ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 29 luglio 2020

Muti si diventa

DEL POZZO, DDL ZAN: MA LA CHIESA NON HA PIÙ NULLA DA DIRE?



Cari amici e nemici di Stilum Curiae, Luca Del Pozzo ci ha mandato una riflessione a tutto campo sul DDL liberticida che è in discussione in Parlamento. È un articolo che vi consigliamo assolutamente di leggere e di meditare, perché tiene conto con grande ampiezza di voci e di argomenti. Buona lettura.

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Lo slittamento di qualche giorno, rispetto alla data prevista del 27 luglio, per l’approdo nell’aula di Montecitorio del discusso DL Zan contro l’omo-transfobia e la misoginia, anche se rappresenta comunque un segnale importante non deve far illudere. Con i numeri che ha la maggioranza alla Camera l’esito del voto, a meno di improbabili sorprese, è scontato.
La partita vera si giocherà al Senato, dove invece la coperta è molto più corta. Ed è esattamente con questo orizzonte temporale che il fronte di chi si oppone all’iniziativa in questione sta intensificando gli sforzi. Con l’auspicio che si possa replicare quanto accadde nel 2013, quando l’allora ddl Scalfarotto contro l’omofobia (e non è un caso se tra i vari disegni di legge confuiti nel testo ora all’esame, ci sia anche quello del 2013) fu prima approvato alla Camera, in settembre, per poi arenarsi al Senato l’anno dopo.
Già questo cenno di storia recente è piuttosto emblematico: a distanza di sette anni stiamo assistendo ad un remake dello stesso film – il tentativo di far cambiare per via legislativa la percezione sociale dell’omosessualità – a dimostrazione della tenacia e della determinazione con cui ben precisi ambienti innanzitutto culturali perseguono i propri obiettivi (i cattolici prendano nota). E c’è da scommettere che se anche stavolta andrà male, presto o tardi ci riproveranno col primo treno utile che passerà in parlamento.
Oggi come allora il meccanismo è semplice: crei un caso partendo da una situazione particolare per farlo diventare un problema generale e poter aver così il pretesto per intervenire. Gli esempi recenti, tanto in ambito laico quanto, ahimè, in ambito cattolico, non mancano. Si prenda il caso delle unioni civili, o se si preferisce dei divorziati risposati: se si va a vedere i numeri parliamo di cifre da prefisso telefonico internazionale. Qualcuno ha mai visto code di omosessuali fuori dai municipi o di divorziati risposati fuori dalla chiese per avere accesso all’eucarestia? Io no.
E il motivo è presto detto: perché parliamo, appunto, di fake-emergenze. Nella fattispecie, come ha documentato il Centro Studi Rosario Livatino, i dati ufficiali dell’Oscad, l’osservatorio istituito ad hoc nel 2010 presso il Ministero dell’Interno, dicono di 26,5 segnalazioni in media all’anno da settembre 2010 a dicembre 2018. Cioè, appunto, tutto tranne che un’emergenza. E questo con buona pace della campagna orchestrata ad hoc sui media, grazie alla quale curiosamente da quando è stato avviato l’iter parlamentare del dl Zan, un giorno sì e l’altro pure la cronaca riporta singoli casi di discriminazione o violenza a danno di persone samesex, con l’evidente scopo di dimostrare la tesi dell’emergenza.
La cui insussistenza è dimostrata dalla realtà dei fatti per cui occorre ribadire, a scanso di equivoci, che non c’è alcun vuoto normativo da colmare nè tanto meno alcuna emergenza che giustfichi un nuova norma. Per non parlare del fatto, ciò che rappresenta il pericolo maggiore, che per come è stato disegnato il Dl Zan costituirebbe un gravissimo vulnus alla libertà di espressione. Sarebbe cioè una norma profondamente liberticida. E va dato atto a Michele Ainis, insospettabile di qualsivoglia partigianeria contro le istanze lgbt, l’aver evidenziato dalle colonne del Venerdì di Repubblica quello che è il punto della questione: il fatto cioè che ci troviamo al crocevia della democrazia e dei due valori che la fondano, ossia la libertà d’espressione e la tutela delle minoranze. E dopo aver ricordato che i paesi in cui non esistono leggi in tal senso sono molti di più di quelli che hanno legiferato contro l’hate speech,  Ainis ha avuto il coraggio di dire che si debbono soppesare svantaggi e vantaggi di “questo nuovo reato, probabilmente i primi surclassano i secondi”. Per tre motivi: primo, perchè esistono già ben 35.000 fattispecie di reato, con la conseguenza che “ciascuno può infrangere la legge senza nemmeno sospettarlo”; d’altra parte, “se la tua omofobia ti induce a pestare un gay, c’è già l’aggravante per futili motivi, non occorre forgiarne una nuova di zecca”; secondo, “per il valore pedagogico della tolleranza. Che s’esercita verso le opinioni sgradevoli o sgradite, non certo verso i bei sermoni”; terzo, e ultimo, nel caso in cui venisse approvata una nuova legge, “gli omosessuali diventeranno «soggetti vulnerabili»  con tutti i crismi del diritto. Siamo sicuri che si tratta di un favore?”. Ainis vedi qui un rischio concreto, che cioè alla fine la legge possa rivelarsi un boomerang, perché “in generale le misure di speciale protezione verso questa o quella minoranza possono abbassarne l’autostima, e in conclusione aumentarne il senso d’inferiorità sociale”. Ma l’aspetto decisivo contro il disegno di legge in questione è che al pari di altri fenomeni a forte impronta ideologica e totalitaria – uno su tutti di stringente attualità: la cosiddetta cancel culture, che soprattutto negli Usa sta facendo strame del passato – il politicamente corretto alla base del retroterra culturale del Dl Zan è quanto, non ci stancheremo di ripeterlo, di più liberticida ci possa essere.
