I vaccini possono celare dannose insidie che andrebbero valutate con maggior serietà.
Lo dimostrano le tante storie dolorose di bambini e adulti, sia civili che militari, morti o gravemente danneggiati. In merito ci sono svariate sentenze e c’è stata una Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito (*a fine post il pdf) che ha riguardato anche la somministrazione vaccinale nei militari.
Al di là del dramma delle persone ammalatesi, ciò che indigna è l’assoluta mancanza di controlli e farmacovigilanza, strumenti indispensabili al corretto svolgersi della pratica medica e a garantire la miglior tutela possibile sul piano della salute.
Inoltre è davvero inaccettabile il silenzio che la maggior parte dei mezzi di informazione riserva a un tema così delicato e importante.
Ciò premesso, non lascia presagire nulla di positivo la notizia, riportata ieri dal quotidiano “La Stampa”, che verrà presto somministrato un vaccino anti Covid 19 che non ha fatto l’adeguato periodo di sperimentazione.
Le case farmaceutiche assicurano che funziona. Però – si legge nell’articolo – dato che potrebbero esserci dei danni, lo Stato se ne farà carico per il periodo iniziale mediante risarcimenti.
In un periodo intermedio i risarcimenti saranno al 50% fra Stato e case farmaceutiche e poi solo a carico delle case farmaceutiche.
Traduzione: in pratica la sperimentazione la faranno su chi si farà vaccinare e lo Stato, invece di preservare la popolazione, accetta i rischi intrinseci e fa da garante sostituendosi alle case farmaceutiche per i risarcimenti.
SPENDENDO, anche in questo caso, SOLDI NOSTRI.
Come ha fatto per finanziare la ricerca (elargendo 130 milioni di euro alla fondazione di Bill Gates) e poi per sottoscrivere il contratto con Astrazeneca per l’approvvigionamento di milioni di dosi (clicca qui per visualizzare l’annuncio del ministro Speranza).
Dunque siamo sempre noi che paghiamo.
Per la ricerca.
Per l’acquisto.
E anche per i risarcimenti dei danni, molto probabili visto che le fasi iniziali di sperimentazione animale sono state estremamente limitate rispetto ai protocolli normalmente previsti.
Un gran bell’affare non c’è che dire …
E poi, se al momento manca ancora un’adeguata sperimentazione, come si può affermare – con tanto di titoloni sui giornali – che questo vaccino ‘funziona’?
C’è infine un ulteriore, enorme, non trascurabile, problema: già oggi, con la legge 210/92 che prevede il risarcimento in caso di danno vaccinale, veder riconosciuto quanto spetta di diritto è un’odissea, anzi – in base ai racconti di chi ci è passato – direi che è quasi un’utopia.
Cosa accadrà dunque se il vaccino su cui tutti stanno puntando valanghe di soldi dovesse arrecare seri danni alle persone?
Mi pare che al momento, quindi, l’unica cosa sicura sembra essere l’impunità delle case farmaceutiche.
Perciò usiamo la ragione invece di farsi rincretinire ogni giorno dalle reti pubbliche e private e dai giornali attraverso l’enfatizzazione dei concetti di “contagio” e “nuovi focolai”. È veramente l’ora di uscire da questo brutto incantesimo.
Su questo vaccino non abbiamo ancora informazioni certe né sulla sicurezza né sull’efficacia. QUESTA È LA VERITÀ. Un vaccino richiede dai 5 ai 10 anni di sperimentazione e qui, con la scusa della pandemia, i tempi sono stati ridotti a tre mesi. Chi si farà il vaccino deve essere ben consapevole che sta facendo da paziente per la sperimentazione.
Quanto alle scelte del nostro Governo, oltre l’interesse per la prevenzione di una nuova temuta seconda ondata di coronavirus, ci sono altri aspetti fondamentali che lo Stato – come qualsiasi genitore coscienzioso cui sta a cuore la salute dei propri figli – dovrebbe non trascurare se davvero ha a cuore la salvaguardia della vita dei propri cittadini.
