Ecco un qualificato contributo di John Paul Meenan alla lettera dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò del 9 giugno scorso sulla eredità del Concilio Vaticano II. John Paul Meenan è professore di teologia e scienze naturali, e membro fondatore della sede di Our Lady Seat of Wisdom College in Barry’s Bay, Ontario, è anche editore e scrittore presso la Catholic Insight. L’articolo del prof. Meenan è stato pubblicato su Lifesitenews e ve lo propongo nella mia traduzione.
Il Vaticano II – per usare un’analogia au courant – è un virus all’interno del Corpo di Cristo? L’arcivescovo Viganò nella sua lettera pubblica del 9 giugno, nel giorno del grande poeta, mistico e innografo sant’Efraim, è arrivato per molti come un Geremia con un ritardo di lungo tempo, condannando i presunti errori dell’ecclesia moderna, della Chiesa moderna, anche del Concilio Vaticano II, o almeno della sua interpretazione, e ci esorta a riflettere, a pentirci e a riformare. Possiamo condividere le sue preoccupazioni, ed essere grati che qualcuno abbia il coraggio di far notare senza mezzi termini che qualcosa deve essere fatto per il pasticcio Egeo in cui ci troviamo. Dovremmo tutti agire per aiutare a purificare la Chiesa, ma con quella purificazione che inizia in ciascuna delle nostre anime.
Eppure, avvertenza – si guardi bene il lettore: è proprio quello che si deve fare che è il problema, ed è con questo spirito che la lettera dell’arcivescovo richiede una risposta chiarificatrice, affinché le sue parole siano comprese alla luce della stessa verità che lo ha spinto a scrivere in primo luogo. Non vogliamo essere precipitosi, gettando via il bambino con l’acqua sporca, che renderebbe gli eventuali errori successivi peggiori – forse molto peggiori e più subdoli – dei primi. Le cose di solito non sono così semplici come possono apparire – ci sono misteri che durano fino alla fine dei tempi.
Ora, non è sottinteso che l’Arcivescovo abbia commesso nessuno degli errori che possono essere menzionati qui – anche se ora potrebbe essere arrivato al punto di chiedere un ripudio dell’intero Concilio, il che sarebbe tragico – solo che il lettore dovrebbe fare attenzione che parte di ciò che l’Arcivescovo ha scritto può essere propedeutico a una visione erronea degli insegnamenti della Chiesa.
L’arcivescovo sostiene che “è innegabile che dal Concilio Vaticano II in poi è stata costruita una chiesa parallela, sovrapposta e diametralmente opposta alla vera Chiesa di Cristo”.
Forse, e ci sono molte prove di una tale “quinta colonna”, ma dovremmo fare attenzione allo spettro di un neodonatismo, o addirittura di uno gnostico-donatismo nel tentativo di delineare una Chiesa “pura” all’interno del pantano circostante di una Chiesa apostata, sovrapposta ad essa. Donato, un vescovo africano del IV secolo, contro i cui errori sant’Agostino si battè strenuamente, sosteneva che ci fossero peccati che gettavano nell’oscurità esterna, e che impedivano di pentirsi e di cercare la riammissione all’interno dell’ovile cattolico. Inoltre, la grazia sacramentale sarebbe fluita solo attraverso ministri “puri”, e che gli apostati – adulteri, assassini e coloro che hanno ceduto di fronte alle persecuzioni – fossero oltre il recinto, e che potevano più o meno essere evitati e ignorati.
Sua Eccellenza continua:
per decenni siamo stati indotti in errore, in buona fede, da persone che, stabilite nell’autorità, non hanno saputo vegliare e custodire il gregge di Cristo: alcune per il gusto di vivere in tranquillità, altre per troppi impegni, altre per convenienza, altre ancora per malafede o addirittura per malizia. Questi ultimi che hanno tradito la Chiesa devono essere identificati, messi da parte, invitati ad emendare e, se non si pentono, devono essere espulsi dal sacro recinto. Così agisce un vero Pastore, che ha a cuore il benessere delle pecore e che dà la sua vita per loro; abbiamo avuto e abbiamo ancora troppi mercenari, per i quali il consenso dei nemici di Cristo è più importante della fedeltà al suo Sposo.
