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lunedì 31 agosto 2020

Dagli anni del Concilio iniziò un processo di scristianizzazione

Storicizzare il Concilio Vaticano II. Ecco come il mondo di quegli anni influì sulla Chiesa



(s.m.) Non deve essere solo teologica la disputa che sta infiammando la Chiesa, su come giudicare il Vaticano II. Perché anzitutto va analizzato il contesto storico di quell’evento, tanto più per un Concilio che programmaticamente dichiarò di volersi “aprire al mondo”.
È ciò che prova a fare, in questo saggio pubblicato per la prima volta su Settimo Cielo, Roberto Pertici, docente di storia contemporanea all’università di Bergamo e specialista dei rapporti tra Stato e Chiesa, firma di prestigio de “L’Osservatore Romano” negli anni della direzione di Giovanni Maria Vian.

Pertici delinea i caratteri fondamentali dell’epoca del Vaticano II, indetto il 25 gennaio 1959, aperto l’11 ottobre 1962 e conclusosi l’ 8 dicembre 1965. Analizza la percezione che di quei caratteri ebbero i protagonisti della vicenda conciliare e le risposte che ne scaturirono.
Della lotta triangolare che si era combattuta durante la seconda guerra mondiale, la vittoria alleata contro il nazismo aveva eliminato un fronte, ma il problema di fondo restava aperto: quale tipo di organizzazione sociale e quale forma di Stato la moderna società avrebbe dovuto darsi, in Europa e altrove?
Sconfitto lo Stato nazionale fascista, i protagonisti e antagonisti rimanevano la democrazia liberale anglo-americana e il comunismo sovietico.
E sono appunto queste tre le questioni che Pertici analizza l’una dopo l’altra:
- la sconfitta del nazismo e del fascismo e l’eclissi del “paradigma conservatore”;
- l’affermazione della democrazia nell’Europa occidentale e la diffusione di un nuovo ethos democratico;
- il comunismo sovietico e la tentazione della “coesistenza pacifica” con esso.
Tutte e tre le questioni incisero notevolmente sullo svolgimento del Concilio e in generale sulla Chiesa. E quindi anche la disputa teologica sulla sua interpretazione, se vorrà essere feconda, non potrà non tenerne conto.
Naturalmente con l’avvertenza che gli sviluppi successivi della storia avrebbero contraddetto fortemente le aspettative del Vaticano II. Proprio dagli anni del Concilio, infatti, iniziò un processo di scristianizzazione delle società occidentali che le sta trasformando in società post-cristiane.
Sono gli sviluppi che il professor Pertici promette di analizzare in un successivo suo saggio.
Ma intanto ecco questa prima affascinante puntata. Buona lettura!
*
STORICIZZARE IL VATICANO II
di Roberto Pertici
1. Una controversia teologica
Le controversie che periodicamente si riaprono sui media variamente “cattolici” intorno al significato del Vaticano II e sul nesso che esisterebbe fra quel Concilio e l’attuale situazione della Chiesa creano un certo disagio nello studioso di storia. Egli le avverte infatti non come una discussione storica, ma come una “disputatio” di carattere prevalentemente teologico:. Come spesso accade in tali controversie, l’indagine storica finisce per svolgere una funzione “ancillare” e per essere utilizzata prevalentemente come pezza d’appoggio a sostegno delle tesi in conflitto.
Questo sfondo teologico e puramente intra-ecclesiale è confermato dal poco o punto riferimento che si fa ai processi più ampi che si svolsero nell’età del Vaticano II, essendo l’attenzione prevalentemente concentrata sul successo di questa o quella teologia o di questa e quella cordata ecclesiastica. E ciò appare ancor più paradossale in quanto quel Concilio – programmaticamente – cercò di “aprirsi al mondo”, proprio a “quel” mondo del primo ventennio dopo il secondo conflitto mondiale. A modo suo cercò di offrirne una lettura, d’individuarne i processi e pronosticarne gli esiti.
So bene che la Chiesa – come Paolo VI ribadiva in “Ecclesiam suam” – è nel mondo, ma non è del mondo: ha valori, comportamenti, procedure che le sono specifici e che non possono essere giudicati e inquadrati con criteri totalmente storico-politici, mondani. D’altra parte, – si deve però aggiungere – non è neanche un corpo separato. Negli anni Sessanta – e i documenti conciliari sono pieni di richiami in tal senso – il mondo si avviava verso quella che oggi chiamiamo “globalizzazione”, era già fortemente condizionato dai nuovi mezzi di informazione di massa, vi si diffondevano rapidissimamente idee e atteggiamenti inediti, emergevano forme di mimetismo generazionale. È impensabile che una vicenda dell’ampiezza e della rilevanza del Concilio si svolgesse nel chiuso della basilica di San Pietro senza confrontarsi con quanto stava succedendo.