* Militari, uranio e vaccini: la relazione integrale della Commissione parlamentare d’inchiesta
Relazione-Finale-approvata-7feb18
Relazione-Finale-approvata-7feb18
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Valentina Bennati, Giornalista professionista specializzata in tematiche di salute e ambiente. Naturopata membro FNNP (Federazione Nazionale Naturopati Professionisti).
Percepisco il mio lavoro come una sottile indagine fatta di domande, di chiedersi il perché.
Comprendere la causa è sempre il primo passo da fare.
Valentina Bennati, Giornalista professionista specializzata in tematiche di salute e ambiente. Naturopata membro FNNP (Federazione Nazionale Naturopati Professionisti).
Percepisco il mio lavoro come una sottile indagine fatta di domande, di chiedersi il perché.
Comprendere la causa è sempre il primo passo da fare.
Pubblicato da Tommesh – ComeDonChisciotte.org
FONTE: https://valentinabennati.it/siete-disposti-a-fare-da-cavie/
15/07/2020
FONTE: https://valentinabennati.it/siete-disposti-a-fare-da-cavie/
15/07/2020
Biosicurezza: la nascita della società zombie
Traduzione di Alba Canelli
Tutte le pratiche sanitarie contro la pandemia fino ad oggi, questo insieme di misure e pratiche biomediche volte a proteggere le società umane dal nuovo agente infettivo, non si sono basate su conoscenze e ricerche rigorose, ma su una propaganda diffusa su una “guerra” contro un nemico invisibile, riassunta in slogan terroristici trasmessi quotidianamente dai media, come “Resta a casa” durante la prima fase della pandemia e “Resta al sicuro” durante la seconda fase.
Durante l’attuale pandemia (ma probabilmente anche dopo) è diventato chiaro che i cittadini non hanno più il diritto naturale alla salute di cui godevano fino a ieri, e che sono quindi legalmente obbligati a garantire la salute pubblica con tutti i mezzi e quindi a contribuire alla “biosicurezza” globale, cioè a rispettare una serie di misure e nuove pratiche biomediche che dovrebbero garantire la protezione delle società umane contro qualsiasi minaccia biologica.
In realtà, come vedremo oggi, la biosicurezza è stata inventata per dare un’illusione di sicurezza attraverso la protezione artificiale della salute, che ha come unico risultato quello di privare gradualmente gli esseri umani della loro vita sociale, affidandosi esclusivamente alla garanzia biomedica della loro sopravvivenza. Le più recenti pratiche di protezione della salute pubblica e individuale adottate per combattere il nuovo coronavirus giustificano la prospettiva di una “biosicurezza” universale?
Quando la “salute” ci viene imposta come imperativo biopolitico
Dall’inizio di aprile alla fine di maggio, più della metà della popolazione mondiale è stata messa agli arresti domiciliari per limitare la diffusione del nuovo coronavirus. Naturalmente, questa non è né la prima né l’ultima volta nella storia dell’umanità che alcune popolazioni sono state costrette a confinarsi per proteggersi da un’epidemia mortale.
Ciò che più sorprende dell’attuale pandemia di Covid-19 è la velocità con cui si è diffusa in tutto il mondo e il fatto che circa 3,9 miliardi di persone sono state messe in quarantena quasi simultaneamente. Ciò rende automaticamente questa pandemia un’esperienza psicologica e antropologica senza precedenti.
Si tratta infatti di un evento storico completamente nuovo, le cui conseguenze, sia psicologiche a livello individuale che sociali a livello collettivo, non sono ancora state studiate, anche se hanno colpito e colpiscono ancora quasi tutti. Lo sconvolgimento della vita sociale quotidiana di tante persone, senza poterne prevedere la fine, sta sicuramente creando paura, ansia, sindromi depressive e altri traumi non ancora visibili.
Nella storia più recente, fenomeni simili ma localizzati di contenimento sociale dovuti a un’epidemia virale sono stati studiati nel caso della SARS in Cina e in Canada, e dell’epidemia di Ebola in alcuni Paesi africani. Allo stesso modo, le conseguenze psicologiche del confinamento di esseri umani in condizioni estreme sono state studiate nei cosmonauti in orbita intorno alla Terra.