La verità di quale dei ministri della Chiesa sia in regola, e per estensione anche chi appartiene alla Chiesa, è complessa e opaca, eppure governata da certi principi e leggi. La Chiesa è una realtà sia terrena che celeste, storica e trascendente, e noi apparteniamo, più o meno, ad entrambe: Ci sono i tre legami visibili della comunione: l’unità nella fede, nel governo ecclesiastico e nel culto sacramentale. Poi ci sono i legami spirituali di comunione, di grazia e di carità. In definitiva, appartenere alla Chiesa è la stessa cosa che appartenere al Corpo mistico di Cristo, ma quella Chiesa è veramente “cattolica”, universale, in quanto è in un certo senso ovunque, e tutti in qualche modo o appartengono o sono ordinati alla Chiesa. Dopo tutto, tutto ciò che è vero e buono è “cattolico”, e, da questo lato dell’eternità, nessuno è completamente al di fuori della Chiesa.
L’unione con la Chiesa è, in un certo senso, uno spettro – possiamo appartenere “più o meno”, perché chi di noi direbbe che siamo uniti a Cristo tanto quanto potremmo esserlo, o visibilmente (non potremmo tutti pregare di più, o immergerci di più nella vita liturgica e sacramentale della Chiesa?), o, più precisamente, spiritualmente (e guai a noi se diciamo di aver raggiunto il nostro apice di carità e grazia).
Sì, c’è un Rubicone tra l’essere nello stato di grazia e non essere in questo stato che, per chi è abbastanza grande per prendere decisioni morali, significa essere in “peccato mortale”. Anche se abbiamo un certo accesso al nostro stato interiore, non abbiamo accesso a quello degli altri – l’essere in grazia o in peccato mortale hanno elementi oggettivi, ma sono in ultima analisi soggettivi, determinati dalla profonda decisione che ognuno di noi prende per la verità, per la carità e per Dio, come Egli parla a ciascuno di noi. E anche la consapevolezza della propria condizione spirituale di fronte a Dio non è infallibile. Possiamo raggiungere un certo livello di certezza morale su noi stessi, ma dobbiamo guardarci dalla presunzione, rispondendo con santa Giovanna d’Arco, che durante la sua prova ha risposto alla domanda se fosse in stato di grazia: “Se non lo sono, che Dio mi ci metta dentro; se lo sono, che Dio mi tenga lì”.
Se c’è un po’ di incertezza su noi stessi, quanto di più questo vale per gli altri, e mi vengono in mente due avvertimenti del Vangelo. Uno, dove gli Apostoli chiedono a Cristo di mandare il fuoco dal cielo sui Samaritani (Lc 9,34), che si rifiutarono di accettarli. La risposta di Cristo è stata quella di rimproverare i Suoi Apostoli, una risposta che è coerente con l’ammonizione di Cristo che il grano e la tara siano lasciati crescere insieme fino al tempo della mietitura, quando Dio li separerà (Mt 13:24, ss.). La divisione tra il bene e il male, infatti, è in qualche misura esterna, è più interna, attraversa il cuore di ognuno di noi – anche se lo stato della nostra anima si esprime in qualche misura nelle nostre azioni. A volte, le autorità della Chiesa devono agire per deporre e sfrondare, ma questo non è di nostra competenza. Il fatto che Cristo stesso abbia tollerato Giuda, conoscendo bene le tenebre dentro di lui, finché si è impiccato alla sua stessa forca, per così dire, dovrebbe essere una lezione oggettiva.
È con queste distinzioni in mente che dobbiamo interpretare il dogma extra ecclesiam nulla salus – fuori dalla Chiesa non c’è salvezza. Ecco di nuovo l’arcivescovo, citando l’antico Credo atanasiano, che cementava l’ortodossia trinitaria nicena: “Chi vuole essere salvato, prima di tutto è necessario che abbia la fede cattolica; perché se uno non avrà mantenuto questa fede integra e inviolata, senza dubbio perirà per sempre”.