Delle tante periodizzazioni possibili, conviene restringersi alla più immediata e inserire il Vaticano II nel contesto del secondo dopoguerra e delle “trente glorieuses”, secondo la ormai proverbiale definizione di Jean Fourastié. Della lotta triangolare che si era svolta durante il conflitto, la vittoria alleata contro il nazismo aveva chiuso un fronte, ma il problema di fondo restava aperto: quale tipo di organizzazione sociale e quale forma di Stato la moderna società avrebbe dovuto darsi, in Europa e altrove? Sconfitto lo Stato nazionale fascista, i protagonisti e antagonisti rimanevano la democrazia liberale anglo-americana e il comunismo sovietico.
Dobbiamo perciò affrontare in modo distinto e rapido questi tre problemi:
- la sconfitta del nazismo e del fascismo e le sue conseguenze politico-culturali;
- l’affermazione della democrazia nell’Europa occidentale;
- il comunismo sovietico e la sua espansione.
Ovviamente avendo sempre come punto di riferimento i loro contraccolpi nella Chiesa e nel mondo cattolico.
2. La sconfitta del nazismo e del fascismo e le sue conseguenze politico-culturali
Il 1945 ha segnato per decenni l’eclissi del “paradigma conservatore”, eclissi che emerge pienamente soprattutto dopo il 1960. È potuto sembrare a lungo un tramonto definitivo, anche se oggi sappiamo che non è propriamente così. Si può parlare anche di “cultura conservatrice”, ma in senso ampio: insieme di valori, presupposti taciti dell’agire politico ma anche della condotta quotidiana.
Dopo il 1945, il paradigma “conservatore” sembra travolto dalla fine violenta dei regimi di destra radicale (fascismo, nazionalsocialismo). Il rapporto fra il conservatorismo e codesti regimi è storicamente controverso. Non sono pochi gli studiosi (fra i quali il sottoscritto) che ne sottolineano, accanto alle innegabili compromissioni, anche le forse maggiori distanze e conflitti (basti ricordare l’opposizione tedesca a Hitler che organizzò l’attentato del 20 luglio 1944, le figure di Thomas Mann e di Benedetto Croce, l’azione politica di Churchill, di De Gaulle, del governo polacco di Londra). Ma nel dopoguerra viene prevalendo la tesi che i totalitarismi di destra fossero stati sostanzialmente lo sviluppo e il pieno svolgimento della cultura conservatrice e che quindi questa meritasse di scomparire con quelli.
Ma cosa intendo qui per “paradigma conservatore”? Riprendo per praticità la definizione proposta da uno studioso dei nostri giorni, Carlo Galli. Per lui la cultura conservatrice, la cultura di destra, si distingue da quella progressista, perché sostiene il primato dei doveri piuttosto che dei diritti (privilegiati invece dalla sinistra dei nostri giorni). Meglio ancora: sostiene il prevalere di logiche sovra-individuali (la Tradizione, lo Stato, la Nazione, la Famiglia, l’Ordine, ma anche la Chiesa) a cui l’individuo debba adeguarsi, talora, se necessario, sacrificando se stesso: in tale sacrificio consisterebbe la sua “moralità”. Per questa cultura, l’uomo è un essere sociale, inserito in una comunità che gli dà uno “status” e quasi un’identità: ecco perché la sua è una visione sostanzialmente “organicistica” della società e dei gruppi sociali.
Ne volete un esempio, proprio all’alba del periodo che stiamo considerando? Basta leggere questo passaggio dell’enciclica di Pio XII “Mystici corporis” del 29 giugno 1943: “Inoltre, come nella natura delle cose il corpo non è costituito da una qualsiasi congerie di membra, ma deve essere fornito di organi, ossia di membra che non abbiano tutte il medesimo compito, ma siano debitamente coordinate; così la Chiesa, per questo specialmente deve chiamarsi corpo, perché risulta da una retta disposizione e coerente unione di membra fra loro diverse. Né altrimenti l’Apostolo descrive la Chiesa, quando dice: ‘Come in un sol corpo abbiamo molte membra, e non tutte le membra hanno la stessa azione, così siamo molti un sol corpo in Cristo, e membra gli uni degli altri’ (Rom 12, 4)”. Dunque la Chiesa vi era presentata come un corpo composto “organicamente” e “gerarchicamente”.
Nel “paradigma conservatore” era insita una visione drammatica dell’esistenza, perché scopo della vita non è la felicità. Essa è prova e combattimento, come già si legge nel libro di Giobbe (“militia est vita hominis super terram”) e in essa sono necessarie le virtù del combattente: la capacità di sacrificio, l’onore, il coraggio, l’obbedienza, la fedeltà. Da qui l’insofferenza, il disprezzo per una visione quietistica o materialistica dell’esistenza, per il grigiore borghese. Don Giuseppe De Luca, in un memorabile scritto del febbraio 1939, aveva parlato del “cristiano, come un antiborghese”.
