ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 11 luglio 2020

Chi si inginocchia e chi no..!

Lo schiaffo del pilota della F1: "In ginocchio solo per Dio e patria"

Il pilota russo, da sempre molto vicino all'Italia, ha spiegato perché non si è inginocchiato: una scelta che non ha mancato di creare le solite inutili polemiche

In Formula1, l’attenzione di molti sulla partenza del Mondiale 2020 è inutilmente passata dal lato sportivo a quello politico, tirando per la giacchetta uomini il cui compito principale dovrebbe essere quello di guidare il più velocemente possibile.
Una Formula1 diversa anni luce questa gestita da Liberty Media rispetto al passato: per fare un paragone, il Circus ai tempi di Bernie Ecclestone non si era fermato per commemorare la morte di Giovanni Paolo II, come richiesto dalla Ferrari. Ora invece, le bandiere arcobaleno o i temi sociali sembrano sempre più spesso mescolarsi fino a prevaricare quello che dovrebbe essere il cardine del Circus, cioè i motori e lo sport.
Sulla griglia di partenza del Gran Premio d’Austria, Lewis Hamilton ha coinvolto i colleghi in un siparietto mediatico che, come ha ricordato Leclerc, poco spartisce con il vero impegno quotidiano. Mentre quattordici su venti si sono inginocchiati a sostegno del movimento Black Lives Mattersei di loro sono rimasti in piedi pur indossando la t-shirt ah hoc con la scritta "End Racism".
Dei sei piloti che pur schierandosi compatti con gli altri contro ogni forma di discriminazione non hanno voluto piegare il ginocchio, il russo Daniil Kvyat in forza alla AlphaTauri (ex Toro Rosso). Una scelta esplicitata nei giorni successivi all’emittente georgiana 1TV: "Nel momento che ci hanno suggerito di inginocchiarsi come gesto di lotta contro il razzismo, per me è stata una motivazione incomprensibile". E ancora: "Il gesto va contro la mia mentalità russa, dove una persona si inginocchia per la Patria, per la bandiera, per Dio".
Naturalmente la frase di Kvyat non ha mancato di suscitare una serie di sterili polemiche, tanto più in questo momento dove tutti i piloti si sono dimostrati compatti nel sostenere la campagna lanciata dalla Formula1 #WeRaceAsOne: “Abbiamo mostrato la nostra posizione indossando la maglietta con la scritta End racism prima della gara”.
Charles Leclerc aveva anticipato via Twetter la sua scelta. Anche il sempre schietto e laconico Kimi Raikkonen è rimasto ben ritto sulla linea di partenza: nessuno, stranamente, ha avuto il coraggio di chiedergli il perché o tirarlo nella polemica durante le varie conferenze stampa. L’esperienza, anche in questi casi, conta.
https://www.ilgiornale.it/news/sport/formula1-kvyat-ginocchio-solo-dio-patria-e-bandiera-1876296.html
S'avvera il sogno islamista: Santa Sofia torna moschea

La Corte Suprema dà ragione a Erdogan: dichiarata illegale la decisione di Atatürk del 1934 di trasformare Santa Sofia in museo, e ora potrà quindi essere usata come moschea. Erdogan deve ancora decidere se l'antica basilica cristiana resterà anche come museo, secondo la struttura sotto la protezione dell'Unesco.


L’aveva sognato, l’aveva invocato in interminabili comizi più e più volte dal primo giorno che è “sceso” in politica, ha per anni lanciato segnali e provocazioni, da oggi le ambizioni di Erdoğan diventano realtà: Santa Sofia perde lo status di museo.


Il più antico quotidiano in lingua inglese del paese, lo Hürriyet Daily Newsil 5 giugno già rivelava che il “sultano” aveva dato istruzioni al Consiglio Esecutivo Centrale del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) per elaborare un piano d’azione che spogliasse quella che fu la basilica di Santa Sofia della veste secolarizzata di museo.

Il Consiglio di Stato aveva chiesto un mese per analizzare il caso, il verdetto sarebbe già dovuto arrivare, le timide proteste della comunità internazionale avevano prolungato l’attesa. Adesso è ufficiale: la Corte Suprema ha deciso che la cattedrale, simbolo della cristianità e della feroce conquista islamica, potrà tornare una moschea. E saremo costretti a chiamarla, di nuovo, Ayasofya.

Non è ancora chiaro come Erdoğan deciderà di muoversi. Se Santa Sofia tornerà a tutti gli effetti un luogo di culto esclusivamente islamico o se semplicemente sarà legale tornare a pregare Allah, ma senza smettere l’abito del museo patrimonio dell’Unesco; lo deciderà, di fatto, la capacità dell’Occidente di spaventare il sultano. Che, intanto, va detto, con l’ennesima vittoria s’è laureato campione del panislamismo. Anche perché il successo sta solo, semplicemente, nell’averla messa di nuovo al centro della contesa.
Neanche un’ora dopo la decisione del tribunale amministrativo turco e Erdoğan già diffondeva, esultante, la fotografia della sentenza sui suoi canali social.