Dobbiamo guardarci dall’assumere un’interpretazione troppo liberale o troppo restrittiva della dottrina secondo cui al di fuori della Chiesa non c’è salvezza, che non è un evento statistico, ma personale. L’universalismo, che tutti (alla fine, almeno) appartengono alla Chiesa e tutti sono alla fine salvati, non si discosta dagli avvertimenti di Cristo e dal tradizionale insegnamento della Chiesa sulla realtà dell’inferno e dalla scelta di alcuni per quella definitiva “autoesclusione” da Dio e dai beati. Ma non dobbiamo neanche assumere una visione troppo restrittiva, come ha fatto padre Leonard Feeney (+1978), che uno deve essere battezzato, cattolico romano con tutti e tre i legami visibili dell’unità per essere salvato. La Chiesa non ha mai insegnato questo, e padre Feeney è stato condannato per averlo fatto. Questo ci porta in acque torbide, ma noi diciamo per ora che bisogna essere certamente in uno stato di grazia e di carità per entrare in cielo, e che la Chiesa e i suoi sacramenti sono l’unico modo rivelato, oltre che il più sicuro, per essere moralmente certi di essere in uno stato di grazia e di carità. È ben altra cosa andare verso la pienezza della verità per mezzo della luce e della grazia che ci viene data, e rifiutare consapevolmente e volentieri la verità salvifica una volta che l’abbiamo accettata come vera.
L’Arcivescovo fa un’osservazione valida, secondo la quale ci sono segni per cui alcuni, anche al livello più alto della gerarchia, hanno fatto questa tragica scelta, ma che in definitiva è nota solo a Dio stesso. Ed ecco il punto, che ci riporta al donatismo. Condannando questa eresia, la Chiesa ha insegnato che indipendentemente dai peccati, o anche dagli errori, di un vescovo o di un sacerdote – anche del Vicario di Cristo – essi sono ancora ministri sacramentali, fino a quando non vengono censurati, destituiti e addirittura ridotti allo stato laicale dalle autorità competenti della Chiesa. Dobbiamo tentare di deporre vescovi e sacerdoti considerati “apostati”? Chi deve fare questa distinzione, e attuare la deposizione?
E dobbiamo chiarire che non esiste un’autorità terrena, un processo canonico, anche nella Chiesa, che possa giudicare o rimuovere un Papa validamente eletto, la cui carica cessa solo per dimissioni volontarie, o per morte.
Prima di rivolgerci al Concilio stesso, cosa dobbiamo fare dell’implicita affermazione dell’arcivescovo che tutte – o quasi – le nostre attuali disgrazie sono il risultato dei suoi insegnamenti – che hanno più di un po’ di un post hoc ergo propter hoc (cioè, quando si pretende che se un avvenimento è seguito da un altro, allora il primo deve essere la causa del secondo, ndr)? Le cose si stavano già disfacendo ben prima del Concilio, e si potrebbe anche sostenere che sarebbero state peggiori senza di esso. Certo, anche questo non può essere dimostrato, ma ci sono prove storiche secondo le quali un Concilio era necessario perché la Chiesa rispondesse al mondo moderno.
Nessun Concilio è perfetto, e alcuni più imperfetti di altri, ma tutti i Concili ratificati dal Papa entrano a far parte del Magistero ordinario, e bisogna prendere ciò che è buono, chiarendo e purificando ciò che non lo è.
Sì, ci sono delle omissioni, ma è così per tutti i documenti della Chiesa, nessuno dei quali può dire tutto. La questione è se queste omissioni sono state intenzionali, e se c’è stato un tentativo di “ambiguità usata come un’arma”. Forse. Ma molti Concili hanno avuto dispute post-conciliare sui termini, compreso il primo, a Nicea, nel 325: Basta scorrere tutte le battaglie combattute per la parola “homoousios”, che definisce il rapporto di Cristo con il Padre. Comunque, continuare a concentrarsi sui motivi e sulle macchinazioni sembra avvicinarsi, ironia della sorte, allo stesso “spirito del Concilio”, di cui tutti siamo diffidenti. Dovremmo invece concentrarci sul testo stesso, non sull’opinione e sulle motivazioni dei Padri conciliari, prima, durante o dopo il Concilio, che in definitiva, in qualche modo, è opera dello Spirito Santo, anche se la sua opera è spesso piegata da agenti umani fallibili e peccaminosi. Dio scrive dritto con linee storte.