Il punto, come ha lucidamente evidenziato l’arcivescovo di Trieste, mons. Crepaldi, è che “in nome di alcune idee si ritiene di criminalizzare idee diverse. Se si concede la possibilità di censurare giuridicamente e penalmente non delle offese, ma semplicemente delle opinioni e delle verità di ordine antropologico e morale diverse da quelle dei proponenti il Disegno di legge, come per esempio la differenza fra uomo e donna, allora veramente la nostra libertà  – quella di tutti, non solo quella dei cattolici – è in pericolo. Si tratta di un disegno pretestuoso che va contrastato con forza”.
Anche per questo stupisce, dopo una iniziale e ferma presa di posizione, come a distanza di settimane e proprio nei giorni in cui il Dl sta per approdare alla Camera, la Chiesa italiana sembra non abbia più niente da dire. Tanto di cappello ai meritori interventi dei singoli vescovi, ma è mai possibile che i vertici della Chiesa italiana – che su altri temi siamo sicuri avrebbero ben altro atteggiamento – di fronte ad una minaccia così grave e che avrebbe serissime ripercussioni anche sull’attività formativa ed educativa della Chiesa stessa, non sentano il bisogno di tornare di nuovo sull’argomento con una campagna se possibile di intensità e forza addirittura superiori?
Anche se sette anni sono in fondo un lasso di tempo modesto, evidentemente sono stati più che sufficienti per produrre tali e tanti cambamenti da rendere irriconoscibile il volto della Chiesa italiana. Non si spiega altrimenti non solo il silenzio, ma anche l’emergere e il consolidarsi di un modo di leggere la realtà umana, e specificamente certe questioni, da cui dipende un ben preciso atteggiamento nei confronti del mondo, in senso lato, che di cattolico conserva forse solo il nome. Modo di leggere la realtà e conseguente atteggiamento nei confronti del mondo che si può riassumere in un due parole: approfondimento e dialogo. Ma proprio questo è il problema: il fatto cioè che anche su un tema dove tutto è chiaro, limpido, cristallino (“maschio e femmina li creò”), ci sia chi pensi che l’importante è il dialogo, il confronto, il dare voce a l’una e l’altra campana, il non arroccarsi su posizione rigide o portando avanti pregiudizi ideologici in un senso o nell’altro, l’essere aperti all’ascolto ed avere un atteggiamento inclusivo e rispettoso verso tutti, come se il dialogo in sé fosse un valore facendo finta di non sapere o non ricordare che esiste la verità.
Tanto più, si dice, di fronte a questioni complesse e articolate  – come si vorrebbe quella dell’identità di ciascuno  – che meritano di essere approfondite e discusse perché la realtà è, appunto, più complessa di ciò che sembra e le cose non sono mai tutte bianche o tutte nere. Ora se tale approccio, se il metodo del dialogo e della ricerca, in senso lato, fosse adottato e portato avanti da chi ha una visione laica della vita, da chi non crede che esista una verità o comunque dei valori assoluti, nulla quaestio. Ma se simili argomenti, se un simile approccio viene fatto proprio in ambito cattolico, di chiunque si tratti e qualunque sia il suo stato o mestiere, beh Huston abbiamo un problema. Per capirci, lo stesso identico problema sollevato a suo tempo dal compianto card. Caffarra quando affermò che “una Chiesa più povera di dottrina non è più pastorale, è solo più ignorante”.
D’altra parte, basta leggere alcuni dei commenti e delle opinioni sul Dl Zan apparsi di recente sul quotidiano della Cei, e confrontarli ad esempio con il documento finale del Sinodo dei giovani del 2018, per avere l’esatta misura di come in ambito cattolico stiano cambiando i registri culturali di riferimento. Il tema specifico dell’omosessualità è affrontato nei paragrafi 149 e, soprattutto, 150 (quest’ultimo non a caso il più contestato con 65 voti contrari, tra l’altro forse troppo frettolosamete intestati ai “conservatori” mentre secondo alcuni sarebbero stati espressione del malcontento dei novatori che avrebbero voluto maggiori aperture), che letti insieme ben fotografano il gattopardismo in salsa ecclesiale (non cambiare nulla per cambiare tutto) oggi in auge.
Se da un lato, infatti, il testo pare collocarsi, rifacendosi anche ad un documento della Congregazione per la Dottrina della fede, nel solco della (immutata) tradizione ecclesiale riaffermando la “determinante rilevanza antropologica della differenza e reciprocità tra l’uomo e la donna e ritiene riduttivo definire l’identità delle persone a partire unicamente dal loro «orientamento sessuale»”, dall’altro parla di “questioni relative al corpo, all’affettività e alla sessualità” – tra cui quelle sulle “inclinazioni sessuali” e sulla “differenza e armonia tra identità maschile e femminile” – che secondo i padri sinodali “hanno bisogno di una più approfondita elaborazione antropologica, teologica e pastorale, da realizzare nelle modalità e ai livelli più convenienti, da quelli locali a quello universale” (il corsivo è mio, ndr).
