ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 19 giugno 2020

Tu vuo' fa' ll'americano

BLACK LIVES MATTER
Usa: quando i Democratici difendevano la schiavitù
Sudisti, secessionisti, schiavisti: questa era la base del Partito Democratico nell'800, quando difendeva gli interessi dei proprietari terrieri del Sud. La difesa o quantomeno la tolleranza della schiavitù dei neri fu un peccato comune a tutti i primi presidenti degli Usa. Solo il nuovo Partito Repubblicano, con Lincoln, ebbe il coraggio di opporsi.


Sud: chiavi fuggiti e catturati di nuovo

Il Partito Democratico americano è il più antico partito elettorale al mondo. È ricco di una storia di cui si può andare fieri, in alcuni casi, ma piena di lati oscuri. La peggior macchia nel passato del Partito Democratico si trova nel Diciannovesimo Secolo, con un programma agrario schiavista, per non parlare delle ambizioni al “Destino Manifesto” alla base della persecuzione dei nativi americani.

Il Partito Democratico contemporaneo nacque da una scissione dal gruppo Democratico-Repubblicano nel 1820. Si è successivamente diviso ancora in due campi, uno “unionista” al Nord e l’altro “secessionista” al Sud, poco prima della Guerra Civile. Il suo rivale tradizionale era il Partito Whig. Gli Whig furono poi rimpiazzati dal Partito Repubblicano, il cui programma conservatore mirava a preservare l’Unione americana, difendere l’ortodossia della Costituzione quale atto fondatore nazionale (compresi i diritti naturali donati da Dio e le libertà civili che ne derivano), promuovere una società industrializzata che poteva prosperare e commerciare in tutti gli Stati. Entrambi i partiti favorivano un governo limitato, ma i Democratici vinsero il favore di una base elettorale fedele ergendosi a rappresentanti dell’“uomo comune”. I Democratici conquistarono un seguito di simpatizzanti fra i coltivatori del tabacco e del cotone, fra gli allevatori di bestiame, i lavoratori urbanizzati e molti immigrati che svolgevano lavori a basso reddito. Il programma originario del Partito Democratico del Diciannovesimo Secolo, combatteva per “gli umili” e per i diritti di autonomia dei singoli Stati. Era scettico sull’interventismo statale, sulle grandi banche e sulle lobby portatrici di interessi particolari che tessevano trame di interessi economici e politici.

Nonostante quanto di buono rappresentasse, il Partito Democratico sosteneva la conservazione dell’istituzione della schiavitù, nella stragrande maggioranza dei casi, fra i suoi membri al Congresso degli Stati Uniti e nei parlamenti degli Stati del Sud, nelle regioni che dominava politicamente. In estrema sintesi, il Partito Democratico difendeva il diritto degli Stati di scegliere se liberare o meno gli schiavi, ma non si oppose universalmente alla schiavitù, non la considerò anti-costituzionale, né come un male intrinseco.

Molti degli ex presidenti del Partito Democratico-Repubblicano erano padroni di schiavi. Ma in questo caso non possiamo dar la colpa ai soli Democratici. Questa sordida storia era bi-partisan e coinvolgeva tutti i primi presidenti americani. Una ventina di loro possedeva schiavi, prima, durante o dopo aver ricoperto la più alta carica dello Stato. Fra i presidenti padroni di schiavi figurano padri fondatori quali George Washington, Thomas Jefferson, James Madison, William Harrison, John Tyler, oltre al più noto, per la sua infamia, primo presidente Democratico: Andrew Jackson. Jackson venne anche accusato di aver partecipato alla tratta degli schiavi e fu il più attivo esecutore del programma del “Destino Manifesto” che portò alla deportazione di milioni di nativi americani “inferiori” mentre la giovane nazione espandeva ambiziosamente la sua frontiera a tutto il Nord America.

I Democratici ebbero l’opportunità di ripulirsi da questo passato oscuro quando Martin Van Buren contribuì a fondare il nuovo Partito Democratico. Van Buren prese le distanze dal suo predecessore, Andrew Jackson (di cui era vicepresidente), e da buona parte dei colleghi Democratici del Sud, parlando contro l’espansione degli Stati schiavisti. Però la sua aspirazione a riformare moralmente il programma del suo nuovo Partito Democratico sarebbe durata poco, finendo per essere ribattezzato sarcasticamente Presidente “Van Ruin” (rovina, ndr). Dopo un solo mandato presidenziale (1837-1841), Van Buren venne ben presto sostituito alla Convention Democratica da James Polk, che consolidò fortemente il consenso degli anti-abolizionisti e venne eletto presidente. Si disse che Polk avesse schiavi anche nella Casa Bianca. Nessuna sorpresa: quando Polk era presidente della Camera dei Rappresentanti, poneva il veto per fermare ogni richiesta popolare di aprire un dibattito sulla schiavitù. Questo peccato era ancora una volta comune ai partiti di allora, anche al successore di Polk, un presidente Whig, Zachary Taylor, un sudista che era proprietario di molti schiavi e che ancora una volta dimostrò la scarsa volontà politica a promuovere un’Unione abolizionista.

