositi per la loro partecipazione alle celebrazioni nel rispetto della normativa vigente” (Ibidem 1.8)
Altre invece ledono gravemente la Potestas Ecclesiae e rappresentano una gravissima violazione sia sub specie teologiae sia sub specie juris ecclesiae della sovrana e suprema autorità della Chiesa Cattolica nel disciplinare la Divina Liturgia.
Il canone 22 della Costituzione Sacrosantum Concilium enuncia: “Regolare la sacra liturgia compete unicamente all'autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede apostolica e, a norma del diritto, nel vescovo. […] Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica”.
Il CJC recepisce in pieno questo preciso insegnamento del Vaticano II quando dispone che “regolare la sacra liturgia dipende dall’autorità della Chiesa: ciò compete propriamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto, al Vescovo diocesano” (CJC 838 § 1) e, dopo aver affidato alle Conferenze episcopali la mera pubblicazione dei libri liturgici e il compito di “vigilare perché le norme liturgiche siano osservate ovunque fedelmente” (Ibidem § 2) ribadisce che “al Vescovo diocesano nella Chiesa a lui affidata spetta, entro i limiti della sua competenza, dare norme in materia liturgica, alle quali tutti sono tenuti” (Ibidem § 4).
Alla luce di questo, né l’attuale inquilino di Palazzo Chigi né quello degli uffici della CEI avevano e hanno alcuna potestas circa l’ordinamento generale della liturgia cattolica.
Norme come quelle fissate dal Protocollo che tendono a regolare il numero di celebranti e ministri (3.1.), lo svolgimento del canto sacro (3.2), le modalità della distribuzione dell’Eucarestia (3.4) sono pertanto nulle ex tunc, sia per lo Stato sia per la Chiesa.
Giova ricordare, in particolare riguardo alla santa Comunione, quanto disposto dalla Redemptoris Sacramentum - che si limita a riassumere quanto già disposto da la Concilio di Trento (Sessio XXI), dal Vaticano Secondo (Sacrosatum Concilium) e dalla Institutio Generalis Missali Romani e del Diritto Canonico (Libro IV, Parte I, Titolo III).
Nella distribuzione della santa Comunione “i fedeli si comunicano in ginocchio o in piedi” (n. 90); “i ministri sacri non possono negare i sacramenti a coloro che li chiedano opportunamente, siano disposti nel debito modo e non abbiano dal diritto la proibizione di riceverli […] Non è lecito, quindi, negare a un fedele la santa Comunione, per la semplice ragione, ad esempio, che egli vuole ricevere l’Eucarestia in ginocchio oppure in piedi” (n. 91); “benché ogni fedele abbia sempre il diritto di ricevere, a sua scelta, la santa Comunione in bocca, se un comunicando, nelle regioni in cui la Conferenza dei Vescovi, con la conferma da parte della Sede Apostolica, lo abbia permesso, vuole ricevere il Sacramento sulla mano, gli sia distribuita la sacra ostia […] Se c’è pericolo di profanazione, non sia distribuita la santa Comunione sulla mano dei fedeli” (n. 92).
Il Protocollo sancisce poi: ”La celebrazione del sacramento della Confermazione è rinviata” (3.10). Perché è più contagiosa? E le prime comunioni? Le ordinazioni diaconali o sacerdotali o episcopali?
In ogni caso, così dispone il diritto generale della Chiesa: “Il Vescovo diocesano è tenuto all'obbligo di curare che il sacramento della confermazione sia conferito ai sudditi che lo richiedono nel dovuto modo e ragionevolmente” (CJC can. 885 - §1). E non può certo un ordine firmato dal signor Conte far cadere in prescrizione di tale obbligo degli Ordinari.
Il Protocollo, infine, invita a ricordare “la dispensa dal precetto festivo per motivi di età e di salute” (5.2)
La dispensa, ossia l'esonero dall'osservanza di una legge puramente ecclesiastica in un caso particolare, può essere concessa solo da quelli che godono di potestà esecutiva, entro i limiti della loro competenza, e altresì da quelli cui compete (cfr. CJC can. 85).
Non risulta, evidente, la natura della potestas dispensatoria del Presidente del Consiglio dei Ministri, perché nell’ordinamento civile la norma è obbligatoria, né quella del Cardinale Bassetti per quella ecclesiastica, che la detiene limitatamente alla diocesi di cui è il legittimo Ordinario.
De ratione et mente. Dobbiamo, infine, interrogarci sulla mens del legislatore, infatti, anche quest’ultimo aspetto è rilevante sia in campo civilistico sia in quello canonistico.
Ancor di più il legislatore era competente, aveva facoltà e giurisdizione per porre insieme all’atto (il protocollo) la sua legittimità e, di conseguenza, la sua cogenza?
Il Protocollo, infatti, prepone a sua fondatezza giuridica il DPCM del 26 aprile 2020.
Per Giuseppe Conte e i suoi DPCM siamo, è il caso di osservarlo, ma anche di affermarlo chiaramente, di fronte al caso conclamato di sovvertimento dell’Ordine Costituzionale.
L’Ordinamento Costituzionale della Repubblica Italiana è fondato sul principio di legalità e sul rispetto della riserva di legge.