Una parte di questa cultura avvertiva l’esistenza di una “questione ebraica” nel mondo contemporaneo, di fronte alla quale assumeva una gamma di atteggiamenti non riducibili – come troppo spesso si dice oggi – all’ antisemitismo: ma era già significativo che avvertisse l’ebraismo, appunto, come “questione”. L’ebreo poteva essere l’emblema del “borghese”, del capitalista, dello spirito intellettualistico, del cosmopolita, del rivoluzionario senza Dio, ma anche, in qualche modo, il fratello maggiore, di cui attendere la conversione finale, in un atteggiamento di rispetto e fiducia.
Non è un caso che – per dare un’idea di quella che ho chiamato la “cultura conservatrice” – abbia fatto ricorso a esempi tratti dalla cultura religiosa. Perché è indubbio che la Chiesa aveva avuto con quella cultura una relazione molto stretta. Essa – lo abbiamo visto – si presentava come un’istituzione gerarchica, dotata di sacralità e universalità. Sottolineava il suo carattere “militante” contro gli errori del secolo e i loro portatori. Incarnava il principio di autorità. “Il potere politico del cattolicesimo – scriveva Carl Schmitt nel 1923 – non si fonda né sui mezzi di potenza economica né su mezzi militari. Indipendentemente da questi, la Chiesa possiede quel ‘pathos’ dell’autorità nella sua piena purezza”.
Ora tutto questo mondo concettuale, tutto questo groviglio di idee, sentimenti, antagonismi ideali, viene travolto dalla fine dei fascismi. Nell’Europa dopo il 1945 (e quasi fino ad oggi) questo sfondo culturale non è più proponibile nel mondo delle idee e della cultura e nei media che lo diffondono. La Chiesa aveva avvertito per tempo il carattere problematico di questo suo rapporto: basti pensare alla condanna della ”Action Française” da parte di Pio XI nel 1926 e alle sue conseguenze (la nascita del progressismo cattolico francese in cui emerge la figura di Jacques Maritain, ex-seguace di Charles Maurras); e ai due radiomessaggi natalizi di Pio XII del 1942 e del 1944, il primo dedicato all’”ordine interno delle nazioni”, il secondo al “problema della democrazia”. Con essi finisce ogni agnosticismo istituzionale, si constata che i totalitarismi sono interlocutori non affidabili, si indica ormai nella democrazia il regime del futuro, si insiste sulla dignità della persona umana come stella polare della visione politica cattolica.
Per riassumere: nel nuovo contesto successivo al 1945, il lessico e l’universo concettuale a cui il mondo cattolico e il magistero erano ricorsi fino a pochi anni prima erano ormai scarsamente utilizzabili. Nel mondo del dopoguerra, nessuno era più sicuro del primato delle istanze sovraindividuali rispetto all’individuo e della logica gerarchica che tale primato comportava. Pochi erano propensi a credere che l’obbedienza, il sacrificio, l’abnegazione fossero ancora delle virtù. Questo mutamento – lo ripeto – non fu immediato: perché pienamente maturi bisogna attendere i primi anni Sessanta, con la fine della guerra fredda e il tramonto della generazione prebellica, cioè appunto gli anni del Concilio. Il mutamento del linguaggio che alcuni (come il gesuita John O’Malley) hanno individuato come una delle principali novità del Vaticano II scaturisce quindi non solo da esigenze “ab intra”, ma anche da queste profonde trasformazioni che stavano avvenendo in quel mondo a cui il Concilio voleva rivolgersi.
3. L’affermazione della democrazia nell’Europa occidentale e la diffusione di un nuovo ethos democratico
A tutti è nota l’importanza dell’affermazione della democrazia dopo la seconda guerra mondiale in alcuni paesi decisivi dell’Europa occidentale: in paesi che avevano una tradizione culturale e politica che le era sempre stata avversa (Germania) o nei quali esisteva una divisione storica radicale sui suoi valori (Francia).
Significativamente i due episcopati più attivi nell’azione di rinnovamento del Vaticano II sono stati proprio quello tedesco e quello francese. Ma il discorso riguarda anche l’Italia: si pensi alla celebre disputa dell’estate 1945 fra Benedetto Croce e Ferruccio Parri. Poteva l’Italia prefascista essere considerata una democrazia? O quella democrazia che vi stava nascendo era un’assoluta novità?