Papa Giovanni XXIII ha chiarito fin dall’inizio che il Concilio non avrebbe dovuto tenere un tono di condanna, ma avrebbe dovuto piuttosto sottolineare l’aspetto positivo dell’insegnamento della Chiesa. Dopo tutto, il comunismo e la contraccezione – per prendere solo due dei bete noir (crucci, ndr) di coloro che si opponevano al Concilio, sostenendo che questi avrebbero dovuto essere considerati anatema in maniera puntuale – erano già stati condannati senza mezzi termini da Pio XI, rispettivamente nel 1937 (Divini Redemptoris) e nel 1931 (Casti Connubii). E la Chiesa era nel mezzo di una risposta all’invenzione e all’uso della “pillola”, che richiedeva un chiarimento su cosa fosse realmente la contraccezione. E persino l’Humanae Vitae di Papa Paolo VI (1968) ha avuto bisogno della Teologia del corpo di Giovanni Paolo II per irrobustire i suoi insegnamenti. Insegnamento magisteriale, due millenni e passa, e deve essere preso come un tutt’uno.
Possiamo discutere sul modus operandi di Giovanni XXIII, che è certamente diverso dai precedenti Concili, ma dobbiamo ammettere che non ha molto senso condannare la sessualità con intento contraccettivo se non si afferma che quello non contraccettivo e vivificante ed è di gran lunga migliore e ancora più piacevole. E che una sorta di libera economia d’impresa, basata sull’iniziativa privata e sull’energia dei singoli, è un modello sociale più efficace ed efficiente, e più divertente, del socialismo statico e stantio. La Chiesa non può sempre condannare ciò che non dovremmo fare – deve anche insegnare ciò che dovremmo fare.
Potremmo, e probabilmente lo faremo, discutere di questo fino a quando Cristo non tornerà di nuovo e si chiederà cosa abbiamo fatto del nostro tempo, ma qualunque siano le lacune e le privazioni che ci possono essere state nel modo in cui le verità sono state espresse, non c’è un’eresia esplicita nei decreti conciliari, e gran parte del linguaggio è anche molto conservatore – dalla riaffermazione del celibato sacerdotale e della castità, agli ordini religiosi che riaffermano le loro regole originali e lo spirito dei loro fondatori, all’esigenza che i laici si impegnino per la santità, la devozione alla Madonna e il supremo primato del Papa. Vi avverto che bisogna leggere almeno una parte nell’originale in latino, perché, qualunque cosa si pensi dell’editio typica, le traduzioni inglesi (che sono tutte quelle che le persone hanno letto, se hanno letto i testi conciliari) sono certamente carenti e tendenziose in molti punti – anche le note a piè di pagina sono diverse. Inoltre, dobbiamo anche ricordare che ogni documento del Concilio è stato esaminato e approvato da quasi tutti i vescovi del mondo con un margine schiacciante, e promulgato con la piena autorità del Papa. Se dobbiamo rivalutare una tale decisione conciliare a mezzo secolo di distanza, cos’altro potrebbe essere in palio? L’intero pontificato di Giovanni Paolo II?
Si potrebbe scrivere un libro su questo, e alcuni l’hanno già fatto, ma per ora ci concentreremo sui tre aspetti del Concilio che l’arcivescovo contesta:
Così “Ecclesia Christi subsistit in Ecclesia Catholica” non specifica l’identità dei due, ma la sussistenza dell’uno nell’altro e, per coerenza, anche in altre chiese: ecco l’apertura alle celebrazioni interconfessionali, alle preghiere ecumeniche, e l’inevitabile fine di ogni esigenza della Chiesa nell’ordine della salvezza, nella sua unicità, e nella sua natura missionaria.
In primo luogo, l’insegnamento secondo il quale la Chiesa che Cristo ha fondato sussiste (subsistit in) nella Chiesa cattolica significa che la pienezza di ciò che significa essere Chiesa (vedi i vincoli dell’unità e simili) si trovano nella Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica. Il Concilio non insegna che la Chiesa sussiste in altre religioni, ma piuttosto che gli elementi di ciò che significa essere Chiesa – segni, prefigurazioni e persino certe realtà – si possono trovare al di fuori dei suoi confini visibili. I protestanti hanno un battesimo valido e persino il matrimonio; le loro altre cerimonie sono un abbozzo della liturgia della Chiesa; e non sono già “cattoliche” le opere buone in qualsiasi percorso di vita – digiuno, preghiera, elemosina – che possono spingere verso l’unità e la pienezza della verità?