Ora, anche a voler tralasciare il non banale dettaglio che alla teologia del corpo San Giovanni Paolo II dedicò qualcosa come 129 catechesi di insuperata bellezza e che quindi risulta, come dire, di non immediata comprensione cosa ci sia ancora da approfondire (o meglio, si capisce eccome essendo proprio il magistero del santo papa polacco il bersaglio grosso dei novatori, come ha ben dimostrato la vicenda della riforma dell’Istituto omonimo), il punto è che sembra esserci una qualche contraddizione tra l’affermazione della necessità di ulteriori approfondimenti sulla differenza e sulla relazione uomo-donna e la riaffermazione della “determinante rilevanza antropologica della differenza e reciprocità tra l’uomo e la donna”. Non solo. C’è anche un altro aspetto che balza agli occhi, e che la dice lunga su dove quel testo, dicendo senza dire, vuole andare a parare. Dopo aver parlato in maniera generica di questioni sulla sessualità, del rapporto uomo-donna, ecc., a un certo punto si legge: “Esistono già in molte comunità cristiane cammini di accompagnamento nella fede di persone omosessuali: il Sinodo raccomanda di favorire tali percorsi”. Intanto, si potrebbe notare che dedicare un intero paragrafo  – il cui titolo “sessualità: una parola chiara, libera, autentica” nulla lascia intendere che l’oggetto sia nella realtà monotematico – alla questione dell’accoglienza delle persone omosessuali (o dell’omosessualità?), oltre che essere forse eccessivo e un pizzico riduttivo visto che la sessualità è un qualcosa che riguarda anche chi omosessuale non è (incidentalmente la stragrande maggioranza dei cristiani), è anche forse inutile dal momento che il magistero della Chiesa è chiaro su questo aspetto per cui non si capisce il bisogno di ribadire cose già note; inoltre, e cosa più importante, rischia di essere fortemente fuorviante quel riferimento ai “cammini di accompagnamento” delle persone omosessuali. Perché un conto è se parliamo di cammini attraverso i quali la persona omosessuale viene aiutata a vivere la sua condizione in conformità al Vangelo e al catechismo (come d’altra parte sono tenuti a fare anche gli eterosessuali); tutt’altro conto invece è se parliamo di cammini che, contrapponendosi apertamente al magistero della chiesa (e ce ne sono), puntano a far passare (e di conseguenza a far vivere) l’omosessualità come una condizione assolutamente naturale e normale.
Su questo punto il documento sinodale non è chiaro, e non essendo chiaro si presta a letture ambigue e fuorvianti. Con tutto ciò che ne consegue. Come ambigue e fuorvianti risultano certe prese di posizione sul Dl Zan, che pure si sono lette e sentite di recente in ambito cattolico. Sempre, beninteso, in nome del dialogo e dell’ascolto. Dialogo rispetto al quale uno come ad esempio il vescovo di Ventimiglia San Remo, mons. Antonio Suetta, ha una visione, come dire, piuttosto controcorrente, anzi diciamo pure politicamente (ed ecclesialmente) scorrettissima. E che proprio per questo ha lo stesso effetto di una più che salutare boccata d’ossigeno. Nel volume “Controcanto. La fierezza di essere cattolici” (giusto per la cronaca, fierezza in inglese si traduce con “pride”), da poco in libreria, mons. Suetta dimostra di avere una visione profetica di ciò che sta accadendo, visione di cui oggi la Chiesa ha estremo bisogno. Innanzitutto, è importante il fatto che il vescovo sottolinei la centralità della Parola per capire cosa sta succedendo: “Più leggo la Sacra Scrittura, che va sempre letta sapendo che il Signore parla oggi alla sua Chiesa, più trovo nella Parola la chiave per decifrare chiaramente quello che stiamo vivendo, e mi sorprende la volontà di molti, ostinatamente vagabondi per altre vie. Mi interroga dolorosamente come si possa non vedere un ribaltamento di tutti i valori, in particolare di quelli che attengono all’ambito della sessualità, dell’affettività, e dunque della famiglia e, allargando il discorso, a tutte le tematiche che toccano il grande dono della vita. E come è possibile non vedere in tutto questo un rovesciamento diabolico del disegno creaturale di Dio?” Non solo.
Subito dopo aggiunge una frase che, pronunciata da un vescovo, è di una gravità inaudita: “Mi viene da sorridere, amaramente, pensando che addirittura persone di fede, o peggio ancora, pastori, possano pensare di sovvertire o modificare la cifra che il Signore ha scritto nella creazione uscita dalle sue mani e dal suo cuore. Un commento serio a questo non riesco a farlo”.
Prima notazione importante: abbiamo qui un vescovo che dice chiaramente che ci sono pastori che pensano di sovvertire la creazione di Dio. Ma non è finita: perchè se è comprensibile che un mondo degradato a livello morale e umano sdogani visioni della vita e dell’esistenza oggettivamente lontane e differenti dalla verità dell’uomo, lo è molto meno il fatto che “la Chiesa, chiamata ad annunciare la verità di Cristo, si lasci irretire o anche semplicemente abbassi la guardia, lo trovo semplicemente impossibile”. “Prendiamo, ad esempio, – prosegue mon. Suetta – il tema della cura pastorale delle persone omosessuali: la Chiesa non ha mai emarginato (leggi bene: la-Chi-e-sa-non-ha-mai-e-mar-gi-na-to), ma ha sempre dato indicazioni…di cura pastorale e di valutazione morale. Si può e si deve capire meglio il fenomeno, e penso che si possa fare molto di più sul versante della cura pastorale. Però la benedizione di psuedo-nozze gay o il ritenerle una formula alternativa di famiglia mi pare sinceramente che significhe prendere i nostri convincimenti di fede e buttarli al macero”.