Fino al presidente Taylor, sia gli Whig che i Democratici erano entrambi tolleranti nei confronti degli Stati schiavisti, o erano almeno colpevoli di ipocrisia personale e di passività morale. Lentamente, da allora in poi, il movimento abolizionista prese piede nel Nord libero. Dopo Taylor, i tre successori alla presidenza divennero sempre meno favorevoli alla schiavitù, fino a James Buchanan, un Democratico convinto che si insediò nel 1857. Alcuni atti fondamentali della sua amministrazione contribuirono a far scoppiare una nazione già sull’orlo della guerra: Buchanan appoggiò la sentenza della Corte Suprema nel caso Dred Scott contro Sandford (che negò la cittadinanza e la libertà agli ex schiavi e ai loro discendenti, anche se risiedevano in Stati e territori liberi dalla schiavitù) e sostenne l’ingresso nell’Unione del Kansas, uno Stato schiavista.

La scena politica americana, già molto tesa negli anni precedenti la Guerra Civile, raggiunse il punto di rottura durante la presidenza del Democratico Buchanan. Quelle condizioni vennero determinate dalla decisione del Partito Democratico di appoggiare pienamente gli Stati del Sud, anti-abolizionisti e secessionisti, o la base elettorale dei Democratici del Nord, unionista, tollerante nei confronti della schiavitù e favorevole al diritto all’autonomia di scelta degli Stati.

Quando Abraham Lincoln si candidò presidente nel 1860, il primo in assoluto del Partito Repubblicano, il Partito Democratico si divise sostenendo due diversi candidati: Stephen Douglas, dell’Illinois, nordista, unionista e sostenitore dei diritti degli Stati, e John Breckinridge, del Kentucky, sudista e ideologicamente anti-abolizionista.

Lincoln ottenne una vittoria decisiva con un programma chiaro che mirava alla preservazione dell’Unione e si opponeva all’espansione degli Stati schiavisti. I Democratici sudisti videro la sua vittoria come la prima minaccia concreta al loro presunto “diritto” degli Stati alla schiavitù. Pochi giorni prima dell’insediamento di Lincoln, nel marzo 1861, sette Stati sudisti governati dai Democratici, proclamarono ufficialmente la secessione. In aprile scoppiò la Guerra Civile e 10 mesi dopo il senatore Democratico Jefferson Davis, filo-schiavista, del Mississippi, divenne il presidente della Confederazione degli Stati Americani.

Quel che seguì fu una guerra sanguinosa di quattro anni, combattuta non solo per preservare una vera “Unione” degli Stati Uniti d’America, ma anche per difendere un principio assoluto morale che riguardava la natura libera della persona, protetta dalla Costituzione. Il Partito Repubblicano scelse di difendere la libertà umana universale fino in fondo. Fra il 1861 e il 1865, la guerra venne combattuta nel nome di una verità assoluta: “tutti gli uomini sono creati uguali da Dio” e costò più vite americane (da 650mila al 750mila morti) di tutte le altre guerre nella storia dagli Stati Uniti messe assieme.

In conclusione, nessun partito politico statunitense delle origini è nato da immacolata concezione, senza il peccato originale della difesa della schiavitù. Whigs, Federalisti, Democratici-Repubblicani erano formati da padroni di schiavi, mentre molti dei vertici del governo tolleravano politicamente la schiavitù, barattandola con la preservazione dell’Unione. Altri uomini di Stato erano dei santi in pubblico, ma gravi peccatori in privato. Alla fine, la volontà politica di abolire la schiavitù arrivò solo con il Partito Repubblicano, anche se Lincoln stesso non sancì la sua abolizione fino alla Proclamazione di Emancipazione del 1863, quasi due anni dopo l’inizio della Guerra Civile. Fu un Repubblicano, non un Democratico, che ebbe il coraggio morale definitivo di proclamare la libertà donata da Dio agli uomini e alle donne di colore e agire per difenderla, in una battaglia epocale senza compromessi contro la più immorale delle istituzioni della nazione.
Michael Severance

https://lanuovabq.it/it/usa-quando-i-democratici-difendevano-la-schiavitu
L'inno d'Italia e il servilismo "democratico"

«Il nero che ha cantato l'Inno nazionale alla finale di Coppa Italia non ha solo sbagliato, ma è stato strumento della strategia della sinistra. La stessa per cui al Festival di Sanremo si presentarono tutti con la coccarda arcobaleno, facendo dire a un noto politologo che, fossero stati ai tempi del Führer, avrebbero avuto la fascia con la svastica. Ci mancava solo di vedere i giocatori in ginocchio».