L’analogia può essere applicata a qualsiasi persona (perché la Chiesa è in definitiva la “Persona” di Cristo). C’è un busto di bronzo di Papa San Giovanni Paolo II fuori dal nostro collegio. Se io camminassi con un non credente e lui mi chiedesse “chi è?”, risponderei “Papa Giovanni Paolo II”. Certo, non è proprio Papa Giovanni Paolo II, ma è lui, in un certo senso. Lo stesso vale, inoltre, per i suoi scritti, l’esempio e i ricordi che ha lasciato, le sue buone opere che si spargono nel tempo e così via. Ma per quanto riguarda il luogo dove Papa Giovanni Paolo II “è” nella sua pienezza – dove “sussiste” – beh, sarebbe, mentre era in vita, dove è il suo corpo, e ora sussiste in cielo, in attesa del ritorno di quel corpo nella risurrezione.
Così anche noi troviamo ovunque elementi di cattolicesimo – tutto ciò che è vero, buono e bello, ma la Chiesa – ricorda la sua fondamentale realtà spirituale – si trova dove i legami visibili sono più presenti, anche nell’Eucaristia, con i fedeli riuniti intorno. La Chiesa è più lì – più sussistente – che nel mio salotto, o in mezzo a una foresta, anche se la Chiesa è lì in un certo senso. Il punto è che la Chiesa non è una “cosa” strettamente chiusa, ermeticamente sigillata, che si può dire “eccola!”. Dopotutto, ci si può chiedere: dove non è la Chiesa?
In secondo luogo, queste distinzioni valgono per la dichiarazione Nostra Aetate, sulle religioni non cristiane, che l’arcivescovo sostiene essere responsabile delle attuali tendenze sincretiche deleterie nella Chiesa. Ma questo documento, pur chiarendo il nostro rapporto con il popolo ebraico e il suo ruolo salvifico, esprime semplicemente la verità che ci sono verità che si trovano in altre religioni, i cui molti membri sono alla ricerca della verità non ancora trovata, come ha gridato San Paolo agli ateniesi: “Ciò che dunque adorate come [Dio] sconosciuto, questo vi proclamo! (At 17, 23)”. E, con san Paolo, quelle verità formano un terreno comune da cui partire per iniziare il dialogo e l’evangelizzazione. Se preghiamo “con” loro – cioè accanto a loro, nello stesso luogo – distinguiamo una tale cosa dal pregare “come” fanno loro, ponendo l’accento su ciò che abbiamo in comune.
Infine, c’è l’affermazione dell’arcivescovo che “se la pachamama può essere adorata in una chiesa, lo dobbiamo a Dignitatis Humanae“. Molti hanno fatto affermazioni esagerate su questo decreto effettivamente controverso, che non si trova nel testo stesso, nella sua discussione su alcuni aspetti della libertà religiosa. Anche questo è un argomento complesso, ma l’insegnamento di base del documento è che l’essere umano deve essere libero dalla coercizione dello Stato in questioni specificamente religiose. Dopo tutto, i diritti esistono sempre in relazione e all’interno di circostanze concrete, anche se alla fine provengono e sono tutti fondati in Dio. Ciò che possiamo avere “diritto” di fare o non fare in un contesto, non implica necessariamente che abbiamo lo stesso diritto in un altro contesto. Il documento non insegna che le persone hanno il diritto davanti a Dio di praticare una falsa religione. Il suo stesso paragrafo iniziale afferma che lascia “intatto” (integram) il “dovere morale degli uomini e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo”. Ciò che fa è ribadire che ognuno di noi deve giungere alla verità, e alla Fede, liberamente, senza costrizioni esterne, specialmente da parte dello Stato. Anche qui, questa libertà può essere praticata solo “entro i dovuti limiti”, e c’è spazio per l’intervento dello Stato in materia religiosa, come la Chiesa ha sempre insegnato, per preservare “l’ordine pubblico giusto”. Si potrebbero anche applicare questi principi per mantenere la nozione di Stato confessionale, cattolico, che non è espressamente proibito, e che il testo implica che noi continuiamo a considerare come l’ideale.