Tuttavia, il caso dei cosmonauti, per quanto estremo, è comunque il risultato di una decisione consapevole presa liberamente. Si tratta di un esperimento di confinamento preparato con cura, con conseguenze e data di fine noti in anticipo, che tuttavia rimane traumatico per i cosmonauti.
Qual è l’atteggiamento delle persone terrorizzate dal nuovo coronavirus, di fronte alla necessità “sanitaria” di sconvolgere radicalmente le loro attività quotidiane e di rimandare all’infinito la soddisfazione di alcuni dei loro bisogni biologici e sociali di base? Alcuni sono ansiosi di tornare alla loro normale vita pre-virale, mentre la maggior parte si avvicina al ritorno alla vita precedente con un misto di paura, ansia o addirittura panico, fintanto che il coronavirus circola liberamente.
Tuttavia, evitare la compagnia e il contatto fisico con i nostri amici e i nostri cari, non stringere mai la mano e baciarli è contrario alla nostra propensione come animali sociali, mentre la prolungata privazione del contatto fisico e delle relazioni intime con gli altri è considerata una delle principali cause di disturbi psicosomatici e depressione nella maggior parte delle persone.
Confinamento per motivi di… salute
Infatti, numerosi studi psicologici – sia prima che durante la pandemia – confermano che il confinamento prolungato e la solitudine forzata sono i problemi più comuni dell’uomo moderno, che si manifestano in permanenti sensazioni di ansia, intenso disagio e depressione che influiscono sulla sua salute fisica e mentale.
Se a questi problemi psicologici preesistenti, diffusi nelle società moderne, si aggiunge, da un lato, la costante e onnipresente minaccia di infezione da parte del nuovo coronavirus e, dall’altro, gli effetti economici di una prolungata quarantena, allora i sentimenti di intensa ansia e persistente insicurezza si intensificano e hanno un effetto devastante sulla salute e sulla speranza di vita delle persone, soprattutto di quelle appartenenti ai gruppi più vulnerabili (anziani, malati).
Si tratta di un insopportabile stato di ansia cronica che, nonostante la diminuzione del numero di casi e della mortalità dovuta alla pandemia, crea negli individui ipocondriaci una reazione paranoica di repressione permanente del desiderio di uscire di casa, tornare al lavoro e incontrare amici, che vengono automaticamente classificati come “portatori” minacciosi responsabili della trasmissione del coronavirus.
In questo modo, però, i rapporti interpersonali sono modellati e regolati da una cultura del “sospetto universale”. Questo, come sappiamo, per le regole soffocanti e quindi innaturali che impone, crea solo relazioni disumane e disumanizzanti.
Un tipico esempio sono i nuovi contatti e rapporti smaterializzati – cioè esclusivamente virtuali – su Internet che, durante l’ultima pandemia, sono raddoppiati perché hanno offerto un sostituto sicuro a rapporti reali ma potenzialmente infettivi tra persone confinate in casa.
Questa può essere una “soluzione” temporanea al nostro intrinseco bisogno di comunicazione e di contatto sociale, ma a lungo termine può portare a molti problemi – soprattutto per i giovani utenti di Internet – come confondere il reale con il virtuale, e diminuire gradualmente il loro bisogno vitale di relazioni fisiche e di comunicazione faccia a faccia. Così, all’indomani della pandemia, c’è il serio rischio che molte persone “scelgano” di rimanere isolate a casa, “vivendo” esclusivamente nella rassicurante ma virtuale realtà offerta da Internet.
Il “vivere sano” come terrorismo
Basta essere attenti alle dichiarazioni quotidiane dei governi, alle previsioni di attentati terroristici e ai piani delle organizzazioni finanziarie internazionali per gli anni a venire, per rendersi conto che la posta in gioco oggi non è la salvezza delle persone dal coronavirus, ma la gestione panoptica e totalitaria, attraverso ricorrenti crisi sanitarie, non solo della salute fisica ma anche della vita socio-economica e psicologica di una pletora di popolazione umana.
