(Mauro Faverzani) Una cosa è certa: l’ordine esecutivo sui social firmato dal presidente Trump non costituisce assolutamente un attentato alla libertà di parola, anzi semmai è vero il contrario, ne costituisce una tutela. Ormai necessaria. In poche parole, non si vieta a Facebook, Twitter, Google e compagnia di pubblicare qualsiasi genere di testi, commenti, immagini, video; ma qualora decidessero di oscurarne o censurarne qualcuno, a loro sgradito, di sospendere gli utenti o di cancellare i loro post, ne risponderebbero, potrebbero cioè essere portati in giudizio, anziché godere di un libero e totale arbitrio com’è stato finora.
La Fcc, l’agenzia centrale delle comunicazioni americana, è stata incaricata in questo senso di rivedere le regole di un gioco finora senza regole, ciò di cui i social hanno dimostrato di approfittare con spregiudicatezza ed eccessiva disinvoltura, ma, quel che è peggio, secondo modalità per nulla neutrali, né tanto meno imparziali. Al punto da pretendere di bollare come fake news persino un’opinione di Trump, limitatosi ad evidenziare il rischio di potenziali brogli nel caso a novembre, per le elezioni presidenziali americane, si votasse per posta causa Coronavirus, come paventato dal governatore della California, Gavin Newsom, guarda caso un democratico, immediatamente seguito da altri suoi compagni di partito.
Trump ha subito fatto chiarezza, correttamente: «Siamo qui oggi per difendere la libertà di parola da uno dei pericoli maggiori», ha detto. I social «avevano un potere incontrollato», ma «non possiamo permettere che ciò accada», specie a fronte di un fact-check, di un controllo esercitato alla stregua di un discutibilissimo «attivismo politico» e morale quando non di una tifoseria sfacciata. Persino Mark Zuckerberg, fondatore ed amministratore delegato di Facebook, ha condiviso la decisione del presidente americano, affermando pubblicamente, nel corso di un’intervista: «Credo fortemente che Facebook non debba essere l’arbitro della verità di tutto ciò che la gente dice online. In generale, le società private, specialmente le piattaforme, probabilmente non dovrebbero essere nella posizione di farlo». Come finora, purtroppo, era invece accaduto. Come ben sanno molti, penalizzati per il solo fatto di aver espresso pareri, commenti, opinioni semplicemente fuori dal coro, “peggio” ancora se concordi con la morale cattolica. Qualche esempio? Nel luglio scorso, in Francia, l’on. Emmanuelle Duverger in Ménard, credente praticante e pro-family convinta, si è vista bloccare arbitrariamente da Twitter il suo account e cancellare un suo tweet, semplicemente per aver “osato” criticare Greta Thunberg, dopo aver ascoltato il suo discorso tenuto presso l’Assemblea Nazionale. Di contro nessuno ha tutelato la parlamentare dalle minacce, anche di morte, ricevute proprio a seguito dell’opinione da lei espressa. Due anni fa uno speciale dossier, pubblicato da Project Veritas, raccogliendo le testimonianze di numerosi dipendenti di Twitter, denunciò la sistematica censura attuata nei confronti degli iscritti più “conservatori”, senza che questi potessero neppure accorgersene, tramite un sistema denominato «Blocco nell’ombra»: i post “sgraditi” o “scomodi” venivano semplicemente esclusi dalla rete, ad insaputa di tutti, da fantomatici «agenti di revisione dei contenuti». Anche Facebook non è esente da scivoloni su questo infido terreno: come nel 2018, quando bloccò la raccolta fondi per la pellicola pro-life «Roe vs. Wade», realizzata per raccontare la vera storia del caso giudiziario, risalente al 1970. A lanciare l’allarme, all’epoca, furono niente meno che due attori di Hollywood, il premio Oscar Jon Voight ed il produttore Nick Loeb.
Il fenomeno, comunque, non è assolutamente nuovo: già nel 2011 il rapporto dal titolo «True Liberty in a New Media Age: An Examination of the Threat of Anti-Cristian Censorship and Other Viewpoint Discrimination on New Media Platforms», commissionato dalla Nrb-National Religious Broadcasters con sede in Virginia, negli Stati Uniti, ha dimostrato la vera e propria censura attuata online nei confronti di qualsiasi contenuto cristiano od anche religioso più in generale.
In particolare, il rapporto ha segnalato la decisione, assunta da Apple nel novembre 2010, di bloccare l’app Manhattan Declaration solo per aver definito, in forza delle proprie convinzioni cristiane, immorale il comportamento omosessuale. Per lo stesso motivo, pochi mesi più tardi, nel marzo 2011, la Apple ha censurato anche l’app Exodus International, iniziativa cristiana dedita ad aiutare le persone ad abbandonare la propria vita omosessuale. Ed ancora, stessa sorte nel luglio 2011 nei confronti di Christian Values Network: Apple ha tolto iTunes dal portale, che contribuisce a finanziare le organizzazioni caritative, accusato di esser troppo critico verso le iniziative pro-Lgbt. Sono finiti nella “lista nera” del rapporto anche Google, per essersi rifiutato di accettare una pubblicità cristiana pro-life (benché poi, citato in giudizio, sia stato costretto a fare marcia indietro ed a pubblicarla), Facebook, per aver cancellato commenti ritenuti anti-gender e per le partnership avviate con organizzazioni pro-Lgbt, e via elencando.
In tutto questo marasma, v’è anche da prender atto delle scuse pubblicamente porte già nell’aprile 2018 dal gran patron di Facebook, Mark Zuckerberg, per la censura attuata dal suo social nei confronti dei contenuti cattolici. Nel corso della sua udienza dinanzi al Congresso americano, per rispondere dei milioni di dati personali ceduti a società terze a scopi elettorali e commerciali, Zuckerberg ammise che la sua azienda aveva «commesso un errore», bloccando l’annuncio di un corso di teologia cattolica, promosso dall’Università Francescana di Steubenville, “rea” solo di aver pubblicato l’immagine di un crocifisso, considerato «eccessivamente violento» e «sensazionalista». Di fronte a questo “atto di contrizione”, il sen. Ted Cruz del Texas fece notare come su Facebook fossero state già «bloccate più di due dozzine di pagine cattoliche» e di contenuti conservatori, bollati come «insicuri per la comunità». Cruz chiese ironicamente se fossero stati rimossi, allo stesso modo, anche gli annunci di Planned Parenthood e di altre sigle abortiste.
Le scuse di allora rendono comunque meno sospetta e più credibile la difesa fatta oggi da Zuckerberg della linea adottata dal presidente Trump nei confronti dei social. V’è da sperare, senza illusioni, che si tratti di un percorso di fruttuosa presa di coscienza o addirittura di feconda conversione, quello iniziato dal fondatore di Facebook. Questo breve elenco di fatti – elenco, che potrebbe, volendo, continuare a lungo – dimostra come il capo della Casa Bianca abbia ragioni da vendere nel porre argini, fissare paletti, istituire garanzie per tutti contro abusi ed arbitrii via web. L’ordine esecutivo di Trump dovrebbe essere approvato anche in altri Paesi. Ma, certo, per farlo occorrono leader con una coscienza…
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