Ci sarebbe molto altro da aggiungere, ma fermiamoci qua per sentire cosa ha dire Suetta sul tema del dialogo, strettamente connesso a quella verità. “Oggi si esagera quando si tratta di dialogo. Lo considero assolutamente positivo, senza se e senza ma, lo colloco però nell’ordine dei mezzi. L’esasperazione del dialogo si registra quando colloca questa attitudine umana, attinente soprattutto all’inteligenza, nell’ordine dei fini: in quel caso si dice dialogo ma si intende compromesso o mistura”.
E ancora: “Dialogo è parola stupenda, che vuol dire “confronto sulle ragioni”; si tratta di un confronto appassionato, però, non di un “mercato delle ragioni” dove, come da uno scaffale, ognuno prende quello che gli serve. No, non è questo!…Se è vero – anzi verissimo – che la verità è sfaccettata e poliedrica…è altrattanto vero che la verità è una, e che l’intelletto e il cuore dell’uomo non si pacificano, se non anestetizzati da altri interessi, con verità surrogate o intermedie. Il cuore dell’uomo cerca fino in fondo la verità”. Alla luce di queste bellissime parole, si capisce ancor di più quanto sia aberrante e pericoloso un disegno di legge che punta a fare della percezione della realtà, più che della realtà in sè, il metro dell’agire dell’uomo.
Questa è la vera posta in gioco del Dl Zan. Per cui delle due l’una: o i cattolici pensano ancora di essere depositari della Verità (scritta ovviamente con la “v” maiuscola trattandosi innanzitutto di una Persona), e che tale Verità sia alla base di una precisa antropologia secondo la quale gli essere umani nascono maschi o femmine a prescindere da ciò uno “percepisce” di essere; oppure i cattolici non hanno più tale coscienza, e allora buonanotte suonatori e tanti saluti. Tra l’altro, è curioso notare che lo stesso concetto, pur partendo da altra angolazione e prospettiva, ma sempre con sullo sfondo il tema più generale dell’omosessualità, è stato espresso dal Grande Imam di Al Azhar, Ahmed El Tayed (sì proprio lui, quello che firmò con Papa Francesco il documento di Abu Dhabi sulla convivenza tra le fedi) in un’intervista su “La Lettura” del 1 marzo scorso stranamente passata inosservata, ma che avrebbe meritato ben altra attenzione. Al punto ci è arrivato poco a poco: prima ha fatto un’affermazione di carattere generale dicendo che “è questa infatti la libertà più importante: quella di difendere la civiltà e la cultura, e di convergere di lì verso una comune umanità”; poi ha specificato che “C’è chi cerca di imporre certi diritti umani che non sono veri diritti umani, ma deviazioni…Attraverso le convenzioni internazionali si cerca di imporci nuove forme di famiglia e certi diritti dei bambini; ma così si distruggeranno la famiglia e i bambini”.
Infine è arrivato al nocciolo della questione: “Le tensioni dovute alla mancanza di libertà religiosa sono meno importanti; è davvero importante il diritto delle comunità di mantenere la loro cultura e la loro civiltà; se ciò non avverrà, si produrrà una nuova forma di scontro di civiltà distruttivo per l’umanità”. Ecco perché è importante contrastare, opportune et inopportune, un disegno di legge che rischia di minare le fondamenta stesse della civiltà occidentale. In questa come in altre occasioni il contrasto all’omofobia e alla misoginia sono solo un pretesto, nobili concetti rivestiti con la suadente narrativa del politicamente corretto  e usati a mo’ di scudi umani per puntare al vero obiettivo, cambiare la percezione sociale dell’omosessualità. E allora, rispetto per tutti, nessuno escluso, sì. Pensarla diversamente dalla vulgata Lgbt in tema di famiglia, di genitorialità, di maschile e femminile, e rischiare per questo di finire in galera, anche no, grazie.

Luca Del Pozzo
Marco Tosatti
28 Luglio 2020 Pubblicato da  17 Commenti

Intervista a Tommaso Scandroglio sulla lotta alle leggi ingiuste. Di Stefano Fontana.

Scandroglio
GPII avrebbe voluto esplicitare meglio il n. 73 della “Evangelium vitae”
Intervista a Tommaso Scandroglio sulla lotta alle leggi ingiuste
di Stefano Fontana

Ringrazio Tommaso Scandroglio di questa ampia e importante intervista su un tema di cui è esperto di livello mondiale: la lotta alle leggi ingiuste. L’ho raggiunto con alcune domande a seguito della recentissima uscita del suo libro “Legge ingiusta e male minore” (Phronesis Editore 2020 acquistabile qui ). Il nostro colloquio, come il lettore potrà vedere, tocca molti temi scottanti circa la posizione dei cattolici e della Chiesa su un tema vivo ed attuale di teologia morale e di impegno politico. Ricordo che ho fatto riferimento a due punti importanti del libro di Scandroglio in due brevi articoli pubblicati nel mio blog su La Nuova Bussola Quotidiana (vedi QUI  e  QUI ).
Ricordo infine che il nostro Osservatorio si interessa da tempo al tema della lotta alle leggi ingiuste, a cui abbiamo dedicato il Quinto Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel Mondo (2013) dal titolo “La crisi giuridica ovvero l’ingiustizia legale” e il fascicolo 3 (2015) del “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” dal titolo “La lotta contro le leggi ingiuste su vita e famiglia”. Per ambedue rimando al nostro sito

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Professor Scandroglio, il primo capitolo del suo libro è dedicato a precisare con san Tommaso d’Aquino il concetto di legge naturale e i suoi rapporti con l’azione morale. Però l’impostazione metafisica del realismo tomista oggi è considerata superata sia da parte delle principali correnti di filosofia giuridica sia da parte della teologia morale cattolica. Questo rende il suo libro “inattuale”?