L’incontro fra la Chiesa cattolica e la democrazia fu propiziato anche dal sorgere o dal risorgere di partiti democratici cristiani nei più importanti paesi dell’Europa occidentale e dal loro divenire presto forze di maggioranza e di governo: la CDU-CSU in Germania Occidentale, il MRP in Francia, la DC in Italia; il Parti Social-Chrétien in Belgio. Sembrava la rinascita dell’Europa carolingia, a cui guardavano con grande speranza Pio XII (più freddo sull’atlantismo, dopo un primo momento di favore) e con crescente distacco la Gran Bretagna: troppi cattolici al potere! – pensavano i leader dei partiti inglesi.
Il nuovo approccio della Chiesa fu propiziato anche da un altro elemento. Nell’ambito delle nuove democrazie, l’economia che cominciava a prosperare era prevalentemente “mista”, puntava alla costruzione di un “welfare state”, si basava sulla concertazione fra governi e forze sindacali. Era insomma il frutto del matrimonio fra liberalismo economico e democrazia sociale. E proprio questo è il modello che emerge dalla costituzione conciliare “Gaudium et spes” (65b): “Lo sviluppo economico non può essere abbandonato né al solo gioco quasi meccanico della attività economica dei singoli, né alla sola decisione della pubblica autorità. Per questo, bisogna denunciare gli errori tanto delle dottrine che, in nome di un falso concetto di libertà, si oppongono alle riforme necessarie, quanto delle dottrine che sacrificano i diritti fondamentali delle singole persone e dei gruppi all'organizzazione collettiva della produzione”.
Ma la democrazia che stava nascendo in Europa occidentale non era soltanto un regime politico. Essa rifletteva un’inedita situazione sociale: l’avvento definitivo di una società di massa, tendenzialmente egualitaria nei costumi e nei gusti diffusi, in cui non esistevano più argini a una crescente americanizzazione dei costumi. Inevitabile la domanda: questo nuovo ethos democratico, questa incombente società di massa, quali sfide poneva alla Chiesa? a una Chiesa che si percepiva ancora essenzialmente come un’istituzione gerarchica, analoga a uno Stato monarchico assoluto, in cui i fedeli sono “sudditi”. E questo in un mondo in cui Stati di questo tipo non esistevano più o, se esistevano, venivano avvertiti come relitti del passato. Come si può pensare che questa democratizzazione della società, dei consumi e dei costumi non avesse alcun effetto sui comportamenti del popolo cattolico?
Che le religioni sarebbero state trasformate dall’avvento della democrazia (in senso politico e sociale) era stato già previsto da alcuni geniali osservatori del XIX secolo. Alexis de Tocqueville nel 1840 (“La democrazia in America”, II, 1, cap. V e VI) aveva scorto inarrestabile, nelle società democratiche, sia la tendenza all’ecumenismo: “Mi sembra evidente che più le barriere, che separano le nazioni in seno all'umanità e i cittadini all'interno di ogni popolo, tendono a scomparire, più lo spirito umano si indirizza, come spontaneamente, verso l'idea di un essere unico e onnipotente, dispensatore imparziale delle stesse leggi a tutti gli uomini”; sia la semplificazione liturgica e la fine progressiva delle devozioni: “Un'altra verità mi sembra chiarissima, che cioè le religioni debbono essere meno sovraccariche di pratiche esteriori nei periodi democratici che non in tutti gli altri. Proprio nei secoli di democrazia è, dunque, particolarmente importante non lasciare confondere l'ossequio reso agli agenti secondari con il culto che è dovuto solo al Creatore”; sia l’antiformalismo: “Gli uomini che vivono in simili tempi [democratici] fanno fatica a sopportare le forme; i simboli appaiono loro come artifici puerili, di cui ci si serve per velare o addobbare ai loro occhi certe verità che sarebbe più naturale mostrare spoglie e in piena luce; restano freddi alla vista di cerimonie e sono inclini per natura a non attribuire che un'importanza secondaria ai particolari del culto. […] Una religione che diventasse più minuziosa, più inflessibile e più oberata di piccoli obblighi di osservanza, nel momento in cui gli uomini diventano uguali, si troverebbe presto ridotta a una schiera di ferventi zelatori in mezzo ad una moltitudine di increduli”.
È autoevidente che la nuova sensibilità democratica ponesse qualche problema anche all’uso generalizzato della lingua latina nella liturgia cattolica. Essa – lo si ripeté molte volte in Concilio – era un elemento “occidentale” in una Chiesa che non voleva più presentarsi come legata intrinsecamente all’Occidente (specie nei paesi ex-coloniali); e inoltre era una lingua che escludeva gran parte dei fedeli dalla partecipazione all’azione liturgica e dalla sua piena comprensione. So bene che l’adozione delle lingue nazionali scaturiva da un movimento di lunga data come quello liturgico, che tanta attenzione aveva suscitato nel mondo cattolico e trovato udienza anche nella gerarchia. Ma essa rispose anche allo “Zeitgeist” del secondo Novecento. Un grande pedagogista italiano, già nel 1885, aveva posto il problema nei suoi termini essenziali: parlo di Aristide Gabelli, studioso democratico e laicissimo. Dopo aver constatato che “soffiava in tutti i paesi colti, con maggiore o minor violenza, un vento contrario all’istruzione classica” e che tale vento spirava da circa cento anni, dai tempi della rivoluzione francese, egli cercava di rinvenire “la ragione ultima del malessere e dell’inquietudine” e la rinveniva proprio in questo: “L’indole dell’istruzione classica non si accorda con quella del tempo. L’istruzione classica è di sua natura aristocratica, e il tempo è democratico. Può non piacere udirlo, perché alla democrazia non garba molto essere chiamata col suo nome, ma è questa la verità. L’istruzione classica è per la sostanza, per la forma, per l’intento, in contraddizione con le inclinazioni della democrazia”.