La Costituzione Repubblicana, poi, - nonostante la questione sia stata dibattuta dai costituenti -non prevede la dichiarazione dello “stato di emergenza”ma esclusivamente “lo stato di guerra” (ex art. 78 Cost.).
Basti solo ricordare, come nel corso dei lavori della Prima Sottocommissione della Commissione Costituente dei 75, una proposta normativa che – ispirandosi all’art. 19 alla coeva Costituzione francese – prevedeva che i diritti assicurati in Costituzione possano essere sospesi con i limiti e le garanzie offerte dalla legge per un periodo di tempo limitato “quando la Repubblica è proclamata in pericolo” fu decisamente contrastata, proprio evidenziandone la pericolosità (B.CHERCHI, Stato d’assedio e sospensione delle libertà nei lavori dell’Assemblea costituente, in: Rivista trimestrale diritto pubblico, 1981, 1121 ss.).
Emblematico del rifiuto dei Costituenti di sottomettere il futuro ordinamento al principio della Salus Rei Pubblicae Suprema Lex, fu l’intervento del Presidente della Prima Commissione della Commissione dei 75, La Rocca: “L’unica Costituzione che parla di questo fu quella di Weimar e sappiamo come l’applicazione di questo principio abbia spianato la via alla dittatura” ( B.CHERCHI, op.cit., 1131).
Una precisa scelta costituzionale e politica quella dei Padri Costituenti che è stata, anche di recente, così autorevolmente commentata dal Presidente della Corte Costituzionale, Giudice Marta Cartabia: “La nostra Costituzione non contempla un diritto speciale per lo stato di emergenza sul modello dell’art. 48 della Costituzione di Weimar o dell’art. 16 della Costituzione francese, dell’art. 116 della Costituzione spagnola o dell’art. 48 della Costituzione ungherese. Si tratta di una scelta consapevole. Nella Carta costituzionale non si rinvengono clausole di sospensione dei diritti fondamentali da attivarsi nei tempi eccezionali, né previsioni che in tempi di crisi consentano alterazioni nell’assetto dei poteri” (Corte Costituzionale, Relazione Annuale 28 aprile 2020, p. 25).
Che continuando precisava: “La Repubblica ha attraversato varie situazioni di emergenza e di crisi […] che sono stati affrontati senza mai sospendere l’ordine costituzionale, ma ravvisando all’interno di esso quegli strumenti che permettessero di modulare i principi costituzionali in base alle specificità della contingenza: necessità, proporzionalità, bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità sono i criteri con cui, secondo la giurisprudenza costituzionale, in ogni tempo deve attuarsi la tutela «sistemica e non frazionata» dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione e dei relativi limiti” (Ibidem p. 26).
A fondamento dell’Ordine Repubblicano, inoltre, i Costituenti hanno posto il “riconoscimento” e la “garanzia” da parte dell’Ordinamento stesso “dei diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità “ (art. 2 Cost.).
Tali “diritti inviolabili” non discendono dall’Ordinamento, ma ne costituiscono l’essenza stessa e per questo sono imprescindibili, perché insiti nella natura umana e un loro sovvertimento, non rappresenterebbe una mera violazione o un temporaneo vulnus dell’Ordinamento, bensì un vero e proprio sovvertimento dello Stato repubblicano.
Come attentamente ha osservato la Corte Costituzionale nella sua Sentenza 1146 del 1988: “La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Questi principi, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all‟essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana ed hanno, quindi, una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale”
Essi, infatti, sono per loro natura indisponibili, irrinunciabili, imprescrittibili e pertanto non soggetti alla potestà del legislatore, persino in sede di revisione costituzione (cfr. Corte Costituzionale, Sentenza n. 18 del 1982, Sentenza 170 del 1984 e Sentenza 366 del 1993).
Pertanto, occorre osservare che il mero atto amministrativo del DPCM sono nulli ex tunc essendo stati emanati al fine di comprimere libertà e diritti che sono per antonomasia insopprimibili, inviolabili e irrinunciabili.
Dal punto di vista della legalità repubblicana, dunque, la mens e la ratio del legislatore era, intenzionalmente o inconsciamente, viziata perchè diretta a sovvertire l’ordine dello Stato.
Parimenti, dobbiamo chiederci: il cardinal Bassetti come Presidente della CEI era titolare a negoziare con lo Stato materie che il Diritto Generale della Chiesa riserva alla Sede Apostolica o agli Ordinari? ”Ferma restando la potestà di istituzione divina che il Vescovo ha nella sua Chiesa particolare […] il Vescovo esercita il ministero affidatogli non soltanto quando disimpegna nella diocesi le funzioni che gli sono proprie, ma anche quando coopera con i confratelli nell’Episcopato nei diversi organismi episcopali sovradiocesani (Apostolorum Successores n 65-66).
E “a parte i casi in cui la legge della Chiesa o uno speciale mandato della Sede Apostolica abbia loro attribuito potere vincolante, l’azione congiunta propria di queste assemblee episcopali deve avere, come criterio primario di azione, il delicato e attento rispetto della responsabilità personale di ciascun Vescovo in relazione alla Chiesa universale e alla Chiesa particolare a lui affidata” (Ibidem n. 68)
Era il presidente della CEI titolato, aveva cioè competenza, facoltà e capacità di agire per negoziare le condizioni della Libertas Ecclesiae e della stessa Potestas Ecclesiae con lo Stato italiano?