La verità può essere anche inattuale, ma rimane verità. Se, ad esempio, battersi contro l’aborto può apparire oggi anacronistico, ciò non toglie che l’aborto rimanga un assassinio. Ampliando il discorso, l’unica impostazione corretta, perché vera, della morale è quella di impronta metafisica, propria del personalismo ontologicamente fondato, perché la persona è costituita da un principio materiale (il suo corpo) ed uno meta-fisico (la sua anima). Dunque prima del giudizio morale occorre domandarsi chi è l’uomo, ossia come è “fatto” per scoprirne le sue reali esigenze. Dato che possiamo provare con l’uso della ragione che la persona è sinolo di materia e forma, ossia unione strettissima di un principio corporeo e di uno spirituale, va da sé che le azioni buone saranno quelle conformi alle esigenze materiali e soprattutto spirituali dell’uomo. Oggi si rigetta la metafisica anche in morale perché si considera la persona solo nel suo profilo fisico, si intende l’uomo come un centro di esigenze unicamente materiali. Lo sguardo sull’uomo – quindi il piano gnoseologico – condiziona l’etica. Pensare ad un uomo senza anima conduce ad una morale immanente, utilitarista e proporzionalista, mandando in soffitta la metafisica.
Il suo testo riguarda sia il diritto che la morale. La teologia morale cattolica oggi dà molta importanza alle “circostanze”. L’esortazione apostolica Amoris Laetitia sembra trasformarle addirittura in “eccezioni” alla norma. Le circostanze, intese come la storia e la situazione particolare di una persona o di una coppia, possono mutare la forma morale dell’azione e il discernimento personale può concludere che quelle circostanze sono addirittura  luogo di grazia. Può spiegarci, in breve, la corretta interpretazione del ruolo delle circostanze nell’azione morale? Sono solo accidentali o possono cambiare, in bene o in male, l’azione morale?
La qualificazione morale di un atto si deduce dal fine prossimo ricercato che informa l’azione materiale. Incidere con una lama tagliente la pelle di una persona è azione buona o azione malvagia? Dipende dal fine prossimo ricercato dall’agente: incidere per curare è azione (in genere) buona, incidere perché si vuole uccidere una persona innocente è azione malvagia. Ma attenzione al seguente aspetto: ogni nostro fine è calato in una circostanza concreta. Insegna Tommaso D’Aquino che vi sono circostanze essenziali ed altre accidentali in ordine al fine, ossia circostanze che incidono sulla essenza, sul fine dell’atto mutandone la coloritura morale ed altre invece ininfluenti. Ad esempio la circostanza di voler uccidere un ingiusto aggressore o una persona innocente fa cambiare il fine dell’atto, ossia la sua natura. Nel primo caso avremo come fine dell’atto, come oggetto dell’azione, “difesa”, nel secondo caso “assassinio”: la specie morale della prima azione sarà buona, la seconda malvagia. La circostanza invece che vedeva l’ingiusto aggressore o la persona innocente vestiti di rosso, non cambia – in ipotesi – la natura dell’atto, ossia l’atto rimane “difesa” e “assassinio”. Oggi si assiste sempre più al tentativo di mutare la natura di atti intrinsecamente malvagi in atti buoni richiamando circostanze che sono ininfluenti. Se Tizio, divorziato, ha un rapporto sessuale con una donna con cui è sposato civilmente, il rapporto sessuale configura sul piano morale “adulterio”. È la circostanza che vede Tizio sposato che assegna la natura di adulterio a quel rapporto sessuale. Definita la natura morale dell’atto sessuale, nessuna ulteriore circostanza può cambiarne la natura. Nessuna buona intenzione, nessun progetto a due, nessun figlio nato da questa relazione potrà mai far mutare la natura del rapporto sessuale da adulterino a coniugale. Nessuna circostanza sarà dunque in grado di cambiare l’oggetto dell’azione. In questa prospettiva il divieto di compiere atti adulterini non tollera eccezioni. Trattasi di un assoluto morale, ossia di un’azione intrinsecamente malvagia che tale rimane al di là delle condizioni in cui è calato l’atto.
Nel suo libro lei dedica un significativo spazio ai mala in se. Fino alla Veritatis splendor di Giovanni Paolo II la dottrina morale cattolica riguardante le azioni intrinsecamente cattive era chiara. In seguito però essa è stata messa in questione dallo stesso magistero pontificio al punto che uno dei dubia dei quattro cardinali riguardava proprio questo punto. Secondo lei la morale cattolica può fare a meno di questa dottrina? È possibile e auspicabile una sua revisione?
La dottrina cattolica non può fare a meno dei mala in se semplicemente perché dovrebbe mentire sulla natura dell’uomo. Il fondamento della morale naturale è il seguente: comportati in modo adeguato alla dignità della persona, ossia scegli quelle azioni che sono conformi, proporzionate alla intrinseca preziosità della persona che è sempre elevatissima. Ora alcune azioni non sono mai conformi a tale preziosità: l’assassinio, la menzogna, il furto, la tortura, la fecondazione artificiale, la contraccezione tra coniugi, etc. Uccidere una persona innocente non è mai azione consona alla preziosità della persona dell’assassino e dell’assassinato. La persona innocente non si merita di essere uccisa e così non è degno di una persona voler compiere un assassinio. I doveri negativi assoluti, cioè i mala in se, sono dunque come degli scudi che vogliono proteggere la persona da atti non congrui, non conformi alla sua dignità. Non sono delle regole astratte, ma sono divieti che discendono dalla comprensione profonda della preziosità della persona che è una realtà data e quindi da riconoscere come tale.