Ma il nuovo ethos democratico, che stava penetrando nel mondo cattolico e in cospicui settori della gerarchia, oltre che verso un rinnovamento della liturgia, rendeva sensibili a una serie di esigenze che trovarono ampia voce nel Vaticano II.
Il tema della collegialità (si veda la “Lumen gentium”) aveva certo una lunga storia, ma si pensi alla nuova esigenza di garantismo all’interno dell’istituzione ecclesiastica e alle forti critiche alle procedure del Sant’Uffizio (erano ancora vivi i ricordi delle persecuzioni contro i modernisti e la storiografia li stava rinfrescando). Memorabile in merito fu lo scontro dell’8 novembre 1963 fra il cardinale di Colonia Josef Frings e il cardinale di curia Alfredo Ottaviani, in cui Frings affermò significativamente che la procedura del Sant’Uffizio “non si addice più alla nostra epoca, nuoce alla Chiesa ed è oggetto di scandalo per molti. […] Nessuno dovrebbe essere giudicato e condannato senza essere ascoltato e senza avere avuto la possibilità di correggere la sua opera e la sua azione”. E tutti sanno che il 6 dicembre 1965 fu decisa l’abolizione dell’Indice dei libri proibiti e la trasformazione del Sant’Uffizio in Congregazione per la dottrina della fede.
Ma anche il “pluralismo” in qualche modo si imponeva: all’interno degli Stati, ma sotto certe forme anche nella Chiesa. Da qui il grande tema della libertà religiosa, sul quale fu massiccio l’impegno dell’episcopato americano, che avrebbe voluto l’affermazione del binomio: libertà religiosa e separatismo. Mi sembra di capire che il tema della libertà religiosa sia ancor oggi un “punctum dolens” per i critici radicali del Vaticano II. Mi sforzo di comprendere la loro difficoltà di fronte alla rottura con la dottrina precedente e con la prassi politica che essa implicava (appoggio dello Stato, prassi concordataria), così come il loro timore che la libertà religiosa significhi in qualche modo un indifferentismo di fondo. Ma non capisco che tipo di Stato essi hanno in mente: quello confessionale? Come si fa a negare all’uomo contemporaneo la libertà religiosa? O a essere tiepidi su tale problema, mentre essa viene conculcata in tante parti del mondo?
Paolo VI lo capiva benissimo ed è noto il suo impegno in merito. Quel papa avvertiva il tema della libertà religiosa come fondamentale proprio per mantenere un ponte con la contemporaneità: il suo principale consigliere teologico, il vescovo Carlo Colombo, intervenendo in aula nell’ottobre 1964, affermò che la dichiarazione sulla libertà religiosa era “della più alta importanza”, soprattutto perché gli uomini di cultura avrebbero visto in essa una chiave del dialogo tra la dottrina cattolica e la mentalità moderna: “Per noi, in Italia – disse Colombo –, è il punto saliente di un possibile dialogo o di un insanabile dissidio tra la dottrina cattolica e il modo di sentire dell’uomo contemporaneo”. E l’anno successivo, mentre si apprestava a partire per New York, Paolo VI mostrò al vescovo belga De Smedt (uno dei padri della “Dignitatis humanae”) tutta la sua soddisfazione sul testo, aggiungendo: “Questo documento è capitale. Fissa l’atteggiamento della Chiesa per parecchi secoli. Il mondo l’attende”.
“Il mondo l’attende”: anche qui emergeva il bisogno di un atteggiamento dialogico con l’uomo contemporaneo. Era il 1960, quindi ancor prima del Vaticano II, quando il teologo gesuita americano Gustave Weigel osservò che la parola “dialogo” appariva talmente spesso su giornali e riviste che cominciava a sembrare uno “slogan e un luogo comune”. Il principio dialogico rispondeva all’ethos democratico che stava pervadendo la società occidentale: su di esso si era esercitata la stessa riflessione filosofica dei decenni precedenti, dall’ebreo Martin Buber negli anni Venti al cattolico Hans Urs von Balthasar, ma bisogna ricordare anche l’italiano e ultralaico Guido Calogero. Il principio del dialogo , del “colloquium”, è al centro – com’è noto – della prima enciclica di Paolo VI, pubblicata il 6 agosto 1964, “Ecclesiam suam”, in cui la parola dialogo compare ben 57 volte: “Ancor prima di convertirlo, anzi per convertirlo, il mondo bisogna accostarlo e parlargli”.