Per la corte la decisione del governo Atatürk di trasformarla in museo, impedendo il culto ad Allah, era illegale.

E il fatto che tutto ciò avvenga  esattamente alla vigilia dell’anniversario del fallito golpe, la dice lunghissima. Il sultano aveva ammesso già diversi mesi fa di sognare la celebrazione della sua potenza, quando in quel 15 luglio 2016 il mondo pensava di essersi liberato dell’islamista, per aprire le porte di Hagia Sophia e ringraziare Maometto ed Allah della protezione.
La notizia ha reso giubilanti i turchi islamici che per un momento hanno potuto dimenticare la grave crisi economica e bearsi del sogno di un ritorno all’impero turco ottomano. La stampa turca ha, infatti, registrato dozzine di persone che di fronte il museo di Santa Sofia si sono riunite per gridare, “Allah Akbar”.

Erdoğan non pensava di trovare così pochi ostacoli internazionali davanti a sé. Non lo immaginava quando nel 2013 fu consentito ai muezzin di cantare l’adhān dai minareti dell’edificio per due volte al giorno; quando il 1 luglio 2016 fu consentito l’utilizzo dei minareti per cantare il primo adhān, per la prima volta dopo 85 anni, rivolto all’intera città in occasione della notte del destino (Laylat al-Qadr); nel giugno del 2017, avvenne la grande manifestazione dell’Anatolia Youth Association dinanzi l’edificio per chiederne il ritorno a moschea e la recita del Corano al suo interno in diretta televisiva, su Trt, sempre in occasione della notte del destino.

L’anno scorso, intanto, il primo secco no era arrivato dall’Unesco: essendo la struttura in questione un patrimonio dell’umanità ed essendo la Turchia contraente della convenzione per la protezione del patrimonio mondiale, qualsiasi proposta di modifica dovrebbe prima essere sottoposta all’attenzione dell’ente e ricevere pertanto approvazione. L’Unesco sembrava aver fatto svanire ogni sogno, ma il 2020 ha dimostrato che niente riesce a fermare l’egemonia di Erdoğan

Per poco meno di mille anni, la basilica è stata il cardine della cristianità orientale ospitando la sede del Patriarcato di Costantinopoli: cuore pulsante della nuova Roma, pietra angolare dell’ordine politico e religioso. Per diversi anni basilica cattolica e poi assaltata, profanata e sfigurata in ogni mosaico ed affresco, come primo gesto dell’invasione islamica, per essere fino al 1931, moschea.

Quando Atatürk cercò di donare un carattere laico al Paese, decise di farne un museo: emblema proprio di quella nuova Turchia capace di fondere i tratti orientali con quelli occidentali.

Ad oggi, gli unici ad aver dimostrato la sofferenza e ad aver denunciato la pericolosità del gesto del sultano sono solo la Chiesa Ortodossa, nella figura del patriarca Kirill, la Casa Bianca, il Cremlino e la timida Grecia già abbondantemente vessata dalla prepotenza turca e che, con il ministro degli esteri cipriota Nikos Christodoulides, ha invitato la Turchia a rispettare i suoi obblighi internazionali.
Lamentele che da sole avevano rallentato la corsa turca, resta da capire cosa accadrà ora e come reagiranno. È certo però che pesa più di un macigno il silenzio di tutti i capi di Stato europei e quello delle gerarchie della Chiesa cattolica.


Mentre qualcuno non si stupisce, altri denunciano la beata ignoranza alla radice del silenzio. Sarà, forse, infatti, il silenzio di chi ignora il sogno imperiale della nuova Turchia, l’allargamento che passa per tutte le bisettrici. Dal sunnismo fino ai Fratelli musulmani, dalla Somalia (qualcuno si documenti sul caso Silvia Romano) fino alle Filippine passando per Indonesia e Bosnia. Un sogno che si abbevera al nazionalismo ottomano e si fortifica dei finanziamenti alla costruzione di moschee e scuole, non solo in Turchia, e soprattutto della forza nuova che i giovani musulmani di tutta Europa infondono ad Erdoğan quando arrivano per studiare da imam nelle sue scuole.

