La liturgia e l’unica domanda che conta
Cari amici di Duc in altum, volentieri vi propongo un contributo di don Marco Begato in tema di liturgia. Ii testo è uscito in inglese nel sito altaredei.com.
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Mi occupo qui della tendenza di certi liturgisti contemporanei i quali propongono di operare per la creazione di nuovi riti, ispirati a una simbolica cosmico-esistenziale in senso ampio, in sostituzione o come evoluzione dei riti e dei costumi ecclesiali attuali.
Vorrei designare questa corrente come una sorta di terza via del mondo liturgico, alternativa alle due linee già diffuse, entrambe peraltro da scartare secondo tali esperti. Ma quali sarebbero queste due vie? E perché i nuovi esperti vorrebbero scartarle?
La prima via è quella della liturgia tradizionale, si tratti dell’antico rito tridentino o della riforma della liturgia attuale secondo il gusto ereditato dalla tradizione. L’una e l’altra opzione hanno visto in Benedetto XVI un sostenitore autorevole. Secondo i liturgisti contemporanei non è possibile salvare né realizzazioni né intenzioni di questa corrente. Chi ancora indugi su simili visioni dimostra di non aver colto il richiamo del Progresso dentro e fuori la Chiesa, è legato a un passato defunto e irraggiungibile. Su tale via incombe un giudizio di tipo storicistico e idealistico.
La prima via è quella della liturgia tradizionale, si tratti dell’antico rito tridentino o della riforma della liturgia attuale secondo il gusto ereditato dalla tradizione. L’una e l’altra opzione hanno visto in Benedetto XVI un sostenitore autorevole. Secondo i liturgisti contemporanei non è possibile salvare né realizzazioni né intenzioni di questa corrente. Chi ancora indugi su simili visioni dimostra di non aver colto il richiamo del Progresso dentro e fuori la Chiesa, è legato a un passato defunto e irraggiungibile. Su tale via incombe un giudizio di tipo storicistico e idealistico.
La seconda via è quella di chi ha provato ad assumere l’impegno della riforma liturgica negli anni Settanta, accogliendo in qualche modo la struttura fondamentale del nuovo Messale di Paolo VI, ma ornando l’atto liturgico con componenti tratte dalla cultura moderna: danze, strumenti, colori, recitazioni. L’esito spesso è stato di cattivo gusto estetico, si è certamente staccato con vigore dal costume liturgico tradizionale, ma sembra non aver trovato molta accoglienza nel popolo di Dio (a giudicare dallo svuotamento delle assemblee), né accompagnato i fedeli in un cammino spirituale sufficientemente solido e fruttuoso (a giudicare dalla impreparazione dei fedeli rimasti). I liturgisti contemporanei denunciano tali tentativi, li considerano un fallimento e vedono in essi il rischio di suscitare la richiesta di un ritorno alla tradizione.
Alla luce di ciò, gli innovatori si adoperano per proporre, come dicevo, una terza via liturgica, caratterizzata da grande ricercatezza estetica tanto a livello teorico quanto a livello pratico.
A livello teorico si va ad attingere a importanti riflessioni filosofico-teologiche, che insistono da un lato su elementi strutturali quali “simbolo” e “forma” e dall’altro su elementi antropologici esterni e interni: percezione, relazione, agire, corporeità. A livello pratico si cerca di riscoprire la forza intrinseca che si sprigiona dalla materia (pietra, cera, olio, acqua), dall’energia (luce, sonorità), dall’umanità (gesti di prossimità, sguardi, posizioni). L’esito è un prodotto artistico di discreta qualità, relativamente distante dagli esiti trash dello sperimentalismo anni Settanta (tutt’ora vigenti) e assolutamente separato da qualsivoglia richiamo alla tradizione liturgica ecclesiale.
Come possiamo giudicare tale posizione?
In primo luogo, noto una tendenza che accomuna i liturgisti ai teologi contemporanei: gli uni e gli altri lamentavano una eccessiva sudditanza della tradizione ecclesiale al mondo. Secondo i teologi attuali la Chiesa è stata troppo tempo in coda al pensiero aristotelico-tomista; secondo i liturgisti attuali la Chiesa è stata troppo tempo in coda a riti di impronta carolingia ed eurocentrica. Entrambi i gruppi però non riescono realmente a sganciare la Chiesa da forme di sudditanza di nuovo tipo. I teologi, finalmente liberi dalle metafisiche greco-scolastiche, sono ora in affanno per reggere il passo delle filosofie del nulla e dell’idealismo; i liturgisti sono proni ai piedi delle conquiste artistico-figurative del secolo scorso. Il gesto isolato, il minimalismo, la materia, i giochi di luci, la fisicità: tutti elementi del nuovo corso liturgico che sui teatri di mezzo mondo sanno di già visto.