Forse però la dichiarazione più attesa dal mondo di quei primi anni Sessanta fu quella sul rapporto fra la Chiesa e il mondo ebraico, la “Nostra aetate”. La dichiarazione sugli ebrei divenne il centro dell’attenzione dei giornali e dell’opinione pubblica come nessun altro documento del Concilio. Sappiamo quasi tutto della sua genesi (il rapporto di Roncalli con gli ebrei, il suo incontro del 1960 con Jules Isaac, etc.), ma anche in questa vicenda è doveroso rinviare al contesto.
Intorno al 1960 la memoria della Shoah, che a lungo non era stata approfondita, acquista una crescente centralità nell’opinione pubblica: fu determinante in tal senso la vicenda di Adolf Eichmann, rapito nel 1960, processato nel 1961, impiccato pochi minuti prima della mezzanotte di giovedì 31 maggio 1962. Sembra una riflessione sul suo caso l’affermazione della “Gaudium et spes” (79b): “Le azioni pertanto che deliberatamente si oppongono a quei principi e gli ordini che comandano tali azioni sono crimini, né l'ubbidienza cieca può scusare coloro che li eseguono. Tra queste azioni vanno innanzi tutto annoverati i metodi sistematici di sterminio di un intero popolo, di una nazione o di una minoranza etnica; orrendo delitto che va condannato con estremo rigore. Deve invece essere sostenuto il coraggio di coloro che non temono di opporsi apertamente a quelli che ordinano tali misfatti”. Il Concilio si era aperto da qualche mese, quando fu messo in scena a Berlino, il 20 febbraio 1963, “Der Stellvertetrer” di Rolf Hochhuth, che, popolarizzando la “leggenda nera” di Pio XII, contribuì a mutare radicalmente l’opinione prevalente sul ruolo svolto dalla Chiesa cattolica nel Novecento.
4. Il problema del comunismo
Com’è noto, il Vaticano II non rinnovò la condanna del comunismo, che datava almeno dalla “Divini Redemptoris” del 1937. Nella “Gaudium et spes”, che trattava dei rapporti fra la Chiesa e il mondo, il Concilio sostanzialmente ne tacque: sia come regime politico (in anni in cui su una popolazione mondiale di tre miliardi di persone oltre la metà gravitava nel blocco dei Paesi comunisti, dove vivevano oltre cento milioni di cattolici, quasi un sesto dei 570 milioni sparsi nel globo), sia come ideologia, in quegli anni estremamente pervasiva nella politica e nella cultura di ogni parte del mondo. Nei “vota” dei vescovi nella fase preparatoria del Concilio, una tale condanna era stata ripetutamente richiesta: anzi alcuni la consideravano lo scopo fondamentale dell’imminente assemblea. Nell’ultima sessione 454 padri presentarono un emendamento in tal senso alla “Gaudium et spes” che non venne preso in considerazione, forse attraverso un’irregolarità regolamentare. Il silenzio fu di tale rilievo – scrive Andrea Riccardi – “da accreditare la voce di un esplicito accordo tra il Patriarcato di Mosca e la Santa Sede”.
Si è discusso a lungo e ancora si discuterà se un tale accordo ci sia stato, ma non è qui il caso di riaprire la questione, come di esaminare i modi in cui il discorso sul comunismo si snodò in quegli anni nei documenti pontifici: dalla “Pacem in terris” di Giovanni XXIII dell’11 aprile 1963 (distinzione fra errore ed errante; distinzione fra ideologia e movimenti storici; possibilità di un avvicinamento pratico) alla “Ecclesiam suam” di Paolo VI del 6 agosto 1964, in cui, dopo aver ribadito la condanna, ma con un’argomentazione indiretta (“Si potrebbe dire che non tanto da parte nostra viene la loro condanna, quanto da parte dei sistemi stessi e dei regimi che li personificano viene a noi radicale opposizione di idee e oppressione di fatti. La nostra deplorazione è, in realtà, lamento di vittime ancor più che sentenza di giudici”), si esprimeva la speranza in un futuro dialogo: “Noi non disperiamo che essi possano aprire un giorno con la Chiesa altro positivo colloquio, che non quello presente della nostra deplorazione e del nostro obbligato lamento”.