Sarà ignoranza il silenzio per la falsificazione della storia. Per la pulizia etnica, le purghe confessionali (anche di queste ore), i sacerdoti confessionali sotto scorta, le sempre più numerose chiese diventate museo mentre sono circondate da moschee. E gli attentati costanti alla cristianità. Come la chiesa Sainte-Sophie de Nicée (Iznik) in cui fu formulato il Credo, da poco diventata moschea.
Sarà ignoranza non cogliere che uno chiave della politica estera turca è la ricerca dell’egemonia religiosa, che per l’islam non è mai solo religiosa, infatti.
Ecco, allora, la definitiva svolta islamista della Turchia con Santa Sofia simbolo dell’islam politico dell’Akp e dei Fratelli musulmani.


La volontà di una parte influente della comunità internazionale potrà imporre dei limiti ad Erdoğan? Nessuno lo sa.
Con questo verdetto, intanto, il sultano, spiana la strada per la conquista del titolo di condottiero del mondo islamico, riportando Istanbul al suo antico ruolo: la Sublime Porta fra Occidente ed Oriente, il punto di passaggio fra la cristianità e il dar al-islam.

“Erdoğan è già riuscito nella sua brutta svolta: imbarazzare Washington, deridere Bruxelles, umiliare Atene, sfidare Mosca.  Non possiamo permettere agli studiosi, agli intellettuali, agli artisti turchi, di combattere da soli. Colui che è ripugnante alla mortificazione del passato deve sapere che Santa Sofia merita la parola di Francia. […] Nella mente di questo specialista del ricatto diplomatico, la riconversione di Santa Sofia in moschea è una dichiarazione di guerra e si aspetta una Monaco della civiltà”. Così sul Figaro scriveva pochi giorni fa lo storico delle religioni Jean-François Colosimo

Lorenza Formicola

San Benedetto, il solo che può salvare ancora l'Occidente

San Giovani Paolo II scrisse: «Al tempo di san Benedetto la comunità ecclesiale e la società umana mostravano molte somiglianze con le condizioni attuali della vita umana». Come oggi, anche allora i problemi nella Chiesa e l'incertezza del futuro «gettavano gli animi nel turbamento». Occorre quindi «cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui», disse il papa Emerito, e vivere la gratuità, in qualcosa che «assomigli al canto gregoriano», come spiegò Saint-Exupéry.


L’elezione di Ratzinger al Soglio Pontificio con il nome di Benedetto XVI aveva riportato alla luce anche la figura del grande Patriarca, patrono d’Europa. Ratzinger, già prima del 19 aprile 2005, aveva manifestato tutto il suo interessamento alla persona e all’opera del Santo nursino. O meglio, di Dio attraverso san Benedetto. In realtà, Benedetto XVI non è stato il primo Papa a voler sottolineare il significato profetico del grande monaco.

Nel 1964, Paolo VI gli aveva dedicato la lettera apostolica Pacis Nuntius, con la quale proclamava Benedetto Patrono d’Europa. Poi, esattamente quarant’anni fa, un’altra lettera apostolica, questa volta di Giovanni Paolo II, celebrava il quindicesimo centenario della sua nascita: «Al tempo di san Benedetto – scriveva Wojtyla - la comunità ecclesiale e la società umana mostravano molte somiglianze con le condizioni attuali della vita umana. Gli sconvolgimenti della cosa pubblica e l'incertezza del futuro [...] arrecavano mali che gettavano gli animi nel turbamento e nell'angoscia: fino al punto da ritenere la vita priva di ogni certo e valido significato. Intanto nell'ambito della Chiesa era in atto un'ardua e diuturna controversia per la quale uomini ardenti, investigavano, in modo piuttosto animoso i misteri di Dio [...]. San Benedetto, considerando attentamente questo stato di cose, chiese a Dio ed alla viva tradizione della Chiesa la luce e la via da seguire. La risoluzione da lui presa, pertanto, può essere considerata il paradigma del dovere cristiano nelle vicissitudini del pellegrinaggio terreno».

Il Magistero della Chiesa, soprattutto nell’epoca tormentata del post-concilio e della post-modernità, ha dunque voluto offrire il paradigma per non smarrirsi.

Memorabile ed intramontabile la conferenza del 1° aprile 2005 di Benedetto XVI a Subiaco, poco prima della sua elezione a Pontefice Sommo, dal titolo significativo L’Europa nella crisi delle culture. Ratzinger aveva affondato il bisturi nel cancro del razionalismo moderno, offrendo come farmaco il semplice e disarmante rimedio benedettino: «Nulla assolutamente antepongano a Cristo, il quale ci potrà condurre tutti alla vita eterna».

Poi il secondo intervento monumentale, quello del 12 settembre 2008 al Collège des Bernardins, quando Benedetto XVI lanciava il Quaerere Deum come via di salvezza per questa Europa moribonda: «Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura». L’idea di un umanesimo vero, fondato su Dio e sulla ricerca di Lui, era già stato il cuore dell’Udienza dell’8 aprile dello stesso anno: «Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero».