Il Codice di Diritto Canonico dispone che “ai Legati del Romano Pontefice è affidato l'ufficio di rappresentare stabilmente lo stesso Romano Pontefice presso le Chiese particolari o anche presso gli Stati e le Autorità pubbliche cui sono stati inviati” (can. 363 § 1). Stabilisce, poi, che “é inoltre compito peculiare del Legato pontificio che esercita contemporaneamente una legazione presso gli Stati secondo le norme del diritto internazionale: 1) promuovere e sostenere le relazioni fra la Sede Apostolica e le Autorità dello Stato; 2) affrontare le questioni che riguardano i rapporti fra Chiesa
e Stato; trattare in modo particolare la stipulazione e l'attuazione dei concordati e delle altre convenzioni similari” (can. 365).
Il Regolamento della CEI dispone, poi: “Nel rispetto delle debite competenze e per il tramite della Presidenza, la Conferenza tratta con le Autorità civili le questioni di carattere nazionale che interessano le relazioni tra la Chiesa e lo Stato in Italia, anche in vista della stipulazione di intese che si rendessero opportune su determinate materie. Nelle materie ad essa eventualmente demandate da accordi tra la Santa Sede e lo Stato Italiano, la Conferenza agisce entro gli ambiti e secondo le procedure previsti dagli specifici mandati ricevuti dalla stessa Sede Apostolica” (art. 3 § 3 e 4).
E aggiunge: “Nel quadro delle finalità di cui all’art. 3, la C.E.I. ha competenza: a) nelle questioni di carattere nazionale che riguardano la vita, l’azione pastorale e la presenza della Chiesa in Italia, in conformità alle specifiche disposizioni del codice di diritto canonico e sempre che non si tratti di materia per natura sua o per superiore disposizione riservata alla Sede Apostolica; b) nelle materie ad essa demandate dal diritto universale o dalla Sede Apostolica o da accordi stipulati tra la Santa Sede e lo Stato Italiano” (Regolamento CEI art. 7).
Qualcuno si chiedeva in passato: “C’è ancora un giudice a Berlino?”
Dobbiamo chiederci, oggi, ma c’è ancora un legato papale, vale a dire un Nunzio Apostolico, accreditato presso il Quirinale? Se sì, dove si è nascosto? Che fine ha fatto? O che è in tutt’altro indaffarato a fare?
Dobbiamo e possiamo chiederci la CEI e il suo presidente, nottetempo come si conviene in questi casi, ha ricevuto “specifici mandati dalla stessa Sede Apostolica” in merito al suo negoziato con il governo? Se sì, quali erano i termini di tale mandato? O come l’accordo fra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese il mandato ricevuto dalla Sede Apostolica è stato secretato?
In ogni caso, per tutte le ragioni elencate il Protocollo giuridicamente, sia sotto il profilo della legalità repubblicana sia sotto quello canonico-ecclesiastico, non vale la carta su cui è stato scritto.
Dal 18 maggio, tuttavia, parroci e pastori faranno bene ad avere a disposizione e a ben conoscere gli articoli 403, 404, 405, e 409 del Codice Penale della Repubblica Italiana e ad agire prontamente di conseguenza, nel malcapitato caso che qualcuno osi entrare in Chiesa per verificare gli adempimenti disposti dal Protocollo firmato dal Presidente della CEI.
Calligone il castrato, maestro di corte di Valentiniano II, rimproverando Sant’Ambrogio per essersi erto contro l’imperatore a difesa della Libertas et Potestas Ecclesiae, così minaccio il santo vescovo di Milano: “Come, me vivente, tu osi disprezzare Valentiniano? Io ti spaccherò il capo”.
“Che Dio te lo permetta! – rispose Ambrogio - Io soffrirò allora ciò che soffrono i Vescovi e tu avrai fatto ciò che sanno fare gli eunuchi”.
In questa contemporanea e stantia saga di un Pasticcio Brutto, che si è consumato fra Circonvallazione Aurelia 50 e Piazza Colonna 370 è ormai ben difficile capire chi siano i vescovi e chi i castrati.
Segnalo agli amici sacerdoti di leggerlo con attenzione, in particolare l'ultima parte.
Nolite dare sanctum canibus! di Gian Pietro Caliari
"Nolite dare sanctum canibus, neque mittatis margaritas vestras ante porcos, ne forte conculcent eas pedibus suis, et conversi dirumpant vos. Non date il santo ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino e, rivoltandosi, vi sbranino” (Matteo 7, 6-7).
Dopo il Discorso delle Beatitudini, l’evangelista Matteo colloca anche questo loghion del Divino Maestro, che all’udirlo - annota l’autore sacro - “le folle erano meravigliate dalle parole di lui, perché trasmesse con l’autorità che era dei maestri (ἦν γὰρ διδάσκων αὐτοὺς ) e non con quella degli scribi (οὐχ ὡς οἱ γραμματεῖς).
I Padri della Chiesa hanno commentato, fin da subito, queste ipsissima verba con limpida e preveggente chiarezza.