Un capitolo del suo libro si intitola “le leggi ingiuste non sono norme imperfette”. A quanto capisco, il principio vale sia per la legge morale che per la legge giuridica. Questa sua affermazione mi sembra molto importante perché oggi si ritiene proprio il contrario e questo è uno dei principali mutamenti della teologia morale cattolica. Una legge che riconosca e disciplini una relazione omosessuale non è considerata ingiusta ma solo imperfetta, perché la relazione oggetto della legge è considerata non come un male ma come un bene imperfetto. Ma in questo modo non sparisce il concetto di male morale e di ingiustizia giuridica (nonché il concetto di peccato in ambito religioso)?
Esattamente. Il concetto di imperfezione è applicabile solo alla gradazione che parte dal bene, passa dal meglio e approda all’ottimo. Solo l’azione buona è perfettibile, non quella malvagia. Una legge che concede sgravi fiscali per le famiglie numerose, al netto di altre circostanze che qui tralasciamo, è di per sé una legge astrattamente buona. Sicuramente perfettibile: se possibile, si potrebbero trovare più fondi, si potrebbero allargare il bacino di possibili beneficiari di questi sgravi, etc. Di contro una norma che legittima le unioni omosessuali è una legge intrinsecamente malvagia. Può essere più o meno malvagia, ma non è perfettibile e dunque non è una norma imperfetta: è semplicemente una norma ingiusta. Di fronte a norme come queste, se non si possono abrogare, è lecito intervenire per limitarne la portata negativa, ma tale intervento non configura un atto perfettivo – predicabile solo in relazione a norme giuste – bensì limitativo del male.
Nel suo libro lei esamina nello specifico i vari possibili atteggiamenti verso le leggi ingiuste, considerando criticamente soprattutto il criterio (sbagliato) del perseguimento del male minore. Di fatto abbiamo assistito ad una applicazione sistematica di questo concetto da parte dei parlamentari cattolici. Come spiega questo fenomeno così persistente, massiccio e con rarissime eccezioni, di fronte anche a leggi che con grande evidenza contraddicono la legge morale naturale?
Credo che la motivazione sia almeno duplice. In primo luogo la pessima formazione in filosofia morale. Votare una legge ingiusta è un male morale. Può essere una legge meno ingiusta di un’altra e quindi votarla sarebbe scegliere un male minore.  Ma non si può scegliere un male minore per un semplice motivo: mai si può compiere il male. Poco importa che sia minore di un altro: mai è lecito compiere il male, proprio perché il male, come accennato sopra, è ciò che non è conforme alla dignità della persona. Per ipotesi potrebbe accadere che votare questa legge meno ingiusta di un’altra provocherà meno danni rispetto alla legge più ingiusta che si vuole evitare che venga varata, ma l’uomo è sempre chiamato a compiere il bene, non sempre ad ottenere l’utile. Se l’utile deriva da un’azione malvagia, seppur piccolissima, noi abbiamo il dovere morale di astenerci da quella azione. Paolo VI nell’Humanae vitae scriveva: «non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene, cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali» (14). Ecco, questo semplice principio della legge naturale è assolutamente ignorato da molti cattolici, politici compresi, che hanno invece esaltato, anche esplicitamente, il principio del compromesso. Si tratta di una, tra le moltissime, lacune di carattere formativo presenti nei nostri rappresentanti in Parlamento e al governo, anche di estrazione cattolica.
La seconda ragione per cui molti politici cattolici o sedicenti tali si sono votati alla scuola del male minore, può essere rinvenuta in un errore di strategia. Mancando anche di una visione soprannaturale della storia, credono che le leggi sull’aborto, sul divorzio, sull’eutanasia, sulla fecondazione artificiale, sulle unioni civili siano imperiture, non abrogabili e non irriformabili. Non vogliamo ovviamente qui affermare che ciò avverrà dall’oggi al domani: occorre un impegno culturale che durerà decenni per invertire la rotta, ma ciò è possibile. Le recenti esperienze giuridiche di alcuni Stati lo confermano. Ora chi pensa di aver perso la partita per sempre, cerca di salvare il salvabile. Farebbe di tutto per portarsi a casa anche un solo punticino. Dunque non va molto per il sottile questionando su mali morali e beni possibili, su natura dell’azione e fini prossimi. Se per evitare i “matrimoni” omosessuali devo votare le unioni civili ecco che le voterò. Ma, anche al netto della valutazione morale e concentrando il nostro focus solo sul principio di opportunità o di efficacia – che sono comunque principi morali – questa strategia è perdente e la storia lo ha dimostrato ampiamente. Difendere la 194 per evitare le pillole abortive ci ha regalato l’aborto cosiddetto farmacologico. Votare e difendere la legge 40 sulla fecondazione artificiale per evitare l’eterologa, l’accesso a queste tecniche di coppie fertili ed altro, ci ha regalato proprio questi danni che volevamo evitare. Votare la legge Cirinnà per evitare l’omogenitorialità ha regalato ai magistrati la sponda ideale per introdurre proprio l’omogenitorilità. E gli esempi potrebbero continuare all’infinto. Perché è accaduto tutto questo? Perché accettate le premesse – sì all’aborto, sì alla reificazione del nascituro, sì alla legittimazione delle coppie omosessuali – si spalancano necessariamente le porte anche alle conclusioni contenute implicitamente nelle premesse. Accettata la ratio di una norma non si possono poi fermare quelle conseguenze giuridiche che discendono logicamente da quella stessa ratio. Accolto il male minore presto giungerà quello maggiore, semplicemente perché come il minore anche il maggiore è un male.