Sappiamo ormai molto di come si sviluppò la politica di Giovanni XXIII verso l’URSS e il mondo comunista e del ruolo che vi svolsero gli interlocutori italiani: l’ambiente che ruotava intorno al democristiano Amintore Fanfani e al suo neo-atlantismo e i referenti cattolici vicino al Partito comunista italiano e al suo leader Palmiro Togliatti (da don Giuseppe De Luca a Franco Rodano). Da questo punto di vista è di grande rilievo la conferenza che Togliatti tenne il 20 marzo 1963 al Teatro Duse di Bergamo, su “Il destino dell’uomo”.
Il segretario comunista entrò esplicitamente nel dibattito conciliare. Innanzitutto prospettò in modo nuovo il rapporto fra cattolici e comunisti: “Noi non accettiamo più – disse – la concezione, ingenua ed errata, che basterebbero l’estensione delle conoscenze e il mutamento delle strutture sociali a determinare modificazioni radicali [della coscienza religiosa]. Questa concezione, derivante dall’illuminismo settecentesco e dal materialismo dell’ottocento, non ha retto alla prova della storia. Le radici sono più profonde, le trasformazioni si compiono in modo diverso, la realtà e più complessa”.
Poi riprese alcuni temi che erano cari al mondo cattolico e alla diplomazia pontificia: la necessità della pace e la critica all’equilibrio del terrore. Sono interessanti le conseguenze politiche che Togliatti ne faceva scaturire: “il rifiuto di partecipazione del nostro paese a qualsiasi sorta di armamento atomico, la esplicita condanna della politica fondata sul famigerato equilibrio del terrore, e così via…”.
Infine sottolineò con compiacimento il fallimento dell’anticomunismo:. L’impegno anticomunista della Chiesa di Pio XII – disse – era stata l’ultima manifestazione della cosiddetta “età di Costantino”, cioè dell’alleanza tra il potere spirituale e quello temporale. Qui Togliatti faceva un riferimento esplicito al celebre articolo del teologo domenicano Marie-Dominique Chenu apparso nel 1961: uno dei testi base per comprendere le motivazioni della maggioranza conciliare. E polemizzava duramente col capo della minoranza, il cardinale Ottaviani, che perseverava nel suo anticomunismo: “Il suo – dichiarò il leader comunista – è il discorso di uno sconfitto. Non è infatti vero che il cardinale Ottaviani è colui che, avendo elaborato i documenti preparatori del recente Concilio ecumenico secondo un certo indirizzo, venne battuto dal Concilio stesso, perché le sue impostazioni di politica ecclesiastica furono clamorosamente respinte dalla maggioranza dei padri conciliari? Ed egli si è battuto, se non andiamo errati, proprio perché sembra esservi stata, nella maggioranza, una sollecitudine alla ricerca di posizioni che si adeguino alle nuove realtà del mondo di oggi”. Il fondamentale problema del Concilio era a suo giudizio quello di superare “l’identificazione tra mondo occidentale e mondo cattolico”, che “fa perdere alla stessa Chiesa il suo carattere universale, ecumenico”.
Per Togliatti questo superamento significava soprattutto la presa d’atto che esisteva nel mondo una “nuova molteplice articolazione dei sistemi sociali e del sistema degli Stati”, in pratica un vasto campo di paesi socialisti con cui la Chiesa doveva fare i conti. Non c’era da temere: “Oggi nell’Unione Sovietica non si parla più di dittatura, ma di Stato di tutto il popolo” e la stessa esperienza dei comunisti italiani mostrava che era possibile coniugare democrazia e socialismo: “Le campagne menzognere si sfaldano, cadono a pezzi. Chi viaggia nei paesi della famosa ‘Chiesa del silenzio’ trova che le chiese vi sono, talora più affollate che da noi”. Togliatti percepiva che il Concilio stava segnando la fine dell’anticomunismo cattolico e individuava alcuni temi che potevano formare il quadro per un dialogo fra comunisti e cattolici: la fine dell’occidentalismo, il problema della pace, l’opposizione ai blocchi, la critica della deterrenza nucleare.
Questo era il comunismo con cui i vertici vaticani avevano una contiguità ambientale: oggi gli storici sanno che, per ironia della sorte la persecuzione delle Chiese e delle comunità cristiane in URSS si accrebbe nei primi anni Sessanta, proprio quando si stava avviando il nuovo corso vaticano rispetto al comunismo. Secondo la testimonianza di suo genero Alexei Adjubei, il leader sovietico Nikita Kruscev non aveva una sensibilità particolare per le questioni religiose, anzi si può dire consentisse intimamente con l'atteggiamento antireligioso del partito: la distensione con il Vaticano non rappresentava che un tassello di una questione ben più ampia di relazioni internazionali.