Si tratta di una nuova igiene planetaria che sta creando problemi sociali, economici e umanitari già visibilmente molto acuti, e di cui nessuno può garantire che sarà meno distruttiva per la vita umana dell’attuale pandemia di coronavirus. Perché dovrebbe essere chiaro che il disastro che ci sta colpendo non è di natura puramente virale, ma è, in grandissima misura… causato dall’uomo.
Così, durante il periodo della pandemia, ma anche dopo, i cittadini non hanno più automaticamente il pieno diritto alla sicurezza sanitaria, ma sono anche obbligati per legge ad occuparsi della salute pubblica e della biosicurezza. Il termine biosicurezza descrive una serie di nuove misure e pratiche biomediche volte a proteggere le società da qualsiasi agente infettivo e minaccia biologica.
Un tipico esempio di queste strategie terroristiche di “biosicurezza” di massa è la recente quarantena globale, che ha trasformato il diritto alla salute di ogni individuo in un obbligo di proteggere se stessi e gli altri dalla minaccia di infezione.
Inutile dire che le pratiche sanitarie estreme finora praticate in nome della biosicurezza non si basano su rigorose conoscenze scientifiche e ricerche, ma sulla propaganda diffusa della “guerra” contro un nemico invisibile (il nuovo virus), che si riassume nel modo più efficace negli slogan terroristici “Stay at home” della prima fase e “Stay safe” della seconda fase della pandemia, che vengono trasmessi quotidianamente dai media.
Delle nuove pratiche biopolitiche di colpevolezza individuale e, allo stesso tempo, di emarginazione massiccia dei gruppi umani più “a rischio”, pratiche che sono state ampiamente accettate in quanto dovrebbero garantire la sicurezza e la protezione delle persone, dobbiamo opporci alla nostra solidarietà attiva con le vittime di Covid-19 e resistere con tutti i mezzi a questo manifesto tentativo di disumanizzare la nostra vita in nome di una biosicurezza irrealizzabile.
Scenari di “biosicurezza” in una società di zombie
Secondo il discorso politico dominante, la maggior parte delle persone ha dato prova di grande moderazione e disciplina di fronte alla nuova pandemia e si è comportata con un “alto senso di responsabilità” nei confronti della società. Per chi, come l’autore di questo articolo, non è convinto da questa valutazione “lusinghiera”, l’accettazione diffusa e l’applicazione unanime di regole di sicurezza sanitaria molto inusuali contro i coronavirus è un problema molto serio.
Questo problema non è essenzialmente scientifico ma soprattutto biopolitico, nel senso che riguarda concretamente le forme di gestione sociale della salute e della vita di tutta la popolazione attuale.
L’impressionante prontezza e velocità con cui la maggior parte delle persone sono state disposte a sacrificare i loro personali bisogni sociali e le loro più profonde predisposizioni biologiche per proteggere la loro salute dovrebbe piuttosto essere attribuita alla disinformazione globale e al terrore sanitario generato intorno al pericolo mortale immediato e forse alla diffusione incontrollata della nuova epidemia a se stessi e ai loro cari.
In questo senso, il problema dominante per chi decide di affrontare e gestire questa pandemia è quello di raggiungere la massima “biosicurezza” possibile.
“Biosicurezza” come terrorismo sanitario
La prima formulazione esplicita del concetto di “biosicurezza” come opzione politica centrale per gestire la salute dei cittadini al fine di garantire arbitrariamente l’immunità contro alcune pericolose malattie infettive si trova nel libro dello storico francese Patrick Zylberman “Tempêtes microbiennes” (Tempeste microbiche) (Gallimard, 2013).
In questo importante libro, purtroppo non tradotto in greco, Zylberman, seguendo il metodo dell’archeologia dei concetti del suo professore Michel Foucault, ricostruisce in modo dettagliato e molto convincente la versione più recente, storicamente, del concetto di “sicurezza sanitaria” come strumento dominante, che viene elaborato ed esercitato, secondo le circostanze storiche, attraverso due scenari alternativi ma complementari: il migliore scenario possibile e il peggiore scenario possibile per la realizzazione e la gestione di una crisi sanitaria.