Lei è un profondo conoscitore di John Finnis, autorevolissimo filosofo del diritto che si rifà a san Tommaso. Su di lui ha anche pubblicato dei testi specifici [La legge naturale di John Finnis, Editori Riuniti, Roma 2008; La teoria neoclassica sulla legge naturale di Germain Grisez e John Finnis, Giappichelli, Torino, 2012. Sul tema della lotta alla legge ingiusta lei concorda con Finnis?
No. Finnis, sicuramente in buona fede, erra (così come spesso erra nella interpretazione di Tommaso). La questione è tecnica e rimando al libro per un approfondimento. Molto in sintesi il ragionamento di Finnis e di moltissimi altri autori di estrazione cattolica è il seguente: voto la legge ingiusta al fine di limitare i danni e non al fine di approvare l’iniquità contenuta nella legge. Gli effetti negativi prodotti dal voto a favore sarebbero solo effetti collaterali non voluti. Ma in realtà si compie un’azione malvagia – il voto ad una legge ingiusta – per un fine buono – limitare i danni. E mai è lecito compiere un male anche a fin di bene. Il percorso argomentativo del saggio mira sostanzialmente a validare la seguente tesi: votare a favore significa approvare, al di là delle intenzioni buone di chi vota a favore. Parimenti chi uccide una persona innocente per testare delle cure compie un assassinio per un fine buono. Costui non può informare l’azione materiale dell’uccisione dell’innocente con il fine prossimo “curare”, perché in realtà, anche se per ipotesi non ne è consapevole, il fine prossimo da lui scelto è oggettivamente “assassinio”. Dunque votare a favore significa dal punto di vista morale approvare – è addirittura tautologico sottolinearlo. In modo più analitico dovremmo dire che l’atto materiale di premere un pulsante o di alzare la mano è informato oggettivamente dal fine “approvare” – perché è questo il significato giuridico convenzionale assegnato a tali azioni e dunque il significato morale (trattasi di condizione che incide sulla essenza dell’atto) – e non può essere sostituito da nessun altro fine, come “limitare i danni”. Questo semmai sarà un fine secondo. In estrema sintesi, Finnis e molti altri individuano nella limitazione del danno di una legge ingiusta il fine prossimo che informa l’atto materiale del votare a favore e qualificano gli effetti negativi prodotti dal voto a favore come effetti meramente tollerati e non voluti; il sottoscritto, di contro, individua l’approvazione degli effetti negativi come fine prossimo che informa l’atto materiale del voto a favore e la limitazione dei danni come fine remoto.
Di grande interesse nel suo libro è la parte dedicata al paragrafo 73 della Evangelium vitae. Un paragrafo scabroso e famoso, diversamente interpretato e citato da molti a sostegno di interventi legislativi di presunta riduzione del danno che lei invece considera incompatibili con esso. Il cuore della sua analisi mi sembra essere che interventi migliorativi di una legge ingiusta che in una certa situazione non è possibile abolire e condotti nel senso di limitarne i danni non possono comportare l’approvazione di un male nemmeno minore. Mi permetta di chiederle a questo proposito: ma questo non è stato di fatto mai insegnato da chi avrebbe dovuto farlo. Se le cose non vengono insegnate e chiarite come aspettarsi poi che vengano seguite ed applicate? 
Prima di rispondere alla sua domanda mi permetta di sottolineare un particolare snodo concettuale. Limitare i danni è un fine buono, ma tale fine deve essere soddisfatto per il tramite di un atto parimenti buono. Io potrei uccidere una persona innocente per evitare che periscano altre 100: limiterei sicuramente i danni ma attraverso un atto malvagio. E dunque, bene limitare i danni di una legge ingiusta quando è impossibile abrogarla o impedirne il varo, ma la limitazione del danno deve avvenire scegliendo un atto eticamente buono (nel mio testo indico concretamente molte soluzioni eticamente valide per limitare i danni) e votare una legge ingiusta, seppur meno ingiusta di un’altra, non è un atto buono. Ora tutti questi passaggi argomentativi sono impliciti nel n. 73 dell’EV, perché portato dottrinale cattolico di carattere morale dato per assodato. Però a seguito di molte manipolazioni di questo numero forse sarebbe stato bene esplicitare in modo più chiaro il senso di tale paragrafo. Questa era infatti l’intenzione di Giovanni Paolo II. Il compianto cardinal Elio Sgreccia, che fu presidente della Pontificia Accademia per la Vita regnante Giovanni Paolo II e che, così pare, insieme al cardinal Tettamanzi ebbe un certo ruolo nella estensione dell’Evangelium vitae, in un colloquio privato a casa sua mi raccontò che il Santo Padre avrebbe voluto esplicitare ancor meglio il numero 73. Non lo fece, così mi rivelò, per non entrare in rotta di collisione con la Conferenza episcopale polacca che solo due anni prima aveva dato il proprio appoggio a una nuova legge sull’aborto perché più restrittiva di quella precedente, varata nel 1956. Avendo io consultato, almeno credo, tutta la letteratura mondiale sul tema del voto ad una legge ingiusta al fine di limitarne i danni – produzione letteraria per la gran parte proveniente da ambiente cattolico –  posso affermare che la stragrande maggioranza degli autori, spesso assai ortodossi su altre tematiche, è in definitiva favorevole nel votare una legge ingiusta per evitarne un’altra peggiore che sta per essere approvata o per riformare in meglio una già vigente oppure per limitare le condotte inique già presenti nella società e non ancora disciplinate dalle norme giuridiche (è il famigerato caso della legge 40 sulla fecondazione extracorporea). Dunque, e veniamo alla sua domanda, non stupisce che la tesi sostenuta nel mio saggio non venga insegnata, né divulgata anche perché, oggettivamente, il percorso per giungere alle conclusioni che qui ha indicato in modo molto sintetico è assai accidentato e ricco di insidie.