Apolinare di Laodicea identificava nel Logos stesso, cioè nel Figlio di Dio, il τὸ ἅγιον (il Santo) e nelle sue parole e azioni le τοὺς μαργαρίτας, perle rare e preziose (cfr. Frammento 31).
Ilario di Poitier, sottolineava invece, che il rischio che cani e porci si rivoltino contro l’annuncio cristiano è generato quando si espone “in maniera confusa l’incarnazione, morte e resurrezione del Verbo” e così i non credenti “a causa della nostra ignoranza di Dio si rivoltino contro di noi con i loro aculei, e frantumino l'incompetenza della nostra fede” (Commentario a Matteo 6,1).
Origine, ammonisce infine i cristiani dal negoziare con "coloro che per la loro imprudenza sono inclini all'ingiustizia, disposti ad ingiuriare e ad adulare per riempirsi lo stomaco”, perché "proprio a causa di ciò con questi non si deve avere nulla in comune […] l’animale è difatti del tutto estraneo alla santificazione” (Frammento 137,1).
Tommaso d’Aquino, con mirabile intuito teologico, proprio nella Sequenza per il Corpus Domini - miracolosamente salvatasi dall’iconoclastia di Annibale Bugnini, ma resa facoltativa o in forma breve - interpreta l’immagine evangelica alla luce del mistero dell’Eucarestia, fonte da cui promana tutta l’energia della Chiesa e culmine cui tende la sua azione (Concilio Vaticano II, Sacrosantum Concilium, 10).
“Ecce Panis Angelorum, Factus cibus viatorum Vere panis filiorum, Non mittendus canibus”, Ecco il Pane degli Angeli, fatto cibo dei viandanti, vero pane dei figli, da non esser gettato ai cani!
Il precetto evangelico ha trovato una sua attuazione anche nel Codice di Diritto Canonico. Il can. 915, infatti, prescrive: “Non siano ammessi alla sacra comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l'irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto”. E il successivo aggiunge: “Colui che è consapevole di essere in peccato grave, non celebri la Messa né comunichi al Corpo del Signore senza avere premesso la confessione sacramentale, a meno che non vi sia una ragione grave e manchi l'opportunità di confessarsi; nel qual caso si ricordi che è tenuto a porre un atto di contrizione perfetta, che include il proposito di confessarsi quanto prima” (CJC can. 916).
Più ampiamente, tuttavia come vedremo, il nolite dare sacrum canibus costituisce il fondamento del dovere-diritto - vale a dire una vera e propria Potestas - affidata da Cristo alla Chiesa di preservare “Il deposito della fede (depositum fidei), contenuto nella sacra Tradizione e nella Sacra Scrittura, e affidato dagli Apostoli alla totalità della Chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori, persevera costantemente nell'insegnamento degli Apostoli e nella comunione, nella frazione del pane e nelle orazioni, in modo che, nel ritenere, praticare e professare la fede trasmessa, si crei una singolare unità di spirito tra Vescovi e fedeli” (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 84).
Alla luce degli ultimi eventi, possiamo senza dubbio affermare che, giuridicamente parlando, il governo ha violato gravemente - grazie al supino asservimento della CEI - la Libertas Ecclesiae, come sancita dalla Costituzione, vale a dire indipendente e sovrana e gli Accordi Internazionali - incluso quello di Villa Madama del 1984 - che lo Stato italiano ha liberamente sottoscritto e che il Parlamento sovrano ha ratifico.
Possiamo, ora, affermare - dimostrandolo - che la CEI si è resa ora complice di una grave violazione di quella Potestas, che non è un potere arbitrario, ma impone alla totalità della Chiesa di perseverare “costantemente nell'insegnamento degli Apostoli e nella comunione, nella frazione del pane e nelle orazioni” (Ibidem)?
La CEI, in buona, sostanza ha acconsentito e anzi operato per dare i Sacra Mysteria in pasto a cani e porci?
Nel diritto, anche quello canonico, il factum, la forma iuris, la res legis et la mens juris sono elementi imprescindibili per poter avere un’autentica interpretatio legis, e conseguentemente valutarne, da ultimo, l’applicabilità.
De Facto. Nella tarda mattinata di giovedì 7 maggio, una nota della CEI annunciava che: “È stato firmato a Palazzo Chigi il Protocollo che permetterà la ripresa delle celebrazioni con il popolo”. E, aggiungeva il Cardinal Gualtiero Bassetti: “Il Protocollo è frutto di una profonda collaborazione e sinergia fra il Governo, il Comitato Tecnico-Scientifico e la CEI, dove ciascuno ha fatto la propria parte con responsabilità”. Così la narrativa ufficiale, con tanto di foto ricordo, senza guanti e mascherine ma a debita distanza di Covid-19!
In realtà, si apprende leggendo le carte che uno sconosciuto funzionario del Ministero degli Interni, Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione (ça va sans dire!) ha inviato una comunicazione al Bassetti “per i profili di competenza” circa un “protocollo per la graduale ripresa delle celebrazioni liturgiche con il popolo” in riferimento al “DPCM del 26 aprile 2020”.