Credo si possa dire che il problema del comunismo è quello su cui le scelte del Vaticano II siano state più condizionate dalle contingenze storiche e la dinamica storica successiva abbia corrisposto di meno alle sue aspettative. Nei primi anni Sessanta, il socialismo reale in Europa era già in fase di declino: la maggior parte degli storici giudica il 1956, l’anno del XX congresso e dell’invasione dell’Ungheria, come il giro di boa, l’inizio della parabola discendente che nel giro di un trentennio avrebbe portato alla caduta del muro di Berlino e alla fine dell’URSS. Ma allora pochi percepivano questa situazione. Ciò che colpiva era invece l’aspetto dinamico del riformismo Krusceviano: il carattere meno oppressivo della censura, le caute riforme economiche, i successi nel campo della missilistica e delle prime esplorazioni spaziali. Soprattutto Kruscev abbandonò la vecchia tesi di Stalin sull’inevitabilità della guerra fra capitalismo e comunismo e lanciò l’idea della “coesistenza” e della “competizione” pacifica. E anche lui si diceva contrario (perché intuiva che l’URSS non avrebbe potuto competere alla lunga con una politica di riarmo americana) a quello che Togliatti chiamava il “famigerato equilibrio del terrore” e nel maggio del 1958, con un’abile mossa propagandistica, aveva annunciato addirittura una moratoria unilaterale dei test nucleari nell’atmosfera. Mentre l’equilibrio del terrore era invece il fulcro della politica americana: solo guerra nucleare, quindi nessuna guerra.
Su quest’ultima strategia decisa era la condanna della “Gaudium et spes” (81): “Poiché infatti si ritiene che la solidità della difesa di ciascuna parte dipenda dalla possibilità fulminea di rappresaglie, questo ammassamento di armi, che va aumentando di anno in anno, serve, in maniera certo paradossale, a dissuadere eventuali avversari dal compiere atti di guerra. E questo è ritenuto da molti il mezzo più efficace per assicurare oggi una certa pace tra le nazioni. Qualunque cosa si debba pensare di questo metodo dissuasivo, si convincano gli uomini che la corsa agli armamenti, alla quale si rivolgono molte nazioni, non è una via sicura per conservare saldamente la pace, né il cosiddetto equilibrio che ne risulta può essere considerato pace vera e stabile”. Si trattava, quindi, di una posizione oggettivamente anti-americana.
Nelle posizioni del Vaticano II sul comunismo emerge un elemento di Realpolitik, che continuerà anche dopo la caduta di Kruscev nel clima soffocante dell’era Breznev. una Realpolitik, analoga a quella di Henry Kissinger dei primi anni Settanta. La diplomazia non deve immaginare un mondo diverso, ma fare i conti col mondo com’è (o come le sembra che sia): la sua vocazione è trattare sempre e comunque e arrivare a un qualche accordo. Nei vertici vaticani, ma direi nella maggioranza del mondo cattolico conciliare e post-conciliare, era diffusa la certezza che il comunismo in Europa avrebbe sfidato il secolo. Anzi, v’era forse qualcosa di più: la convinzione che il mondo andasse verso quella direzione e che bisognasse quindi inserirsi in quel trend per “cristianizzarlo”. Ci voleva un papa polacco perché nel giro di pochi anni la situazione mutasse radicalmente.
5. Una prima conclusione
Si è detto e ripetuto che, col Vaticano II, la Chiesa cattolica abbia cercato un incontro, un dialogo con la modernità. È da notare – sia detto per inciso – come la parola “modernità” non esista nei documenti conciliari. Essi utilizzano cinque volte l’aggettivo “moderno” (tre volte nella “Gaudium et spes” e due volte nel decreto “Ad gentes”): ma usiamo per una volta questo vocabolo oggi di gran moda.
Possiamo allora dire che quella fin qui descritta, sia pure in modo molto sommario, era la modernità con cui la Chiesa cercò di fare i conti nel Concilio. Li faceva con quelle che qualche anno dopo si sarebbero chiamate le “grandi narrazioni ideologiche ottocentesche”: quella liberaldemocratica e quella marxista. Giovanni XXIII e la maggioranza conciliare avevano sperato che l’atteggiamento dialogico, la ricerca dell’incontro col mondo in tutte le sue articolazioni avrebbe riaperto un’interlocuzione che era venuta a mancare. A una Chiesa che si mostrava più “mater” che “magistra”, che esortava senza condannare, che non escludeva nessuno, il mondo contemporaneo sarebbe tornato a rivolgersi fiducioso e benevolo.
Ma le cose sono andate diversamente:. Proprio dagli anni del Concilio è iniziato un processo di scristianizzazione delle società occidentali, specie europee, che le sta trasformando in società post-cristiane. In una prossima occasione cercherò di individuarne sommariamente le ragioni.
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Per un quadro d’insieme della disputa in corso sul Concilio Vaticano II, con l’indice di tutti i post di Settimo Cielo sull’argomento:
Settimo Cielo
di Sandro Magister 31 ago

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