Come tutto lo dimostra, nell’attuale pandemia viene applicato esattamente quello che Patrick Zylberman ha descritto sette anni fa: è il peggiore scenario possibile che si applica alla crisi sanitaria globale.
Se lo scenario di biosicurezza più disumano e disumanizzante viene effettivamente attuato per gestire l’attuale crisi virale, allora abbiamo il diritto di dubitare del prossimo futuro delle relazioni umane. Dopo tutto, per definizione, la biosicurezza immateriale e impersonale è adatta solo alle società zombie. Ma di questo parleremo nel nostro prossimo articolo.
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Per concessione di Tlaxcala
Fonte: https://www.efsyn.gr/epistimi/mihanes-toy-noy/248560_ygeionomika-kakoyrgimata
Data dell’articolo originale: 20/06/2020
URL dell’articolo “Crimini sanitari“: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=29426
Fonte: https://www.efsyn.gr/epistimi/mihanes-toy-noy/248560_ygeionomika-kakoyrgimata
Data dell’articolo originale: 20/06/2020
URL dell’articolo “Crimini sanitari“: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=29426
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Scelto e pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org
VACCINI DA FETI ABORTITI E OBIEZIONE DI COSCIENZA
È accertato che molti vaccini contengano cellule umane, derivanti da feti di bambini abortiti volontariamente; questo viene spiegato bene da molti scienziati e medici ed è stato confermato anche da organi ufficiali della Chiesa Cattolica.
La Pontificia Accademia per la Vita nel 2005 ha pubblicato le “Riflessioni morali circa i vaccini preparati a partire da cellule provenienti da feti umani abortiti”, in cui si legge una chiara condanna di questi prodotti ed un invito ad esercitare l’obiezione di coscienza nei loro confronti, che troviamo anche nell’Enciclica. Evangelium vitae, nr. 74, di Giovanni Paolo II.
Un nuovo documento (vedi qui) decisamente in contrasto con il precedente, è stato redatto dall’Accademia Pontifica per la Vita nel luglio del 2017, nel quale viene edulcorato il male dovuto all’azione dell’aborto, essendo avvenuto tanti prima; in questo documento non viene condannato l’uso delle catene cellulari umane provenienti da tessuti di bambini abortiti, in quanto viene spiegato che il male in senso morale sta nelle azioni, quindi nell’aborto, ma non nelle cose o nella materia, ovvero nell’uso dei tessuti; in pratica sparisce il senso di cooperazione al male e, come ha spiegato in un convegno organizzato lo scorso anno a Roma da “Renovatio 21”, la dott.ssa Martina Collotta, medico chirurgo e bioeticista, «la materia di fatto viene fatta neutra, diventando oggetto commerciale». Il documento del 2017 considera inoltre come dovere di ogni cristiano vaccinarsi per il bene comune, senza che questo comporti partecipazione al male.
Di fatto viene meno il rispetto della vita dal suo concepimento fino alla morte naturale, che è uno dei principi non negoziabili ricordati da Benedetto XVI e viene “abrogata” l’Evangelium vitae.
“È vero che, dal punto di vista della ricerca scientifica, per ottenere dei vaccini contro dei virus sono necessarie delle cellule, – spiega la Dott.ssa Collotta – perché i virus non possono crescere da soli se non hanno delle cellule in cui replicarsi; quello che invece non è vero è che queste cellule debbano essere umane, tanto meno che debbano essere necessariamente di feti. Questo fa comodo perché una cellula proveniente da un feto abortito è una cellula estremamente giovane, cioè una cellula che in laboratorio per un ricercatore ha una resa grandissima, ma si tratta di una questione che è meramente economica».
Per il loro utilizzo, bisogna che queste cellule provengano da feti di bambini necessariamente abortiti in maniera volontaria, perché questi sono bambini sani, mentre un feto abortito spontaneamente è costituito da cellule che portano anomalie genetiche.