Si è trattato, in realtà, di una notificazione sui generis impropriamente desunta da quanto previsto dal Codice di Procedura Civile. Le leggi vigenti prevedono solo quando “prescritte dalla legge o dal giudice al pubblico ministero, alle parti, al consulente, agli altri ausiliari del giudice e ai testimoni, e dà notizia di quei provvedimenti per i quali è disposta dalla legge tale forma abbreviata di comunicazione” (Codice di Procedura Civile art. 139).
A ben vedere, appare prima facie bizzarro che le parti di un’eventuale accordo, dopo la firma e brindisi d’uso, non se ne vadano soddisfatte ognuno per proprio conto e con relativa copia in tasca, ma invece che una parte - il governo italiano attraverso il ministero degli interni - la notifichi formalmente all’altra, vale a dire alla CEI.
Più che la trasmissione di un funzionario del ministero degli interni appare come la comunicazione di un ufficiale di polizia giudiziaria!
De forma. Il testo firmato ieri s’intitola “Protocollo”. La legislazione italiana conosce un solo tipo di tale fattispecie: il Registro di Protocollo. La giurisprudenza, sia civile, sia penale sia amministrativa, ha definito trattarsi di un atto pubblico di fede privilegiata e, dunque, probatoria. Non certo di un atto negoziale fra due o più parti.
Nel diritto e nella prassi internazionale - e non dimentichiamo che la Costituzione Italiana riconosce che “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani” (art. 7) - il termine protocollo è usato per indicare un atto con il quale si stabiliscono norme integrative rispetto a quelle contenute in un trattato, o si disciplina l'attuazione di un altro trattato in attesa della sua entrata in vigore (protocollo di firma), o si regola una questione specifica.
Aveva facoltà, dunque la capacità ad agire, la CEI di firmare un Protocollo di carattere internazionale con il governo della Repubblica Italiana? La risposta è negativa.
L’Accordo di Villa Madama del 1984 prevede che “Ulteriori materie per le quali si manifesti l'esigenza di collaborazione di collaborazione tra la Chiesa cattolica e lo Stato potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti sia con intese tra le competenti autorità dello Stato e la Conferenza Episcopale Italiana” (art. 13 § 2).
Solo la Sede Apostolica come definita dal can. 361 del CJC, dunque, esercitando una “potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa” (CJC can. 331) che include anche il “diritto nativo e indipendente” (CJC can. 362) di soggetto di Diritto Internazionale, dunque, titolare della facoltà di agire pattiziamente per sottoscrivere Accordi con altri soggetti riconosciuti dal diritto o Protocolli per modificare, derogare, integrare e/o interpretare gli accordi sottoscritti.
Alla CEI dall’Accordo di Villa Madama è riconosciuta la facoltà di addivenire a delle intese.
Le intese sono previste dall’art. 8 della Costituzione per regolare i rapporti delle confessioni religiose non cattoliche con lo Stato “per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”.
Ora, un’intesa consiste in atti contrattuali stipulati ed elaborati all'interno dell'ordinamento statuale tra soggetti qualitativamente ineguali: lo Stato sovrano, da una parte, e le confessioni religiose non sovrane, dall’altra. L’intesa, infatti, è un contratto interno di diritto pubblico, per il quale lo Stato non ha nessuna responsabilità internazionale.
Sulla forma, infine, dobbiamo osservare il modo di apposizione delle firme. A prima vista, ma superficialmente, può essere interpretato come la semplice successione dell’identificazione di tre soggetti dotati di eguale dignità e dunque di corrispondente capacità ad agire.
La prassi protocollare - se così fosse - prevede, allora, la secessione dell’identificazione dei soggetti e dei titoli e delle firme una dopo l’altra, nell’ordine di precedenza stabilito dal protocollo, dall’alto verso il basso.
Un dettaglio - si dirà - ma rivelatore dell’animus juris di chi l’ha redatto. Più che di Protocollo o Intesa, il testo sembra avere la forma dell’edictum imperiale o del rescritto imperiale. Al centro la firma di Giuseppe Conte, auctoritas edicendi, a destra quella del ministro degli interni, auctoritas vigilandi, e - infine - a sinistra il subjectus edictatus, la CEI, appunto.
Questo dettaglio della forma è confermato dalla pronta, solerte e precisa notificazione che lo sconosciuto funzionario del Ministero dell’Interno, quasi esercitando poteri di polizia giudiziaria, ha inviato al cardinal Bassetti.
De objecto. Sui contenuti del testo si possono fare quattro precise osservazioni. Alcune norme sono generi precetti di tipo sanitario (evitare assembramenti, distanze di prevenzione, pulizia e areazione dei luoghi, uso delle mascherine, ecc.) che in alcun modo rientrano nel diritto concordatario ed ecclesiastico e neppure nel diritto canonico o in quello liturgico.
Sarebbe bastato che i Vescovi invitassero i buoni parroci alla prudenza e diligenza. E la paura del contagio avrebbe fatto il resto!
Altre, invece, sono scritte con una vaghezza risibile. “Si consideri l ’ipotesi di incrementare il numero delle celebrazioni liturgiche” (Protocollo 1.5). Quali celebrazioni liturgiche? Sacramenti? Sacramentali? Liturgia delle Ore? Pie pratiche? Saranno, forse, elencate in un prossimo DPCM la notte prima del 18 maggio?