Come uno che ha passato gran parte della sua vita cercando di presentare l’insegnamento della Chiesa in modo chiaro e preciso, una parte di me vorrebbe che i testi conciliari fossero più “scolastici”, come, ad esempio, quelli del Concilio di Trento. È ironico, però, che il Concilio Vaticano II sostenga nei termini più forti (e più chiari) lo studio di san Tommaso d’Aquino, da parte di studenti, laici ed ecclesiastici (uno dei suoi tanti insegnamenti raramente messo in pratica). E una lettura scolastica del Concilio – chiarendo tutto ciò che è ambiguo – sarebbe quella più fedele alla perenne tradizione della Chiesa.
E parlando di Tommaso, ha un detto che è pertinente: quidquidquid recipitur ad modum recipientis recipitur – “tutto ciò che si riceve è ricevuto secondo la modalità del ricevente” – e c’è molto delle nostre convinzioni e dei nostri pensieri a priori in ciò che leggiamo. Forse una buona parte del nostro mondo moderno potrebbe “ricevere” l’insegnamento della Chiesa solo in un tale “modo”, almeno inizialmente, in accordo con il motto di San Paolo secondo cui noi – la Chiesa – dobbiamo essere tutto per tutti gli uomini. E dobbiamo anche ricordare l’avvertimento dell’Apostolo che ci sarà sempre qualcuno con “orecchie che prudono” che leggerà ciò che vuole leggere, e ignorerà ciò che vuole ignorare, privo di occhi per vedere e di orecchie per sentire, che ha abusato e distorto l’insegnamento della Chiesa, indipendentemente da come possa essere stato presentato.
Un’ultima nota più personale: suggerirei rispettosamente di riferirci abitualmente a Papa Francesco con il nome che ha scelto, e non, o almeno non abitualmente, con il suo ultimo – e precedente – nome, Bergoglio. Indipendentemente dal nostro pensiero sull’attuale occupante della cattedra di Pietro – e tutti noi ne abbiamo molti – noi siamo la Chiesa militante, una frase non esplicitamente usata, ma comunque sottintesa dal Concilio, e che dovremmo mantenere. E nell’esercito salutiamo il grado, non l’uomo. Francesco è il Papa, e il Papa è Francesco, finché Dio non decide e/o manifesta chiaramente il contrario.
Tutto sommato, dovremmo essere con l’Arcivescovo Viganò nella sua chiamata alle armi spirituali e alla riforma, ma dobbiamo usare queste armi e realizzare la riforma in serenità, carità e verità. Allo stesso tempo, non vogliamo sottovalutare il compito erculeo che ci attende, possibile solo con la grazia di Dio. Quello che non dobbiamo fare è sferrare un colpo di frusta, e in una sorta di antitetica contro-reazione hegeliana, andare troppo oltre, rigettando il bene insieme al male. Non si può tornare indietro ad un tempo mitico, utopico, di antiquariato, “incontaminato”, e ciò che la Chiesa è e ha insegnato deve essere recepito, e assimilato con la sua Tradizione, così come si esprime secondo le epoche e le epoche storiche. Per tornare all’analogia virale, la Chiesa ha un suo sistema autoimmune, se volete, insieme alla guida dello Spirito Santo, attraverso il quale ogni apparente deviazione, ambiguità o omissione – non si può fare a meno di pensare alle affermazioni di Papa Francesco e persino alle sue encicliche – vengono alla fine corrette e chiarite. Oppure, per usare un’altra metafora dei Padri, la Chiesa è una nave, la stessa barca di Pietro, e per navigare nel mare dell’ortodossia dobbiamo sempre tracciare e correggere la nostra rotta, un po’ più a dritta o a babordo. Siamo tutti in pellegrinaggio verso quel culmine finale di tutte le cose, e dobbiamo mantenere il nostro buon senso, e la nostra anima, su di noi, radicati nella pienezza, e nel mistero, della verità.
Di Sabino Paciolla
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