Ma che cosa vanno blaterando di eccellenza della moda italiana nel mondo se la moda la fa la sinistra americana, che là si chiamano Democratici e pure qua. Basta vedere come vanno vestiti i nostri giovani. L’ultimo grido è la beatificazione del negro (opps: nero) americano (a quelli africani ha già pensato il papa), che sale sul podio su cui stava fino a ieri la c.d. comunità Lgbt (comunità? bah, non risulta che si amino molto tra loro).

Ovviamente, la gente di spettacolo, che in genere è stata sui banchi di scuola meno di Greta Thurnberg, si adegua immediatamente. Come è noto, a un Festival di Sanremo si presentarono con la coccarda arcobaleno, facendo dire a un noto politologo che, fossero stati ai tempi del Führer, avrebbero avuto la fascia con la svastica. Adesso ai «democratici» di tutto il mondo, italiani in primis, tocca piegare il ginocchio e stare genuflessi la bellezza di quasi dieci minuti, che se hai più di cinquant’anni (quanti ne hanno Nancy Pelosi e la Boldrini? boh) qualcuno deve aiutarti a risorgere. I napoletani, si sa, sono fantasiosi, e napoletano era quel Renato Carosone che inventò il tormentone post-bellico Tuo vuo’ fa’ l’americano. Così, con vero spreco di inventiva, hanno copiato la cerimonia del SuperBowl statunitense, con un cantante famoso che intona, senza accompagnamento di orchestra, l’inno nazionale. Suggestivo, certo. Ma l’inno americano è una marcia lenta, mentre quello italiano ha il ritmo dell’assalto dei bersaglieri a Porta Pia. Allora, per ovviare alla mancanza di solennità, l’hanno fatto cantare a un rapper afroamericano (visto? l’ho detto giusto) vestito come quello di A-Team. Ora, visto che il c.d. Inno di Mameli è del 1847, il povero cantante (nato a, mi dicono, Los Angeles), ha dovuto mandare a memoria strofe ottocentesche che, tutte, non le sanno nemmeno gli italiani. Così, si è impappinato. Per forza: già è difficile distinguere tra «stringamoci a corte» e il più corretto «stringiamci a coorte». Sempre che uno sappia che cosa è una coorte. E poi: «perché non siam uni, perché siam divisi» e «ogn’uom di Ferruccio ha il core e la mano». E chi è ‘sto Ferruccio? De Bortoli? No, è nato dopo. «Già l’aquila d’Austria le penne ha perdute»: e poi si lamentano se il cancelliere non ci vuole come turisti. Il bello è che tutte le Nazioni si sono rivolte ai loro migliori musicisti per l’inno. Noi italiani, che siamo i padri della musica seria (tutto il vocabolario internazionale musicale è italiano), ci ritroviamo con tal Mameli e tal Novaro. Il primo non ebbe tempo di fare un bis perché morì sparato mentre cercava di mettere Mazzini al posto del Papa. Del secondo non si conosce altro. Non solo. Un autorevole storico sospettò che il ventenne Mameli scippò il testo a un suo insegnate barnabita. Niente di strano, visto che a quel tempo non esisteva il diritto d’autore. Infatti, anche la musica della Marsigliese è di un italiano, GiovanBattista Viotti, musicista di corte di Maria Antonietta (devo l’informazione al vaticanista Giuseppe Rusconi). Ma torniamo al nostro inno, che i  giallo-rossi hanno sdoganato dopo aver giubilato il «fascista» Salvini. Ma se ne sono accorti che un verso dice: «i bimbi d’Italia si chiaman Balilla»? Be’, se non se sono accorti loro, figuriamoci codesto Sergio Sylvestre (perché la ipsilon? come Sylvester Stallone? boh) a cui è toccato cantare «le porga la chioma» a tempo di blues. Ma lasciatelo in pace, mi sarei  impappinato  anch’io con un inno del genere. Ma ha vinto il Napoli, insomma, fategli cantare Funiculi’ funicula’, che è trionfale e conosciuta in tutto il mondo (a differenza del Mameli-Novaro). E poi, ora che ci penso: ma non avevamo Bocelli? Ah, già, non è l’ultimo grido. Infatti, dato il gran finale a pugno chiuso alla blackpower, si sono dimenticati di fare inginocchiare i giocatori. Per otto minuti e rotti, naturalmente.

Rino Cammilleri
https://lanuovabq.it/it/linno-ditalia-e-il-servilismo-democratico

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