Altre, poi, sono un concentrato di spudorato politically correct: “Si favorisca, per quanto possibile, l’accesso delle persone diversamente abili, prevedendo luoghi appositi per la loro partecipazione alle celebrazioni nel rispetto della normativa vigente” (Ibidem 1.8)
Altre invece ledono gravemente la Potestas Ecclesiae e rappresentano una gravissima violazione sia sub specie teologiae sia sub specie juris ecclesiae della sovrana e suprema autorità della Chiesa Cattolica nel disciplinare la Divina Liturgia.
Il canone 22 della Costituzione Sacrosantum Concilium enuncia: “Regolare la sacra liturgia compete unicamente all'autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede apostolica e, a norma del diritto, nel vescovo. […] Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica”.
Il CJC recepisce in pieno questo preciso insegnamento del Vaticano II quando dispone che “regolare la sacra liturgia dipende dall’autorità della Chiesa: ciò compete propriamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto, al Vescovo diocesano” (CJC 838 § 1) e, dopo aver affidato alle Conferenze episcopali la mera pubblicazione dei libri liturgici e il compito di “vigilare perché le norme liturgiche siano osservate ovunque fedelmente” (Ibidem § 2) ribadisce che “al Vescovo diocesano nella Chiesa a lui affidata spetta, entro i limiti della sua competenza, dare norme in materia liturgica, alle quali tutti sono tenuti” (Ibidem § 4).
Alla luce di questo, né l’attuale inquilino di Palazzo Chigi né quello degli uffici della CEI avevano e hanno alcuna potestas circa l’ordinamento generale della liturgia cattolica.
Norme come quelle fissate dal Protocollo che tendono a regolare il numero di celebranti e ministri (3.1.), lo svolgimento del canto sacro (3.2), le modalità della distribuzione dell’Eucarestia (3.4) sono pertanto nulle ex tunc, sia per lo Stato sia per la Chiesa.
Giova ricordare, in particolare riguardo alla santa Comunione, quanto disposto dalla Redemptoris Sacramentum - che si limita a riassumere quanto già disposto da la Concilio di Trento (Sessio XXI), dal Vaticano Secondo (Sacrosatum Concilium) e dalla Institutio Generalis Missali Romani e del Diritto Canonico (Libro IV, Parte I, Titolo III).
Nella distribuzione della santa Comunione “i fedeli si comunicano in ginocchio o in piedi” (n. 90); “i ministri sacri non possono negare i sacramenti a coloro che li chiedano opportunamente, siano disposti nel debito modo e non abbiano dal diritto la proibizione di riceverli […] Non è lecito, quindi, negare a un fedele la santa Comunione, per la semplice ragione, ad esempio, che egli vuole ricevere l’Eucarestia in ginocchio oppure in piedi” (n. 91); “benché ogni fedele abbia sempre il diritto di ricevere, a sua scelta, la santa Comunione in bocca, se un comunicando, nelle regioni in cui la Conferenza dei Vescovi, con la conferma da parte della Sede Apostolica, lo abbia permesso, vuole ricevere il Sacramento sulla mano, gli sia distribuita la sacra ostia […] Se c’è pericolo di profanazione, non sia distribuita la santa Comunione sulla mano dei fedeli” (n. 92).
Il Protocollo sancisce poi: ”La celebrazione del sacramento della Confermazione è rinviata” (3.10). Perché è più contagiosa? E le prime comunioni? Le ordinazioni diaconali o sacerdotali o episcopali?
In ogni caso, così dispone il diritto generale della Chiesa: “Il Vescovo diocesano è tenuto all'obbligo di curare che il sacramento della confermazione sia conferito ai sudditi che lo richiedono nel dovuto modo e ragionevolmente” (CJC can. 885 - §1). E non può certo un ordine firmato dal signor Conte far cadere in prescrizione di tale obbligo degli Ordinari.
Il Protocollo, infine, invita a ricordare “la dispensa dal precetto festivo per motivi di età e di salute” (5.2)
La dispensa, ossia l'esonero dall'osservanza di una legge puramente ecclesiastica in un caso particolare, può essere concessa solo da quelli che godono di potestà esecutiva, entro i limiti della loro competenza, e altresì da quelli cui compete (cfr. CJC can. 85).
Non risulta, evidente, la natura della potestas dispensatoria del Presidente del Consiglio dei Ministri, perché nell’ordinamento civile la norma è obbligatoria, né quella del Cardinale Bassetti per quella ecclesiastica, che la detiene limitatamente alla diocesi di cui è il legittimo Ordinario.
De ratione et mente. Dobbiamo, infine, interrogarci sulla mens del legislatore, infatti, anche quest’ultimo aspetto è rilevante sia in campo civilistico sia in quello canonistico.
Ancor di più il legislatore era competente, aveva facoltà e giurisdizione per porre insieme all’atto (il protocollo) la sua legittimità e, di conseguenza, la sua cogenza?
Il Protocollo, infatti, prepone a sua fondatezza giuridica il DPCM del 26 aprile 2020.
Per Giuseppe Conte e i suoi DPCM siamo, è il caso di osservarlo, ma anche di affermarlo chiaramente, di fronte al caso conclamato di sovvertimento dell’Ordine Costituzionale.