In secondo luogo, e a partire da qui: l’insieme di tali elementi, un po’ simbolici e un po’ primitivisti, ampiamente teorizzati dai manifesti artistici del secolo scorso, si concentrano su aspetti di natura e di percezione antropologica, certamente interessanti e stimolanti, però anche spaventosamente neutri. Sospettosamente neutri.
L’insistenza su rito, simbolo, alterità, percezione è svolta nei manuali dedicati al tema in modo da potersi perfettamente predicare di qualsivoglia religione e divinità. Questo dovrebbe fortemente insospettirci, allorquando tali approcci sono pressoché gli unici invocati per il ripensamento del liturgico.
Quanto più si insiste su simili termini e si fa leva sulla centralità dell’uomo, quanto più si marginalizza il primato di Gesù Cristo, quanto più si dà rilevanza a ideali tratti dalla cultura non cristiana (tipico di tutte le sensibilità progressiste), tanto più sappiamo che ci troveremo a fare i conti con espressioni liturgiche generiche e anonime, al punto da poter risultare sincretiste e paganeggianti. Mi chiedo addirittura se ciò non possa implicare in qualche maniera un carattere anti-cristico.
Quanto più si insiste su simili termini e si fa leva sulla centralità dell’uomo, quanto più si marginalizza il primato di Gesù Cristo, quanto più si dà rilevanza a ideali tratti dalla cultura non cristiana (tipico di tutte le sensibilità progressiste), tanto più sappiamo che ci troveremo a fare i conti con espressioni liturgiche generiche e anonime, al punto da poter risultare sincretiste e paganeggianti. Mi chiedo addirittura se ciò non possa implicare in qualche maniera un carattere anti-cristico.
A questo punto, anziché continuare a interrogarci sulle forme – tradizionali, sessantottine o simbolico-universali – sposterei la nostra domanda sull’unico contenuto di interesse che dovrebbe competere alla liturgia: dov’è Cristo?
Nell’approccio naturalistico: dov’è Cristo? Nella simbolica neopagana: dov’è Cristo? Nell’allontanamento dalla tradizione: dov’è Cristo? Nella cura dell’acqua, della luce, del volto: dov’è Cristo? Intendo, dove possiamo riconoscere quei segni come segni chiaramente riferiti a Cristo? Cosa ci assicura che, nell’attenzione posta sul corporeo o sulla creatività, ci si rivolga a Cristo e non si stia semplicemente evocando un rituale naturalistico, generico, cosmico e appunto in questo paganeggiante?
In conclusione: il motivo per cui non mi convince la proposta liturgica dei moderni, mentre al contrario mi sta interrogando profondamente la “prima via” (che ho scoperto tardivamente), è di ordine anzitutto teologico e cristologico, cristocentrico in particolare. Pur riconoscendo tutti gli avvicendamenti umani che hanno plasmato la liturgia cattolica dalle origini fino al XXI Concilio, il Vaticano II, resta che la celebrazione nel rito secondo la cura tradizionale mi comunica fortemente il principio cristocentrico: mi parla di Cristo, mette al centro Cristo, lo sento consegnato da Cristo (certo attraverso mediatori, non esclusa la mediazione data da una continuità culturale storica). Al contrario la proposta dei moderni non riesco a farla rientrare in nessuno degli elementi appena elencati.
Non trovo Cristo nella cascata di riferimenti sessantottini, espressione non di un’epoca (per esempio quella monastica, quella carolingia, quella tridentina) ma di una stagione (peraltro antireligiosa e storicamente sconfitta).
Non trovo con oggettiva chiarezza Cristo nelle proposte dei liturgisti contemporanei paganeggianti. Anzi, mi sia concesso tornare su di un timore prima evocato: l’affermazione di una tale raffinatissima e dottissima Liturgia, la quale mette al centro l’uomo e in ciò rimuove Cristo, ha per me un sapore anticristico senza se e senza ma. Anticristo non significa per forza un’azione consapevolmente opposta al mistero di Cristo; può essere benissimo un moto di quieto e quasi inconscio allontanamento dalla centralità di Cristo.
I pagani non celebravano Cristo perché ancora non lo conoscevano; noi per quale motivo dovremmo marginalizzarlo e posporlo al sentire antropologico e naturalista? Per quale motivo o almeno con quale esito? Con quale esito celebreremo l’uomo e la natura e il simbolo universale, se non con l’esito di allontanare Cristo? Fino a cacciarlo e scalzarlo.
E così, al di là dei movimenti culturali anticristiani e al di là di eventuali Stati o leader capaci di attirare a sé le masse e di manovrarle contro o senza Cristo (tutte possibili figure classiche dell’Anticristo), ecco che potremmo trovarci noi stessi – noi cristiani! – nella situazione di convocare il popolo di Dio senza Dio, di radunare l’assemblea cristiana senza Cristo, di svolgere il compito dell’Anticristo.
Ora, non so se qualche autore ne abbia mai parlato, ma rimango con una domanda che mi assilla: chi ha detto che l’Anticristo debba essere per forza una persona? E se fosse un rito?
Don Marco Begato, SdB
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