Queste parole risuonano oggi con ancora più forza, soprattutto dopo che il Papa emerito ha avuto la lucidità ed il coraggio di sintetizzare il problema del nostro tempo (e di ogni tempo!), come una grave e profonda crisi dell’esistenza cristiana, che deriva dalla crisi della fede. Il ritorno a san Benedetto, al cuore del monachesimo, si configura pertanto come la più radicale reazione risanatrice. Il mondo e l’Europa sono in una crisi senza precedenti, perché è l’esistenza cristiana ad essere gravemente malata; la ragione di ciò è semplice e tragica: se noi, raggiunti da Cristo nel nostro Battesimo, non poniamo più la ricerca di Lui - e il lasciarsi trovare da Lui, come ha precisato Papa Benedetto – come elemento portante della nostra identità ed esistenza, il mondo si smarrisce e le tenebre avanzano, fino ad oscurare tutto. Senza Dio l’uomo si perde, senza la fede vera l’umanesimo crolla.

E se il vero umanesimo viene meno, allora avanza necessariamente un altro sinistro umanesimo, tanto seducente quanto venefico; «La vera minaccia della Chiesa e quindi del ministero petrino [sta] nella dittatura mondiale di ideologie apparentemente umanistiche», ricordava di recente il Papa emerito, rispondendo al giornalista Peter Seewald (vedi qui). Da un lato dunque il vero umanesimo, fondato in Dio e a Lui orientato, nella gratuità dell’amore filiale, e dall’altra ciò che appare come un nuovo umanesimo, ma che in realtà è espressione di «un credo anticristico, opponendosi al quale si viene puniti con una scomunica sociale».

La figura di san Benedetto, il suo insegnamento, le strutture portanti della Regola assumono quindi una dimensione “apocalittica” ed inseriscono il monachesimo nel cuore della grande battaglia tra il Drago e la Donna, tra le due Bestie e la Chiesa. Norcia e l’Umbria, che hanno dato i natali al grande Patriarca d’Occidente, ponte verso l’Oriente, dove la sua figura è venerata ed amata, ma anche porta che ha fatto entrare quell’Oriente monastico in Europa nel VI secolo, Norcia e l’Umbria non a caso si trovano nel cuore dell’Italia; e non a caso sono state le zone più colpite dai recenti terremoti. Il crollo della basilica costruita sulle fondamenta della casa di Benedetto e Scolastica è un grande segno, che deve far riflettere; così come deve far riflettere che proprio la statua del Santo, posta nella cripta della Basilica, sia stata ritrovata impolverata, ma integra (vedi il commovente video, qui).

Per chi, come chi scrive, la notte della prima scossa, si trovava lì a Norcia, e si stava recando a pregare il Mattutino con i monaci, che sarebbe iniziato alle 3:45 (la scossa è stata alle 3:36), ricordare i dettagli di quello che è avvenuto è un grande insegnamento, una strada segnata per quello che abbiamo davanti a noi. Tutti, istintivamente, ci siamo riuniti nella grande piazza, attorno alla statua del Santo, insieme ai monaci. Così il Magistero della Chiesa, in epoca di grandi crolli, di paure e smarrimenti, che stanno aumentando di giorno in giorno, per oltre cinquant’anni ha indicato ai cristiani e a tutti gli uomini di buona volontà di radunarsi attorno a questo grande Santo, per riscoprire la grande vocazione monastica della Chiesa e della vita cristiana.

La vita monastica altro non è se non la permanenza in tutta la storia della Chiesa del “principio mariano”, per dirla con Von Balthasar; perché la Chiesa è essenzialmente, primariamente ed escatologicamente la Sposa di Cristo, tutta protesa, come la sposa del Cantico dei Cantici, ad udire la voce dello Sposo ed a cercarlo «per le strade e per le piazze» (3, 2).

In piena Seconda Guerra Mondiale, con tutti i suoi orrori, la sua disumanità, le sue stragi di cui egli stesso cadrà vittima, Antoine de Saint-Exupéry, il “papà” de Il piccolo Principe, aveva compreso, con gli occhi dell’artista, qual è il vero problema degli uomini: «C’è un solo problema, uno solo in tutto il mondo. Regalare agli uomini un significato spirituale, inquietudini spirituali. Far piovere su di loro qualcosa che assomigli a un canto gregoriano. Non si può vivere solo di frigoriferi, di bilanci, di parole incrociate».

Bisogna avere l’innocenza di San Benedetto e di Santa Scolastica – che qualcuno potrebbe ritenere ingenuità - per capire che la soluzione di tutti i nostri problemi è racchiusa nella gratuità e nel coraggio di qualcosa che «assomigli a un canto gregoriano».

Luisella Scrosati

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