Un documento ateo dal Vaticano.
Stamattina vedo sulla Nuova Bussola Quotidiana un editoriale di Stefano Fontana intitolato Se per il Vaticano Dio non esiste (qui: https://lanuovabq.it/it/se-per-il-vaticano-dio-non-esiste) e, prima di leggerlo, penso che il titolo sia un po’ esagerato, secondo la regola giornalistica di spararla grossa per farsi sentire in mezzo al frastuono. Dopo averlo letto e soprattutto dopo aver dato un’occhiata al testo integrale del documento della Pontificia Accademia per la Vita a cui l’articolo si riferisce (qui: http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_academies/acdlife/documents/rc_pont-acd_life_doc_20200722_humanacomunitas-erapandemia_it.html), capisco invece che quel titolo va preso alla lettera.
In particolare, trovo che sia completamente privo di qualsiasi riferimento alla fede in Dio il passaggio che Fontana cita all’inizio del suo editoriale per rilevarne giustamente lo scadente livello stilistico, ma che dal punto di vista cristiano richiede, a mio avviso, una censura ben più radicale riferita al suo inaccettabile contenuto. Il passo, che riporto in modo un po’ più ampio di Fontana, è il seguente:
“Fragili”. Ecco cosa siamo tutti: radicalmente segnati dall’esperienza della finitudine che è al cuore della nostra esistenza; non si trova lì per caso, non ci sfiora con il tocco gentile di una presenza transitoria, non ci lascia vivere indisturbati nella convinzione che tutto andrà secondo i nostri piani. Affioriamo da una notte dalle origini misteriose: chiamati a essere oltre ogni scelta, presto arriviamo alla presunzione e alle lamentele, rivendicando come nostro quello che ci è stato solamente concesso. Troppo tardi abbiamo imparato ad accettare l’oscurità da cui veniamo e a cui, infine, torneremo.
«Affioriamo da una notte dalle origini misteriose»? «Troppo tardi abbiamo imparato ad accettare l’oscurità da cui veniamo e a cui, infine, torneremo»? Parli per sé, la Pontificia Accademia. Noi cristiani sappiamo di venire e di essere chiamari a tornare alla luce infinita dell’amore creatore di Dio. L’oscurità è tutta e solo nella testa dell’autore o degli autori di questa prosa.
Naturalmente, per scrupolo filologico sono andato a controllare se il passo nel suo contesto originale possa essere suscettibile di un’interpretazione diversa. Con uno sforzo ai limiti delle possibilità umane si potrebbe forse sostenere che qui il documento dà voce alla condizione umana “comune”, e che la prima persona plurale di quei verbi indica “noi uomini in quanto tali, senza la luce della fede cristiana”. Un minimo appiglio per tale disperata operazione di soccorso sembrerebbe trovarsi nelle frasi immediatamente seguenti: «Secondo alcuni questa storia è assurda, in quanto tutto si riduce al nulla. Ma come potrebbe questo nulla essere la parola finale? E se così fosse, perché combattere? Perché ci incoraggiamo reciprocamente a sperare in giorni migliori, quando tutto ciò che stiamo vivendo in questa pandemia sarà finito? La vita va e viene, dice il custode della prudenza cinica. Ma questo suo crescere e decrescere, ora reso più evidente dalla fragilità della nostra condizione umana, potrebbe aprirci a una diversa saggezza, una diversa consapevolezza (cfr. Ps. 8): la dolorosa prova della fragilità della vita può anche rinnovare la nostra consapevolezza che è un dono. Tornando alla vita, dopo aver assaporato il frutto ambivalente della sua contingenza, non saremo più saggi? Non saremo più grati, meno arroganti?». A parte il fatto che sarebbe comunque scandaloso che un cattolico, per non scandalizzarsi di un documento vaticano, sia costretto a sudare sette camicie al fine di interpretarlo in bonam partem, in questo caso l’impresa si rivela subito un’arrampicata sugli specchi del tutto inutile perché nel documento della Pontificia Accademia per la Vita il Vangelo, cioè la buona notizia che le cose non stanno così, è completamente assente. Il dono a cui vagamente si accenna (fra l’altro con l’unica vaghissima citazione dalla Sacra Scrittura presente nel documento), nell’orizzonte del testo non è reale, perché non si intravede alcun donatore. E se non c’è chi dona, non vi è alcun dono. Sono solo chiacchiere (per giunta insopportabili perché si sente lontano un miglio che chi le ha scritte si sente un poeta).
Quindi sì, le cose stanno proprio come dice quel titolo della NBQ: dal Vaticano hanno emanato un documento ateo.

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