L’Ordinamento Costituzionale della Repubblica Italiana è fondato sul principio di legalità e sul rispetto della riserva di legge.
La Costituzione Repubblicana, poi, - nonostante la questione sia stata dibattuta dai costituenti -non prevede la dichiarazione dello “stato di emergenza”ma esclusivamente “lo stato di guerra” (ex art. 78 Cost.).
Basti solo ricordare, come nel corso dei lavori della Prima Sottocommissione della Commissione Costituente dei 75, una proposta normativa che – ispirandosi all’art. 19 alla coeva Costituzione francese – prevedeva che i diritti assicurati in Costituzione possano essere sospesi con i limiti e le garanzie offerte dalla legge per un periodo di tempo limitato “quando la Repubblica è proclamata in pericolo” fu decisamente contrastata, proprio evidenziandone la pericolosità (B.CHERCHI, Stato d’assedio e sospensione delle libertà nei lavori dell’Assemblea costituente, in: Rivista trimestrale diritto pubblico, 1981, 1121 ss.).
Emblematico del rifiuto dei Costituenti di sottomettere il futuro ordinamento al principio della Salus Rei Pubblicae Suprema Lex, fu l’intervento del Presidente della Prima Commissione della Commissione dei 75, La Rocca: “L’unica Costituzione che parla di questo fu quella di Weimar e sappiamo come l’applicazione di questo principio abbia spianato la via alla dittatura” ( B.CHERCHI, op.cit., 1131).
Una precisa scelta costituzionale e politica quella dei Padri Costituenti che è stata, anche di recente, così autorevolmente commentata dal Presidente della Corte Costituzionale, Giudice Marta Cartabia: “La nostra Costituzione non contempla un diritto speciale per lo stato di emergenza sul modello dell’art. 48 della Costituzione di Weimar o dell’art. 16 della Costituzione francese, dell’art. 116 della Costituzione spagnola o dell’art. 48 della Costituzione ungherese. Si tratta di una scelta consapevole. Nella Carta costituzionale non si rinvengono clausole di sospensione dei diritti fondamentali da attivarsi nei tempi eccezionali, né previsioni che in tempi di crisi consentano alterazioni nell’assetto dei poteri” (Corte Costituzionale, Relazione Annuale 28 aprile 2020, p. 25).
Che continuando precisava: “La Repubblica ha attraversato varie situazioni di emergenza e di crisi […] che sono stati affrontati senza mai sospendere l’ordine costituzionale, ma ravvisando all’interno di esso quegli strumenti che permettessero di modulare i principi costituzionali in base alle specificità della contingenza: necessità, proporzionalità, bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità sono i criteri con cui, secondo la giurisprudenza costituzionale, in ogni tempo deve attuarsi la tutela «sistemica e non frazionata» dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione e dei relativi limiti” (Ibidem p. 26).
A fondamento dell’Ordine Repubblicano, inoltre, i Costituenti hanno posto il “riconoscimento” e la “garanzia” da parte dell’Ordinamento stesso “dei diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità “ (art. 2 Cost.).
Tali “diritti inviolabili” non discendono dall’Ordinamento, ma ne costituiscono l’essenza stessa e per questo sono imprescindibili, perché insiti nella natura umana e un loro sovvertimento, non rappresenterebbe una mera violazione o un temporaneo vulnus dell’Ordinamento, bensì un vero e proprio sovvertimento dello Stato repubblicano.
Come attentamente ha osservato la Corte Costituzionale nella sua Sentenza 1146 del 1988: “La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Questi principi, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all‟essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana ed hanno, quindi, una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale”
Essi, infatti, sono per loro natura indisponibili, irrinunciabili, imprescrittibili e pertanto non soggetti alla potestà del legislatore, persino in sede di revisione costituzione (cfr. Corte Costituzionale, Sentenza n. 18 del 1982, Sentenza 170 del 1984 e Sentenza 366 del 1993).
Pertanto, occorre osservare che il mero atto amministrativo del DPCM sono nulli ex tunc essendo stati emanati al fine di comprimere libertà e diritti che sono per antonomasia insopprimibili, inviolabili e irrinunciabili.
Dal punto di vista della legalità repubblicana, dunque, la mens e la ratio del legislatore era, intenzionalmente o inconsciamente, viziata perchè diretta a sovvertire l’ordine dello Stato.
Parimenti, dobbiamo chiederci: il cardinal Bassetti come Presidente della CEI era titolare a negoziare con lo Stato materie che il Diritto Generale della Chiesa riserva alla Sede Apostolica o agli Ordinari? ”Ferma restando la potestà di istituzione divina che il Vescovo ha nella sua Chiesa particolare […] il Vescovo esercita il ministero affidatogli non soltanto quando disimpegna nella diocesi le funzioni che gli sono proprie, ma anche quando coopera con i confratelli nell’Episcopato nei diversi organismi episcopali sovradiocesani (Apostolorum Successores n 65-66).
E “a parte i casi in cui la legge della Chiesa o uno speciale mandato della Sede Apostolica abbia loro attribuito potere vincolante, l’azione congiunta propria di queste assemblee episcopali deve avere, come criterio primario di azione, il delicato e attento rispetto della responsabilità personale di ciascun Vescovo in relazione alla Chiesa universale e alla Chiesa particolare a lui affidata” (Ibidem n. 68)
Era il presidente della CEI titolato, aveva cioè competenza, facoltà e capacità di agire per negoziare le condizioni della Libertas Ecclesiae e della stessa Potestas Ecclesiae con lo Stato italiano?
Il Codice di Diritto Canonico dispone che “ai Legati del Romano Pontefice è affidato l'ufficio di rappresentare stabilmente lo stesso Romano Pontefice presso le Chiese particolari o anche presso gli Stati e le Autorità pubbliche cui sono stati inviati” (can. 363 § 1). Stabilisce, poi, che “é inoltre compito peculiare del Legato pontificio che esercita contemporaneamente una legazione presso gli Stati secondo le norme del diritto internazionale: 1) promuovere e sostenere le relazioni fra la Sede Apostolica e le Autorità dello Stato; 2) affrontare le questioni che riguardano i rapporti fra Chiesa
e Stato; trattare in modo particolare la stipulazione e l'attuazione dei concordati e delle altre convenzioni similari” (can. 365).
Il Regolamento della CEI dispone, poi: “Nel rispetto delle debite competenze e per il tramite della Presidenza, la Conferenza tratta con le Autorità civili le questioni di carattere nazionale che interessano le relazioni tra la Chiesa e lo Stato in Italia, anche in vista della stipulazione di intese che si rendessero opportune su determinate materie. Nelle materie ad essa eventualmente demandate da accordi tra la Santa Sede e lo Stato Italiano, la Conferenza agisce entro gli ambiti e secondo le procedure previsti dagli specifici mandati ricevuti dalla stessa Sede Apostolica” (art. 3 § 3 e 4).
E aggiunge: “Nel quadro delle finalità di cui all’art. 3, la C.E.I. ha competenza: a) nelle questioni di carattere nazionale che riguardano la vita, l’azione pastorale e la presenza della Chiesa in Italia, in conformità alle specifiche disposizioni del codice di diritto canonico e sempre che non si tratti di materia per natura sua o per superiore disposizione riservata alla Sede Apostolica; b) nelle materie ad essa demandate dal diritto universale o dalla Sede Apostolica o da accordi stipulati tra la Santa Sede e lo Stato Italiano” (Regolamento CEI art. 7).
Qualcuno si chiedeva in passato: “C’è ancora un giudice a Berlino?”
Dobbiamo chiederci, oggi, ma c’è ancora un legato papale, vale a dire un Nunzio Apostolico, accreditato presso il Quirinale? Se sì, dove si è nascosto? Che fine ha fatto? O che è in tutt’altro indaffarato a fare?
Dobbiamo e possiamo chiederci la CEI e il suo presidente, nottetempo come si conviene in questi casi, ha ricevuto “specifici mandati dalla stessa Sede Apostolica” in merito al suo negoziato con il governo? Se sì, quali erano i termini di tale mandato? O come l’accordo fra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese il mandato ricevuto dalla Sede Apostolica è stato secretato?
In ogni caso, per tutte le ragioni elencate il Protocollo giuridicamente, sia sotto il profilo della legalità repubblicana sia sotto quello canonico-ecclesiastico, non vale la carta su cui è stato scritto.
Dal 18 maggio, tuttavia, parroci e pastori faranno bene ad avere a disposizione e a ben conoscere gli articoli 403, 404, 405, e 409 del Codice Penale della Repubblica Italiana e ad agire prontamente di conseguenza, nel malcapitato caso che qualcuno osi entrare in Chiesa per verificare gli adempimenti disposti dal Protocollo firmato dal Presidente della CEI.
Calligone il castrato, maestro di corte di Valentiniano II, rimproverando Sant’Ambrogio per essersi erto contro l’imperatore a difesa della Libertas et Potestas Ecclesiae, così minaccio il santo vescovo di Milano: “Come, me vivente, tu osi disprezzare Valentiniano? Io ti spaccherò il capo”.
“Che Dio te lo permetta! – rispose Ambrogio - Io soffrirò allora ciò che soffrono i Vescovi e tu avrai fatto ciò che sanno fare gli eunuchi”.
In questa contemporanea e stantia saga di un Pasticcio Brutto, che si è consumato fra Circonvallazione Aurelia 50 e Piazza Colonna 370 è ormai ben difficile capire chi siano i vescovi e chi i castrati.
- Danilo Quinto - 09.05.2020
Ecco la "barra per ostie"
Un "comitato di crisi" della parrocchia di San Giuseppe a Bottrop, Germania, ha deciso di presiedere l'Eucarestia ancora a partire dal 10 maggio.
Per poter rispettare le "regole igieniche" ferree, per le ostie sono state prodotte barre di legno con tacche a una distanza adeguata.
I fedeli dovranno indossare una maschera e portare il proprio innale.
Una condizione per partecipare è registrarsi prima al telefono, il che è possibile solo a certi orari e in certi giorni.
Il presidente del consiglio parrocchiale, Roberto Giavarra, ha detto a NeuesRuhrWort.de (10 maggio) che il feedback dei fedeli "è stato molto scarso rispetto alle aspettative."
#newsEblmerzljb
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