La dott.ssa Theresa Deisher, del Sund Choice Pharmaceutical Institute, spiega bene quanto sia pericoloso iniettare, soprattutto in bambini sotto i tre anni di età, vaccini che contengono DNA umano, capace di attivare un attacco di anticorpi contro il proprio corpo; altrettanto bene spiega che per allevare i virus per i vaccini non si debba necessariamente utilizzare cellule umane, ma si possono utilizzare anche cellule animali, il cui DNA non si inserirà mai dentro un genoma di persona umana, perché è di una specie diversa.
Dubbi sull’innocuità dei vaccini sono stati espressi pure nella Relazione finale della Commissione parlamentare di inchiesta, documento XXII bis nr. 23 del 7 febbraio 2018 (vedi qui), in cui si sono studiati anche gli effetti dei vaccini sui militari: «La Commissione ha dovuto riscontrare l’impossibilità a giungere a conclusioni precise in quanto … mancavano i dati sulle vaccinazioni multiple per ogni militare e i relativi effetti sul DNA per ogni singolo militare malato».
La posizione espressa dalla Pontificia Accademia per la Vita nel 2017 si può perlomeno dire abbia generato un po’ di confusione; la pericolosità di una deriva morale ed etica dovuta a questa confusione la troviamo direttamente nelle parole del dott. Stanley Plotkin, medico specializzato nella creazione dei vaccini, co-inventore del vaccino contro la rosolia ed importante consulente per Big Pharma; in data 11 gennaio 2018 fu chiamato a testimoniare in tribunale, durante una causa portata avanti dalla madre di una bambina; sotto giuramento ha dovuto rispondere a diverse domande, ammettendo che solo per una ricerca ha usato 76 feti di bambini abortiti in età gestazionale sopra i tre mesi, senza ricordare di preciso quanti altri feti abbia usato nel corso della sua carriera; ad un certo punto un avvocato gli domanda (vedi qui): «Lei sa che una delle obiezioni alla vaccinazione da parte del querelante è l’inclusione del tessuto di feti abortiti nello sviluppo dei vaccini e il fatto che è uno degli ingredienti?». Emblematica la risposta di Plotkin: «Ne sono al corrente, la Chiesa cattolica ha pubblicato una risposta a questo dilemma ed ha affermato che gli individui che hanno bisogno del vaccino, possono fare il vaccino. Suppongo che l’accusa che io andrò all’inferno per via dell’uso dei feti abortiti è un’accusa che accetterò volentieri».
Autorevoli voci della Chiesa hanno espresso pareri contrastanti sull’uso dei vaccini contenenti cellule umane di bambini abortiti.
Lo scorso 30 luglio la Conferenza Episcopale britannica ha pubblicato una Lettera (vedi qui) in cui viene detto che «tutte le vaccinazioni clinicamente raccomandate possono essere usate con la coscienza pulita», affermando che «La Chiesa cattolica sostiene fermamente la vaccinazione e considera che i cattolici abbiano come dovere prima facie il farsi vaccinare, non solo per motivi di salute ma anche per solidarietà con gli altri, specialmente i più vulnerabili».
In risposta a questa posizione, il Vescovo texano Joseph Strickland (vedi qui) ha ribadito lo scorso 1 agosto la sua posizione: «Rinnovo la mia richiesta di rifiutare qualsiasi vaccino sviluppato utilizzando bambini abortiti. Anche se ha avuto origine decenni fa, significa ancora che la vita di un bambino era finita prima che nascesse e quindi il suo corpo era usato come pezzi di ricambio. Non la finiremo mai con l’aborto se non fermiamo questo male!».
L’anno passato un autorevole esponente della Chiesa cattolica, il Card. Raymond Leo Burke, ha partecipato ad un importante convegno organizzato a Roma da “Renovatio 21”, dal titolo “Fede, Scienza e Coscienza – l’utilizzo dei feti abortiti nei prodotti farmaceutici”; lo scorso 20 maggio il Cardinale si è espresso con veemenza contro le vaccinazioni forzate obbligatorie che potrebbero avere luogo a seguito dello sviluppo di un vaccino contro il coronavirus; durante il suo discorso al Forum sulla vita a Roma, tenuto quest’anno in forma virtuale, ha affermato che «deve essere chiaro che la stessa vaccinazione non può essere imposta, in modo totalitario, ai cittadini».
Sembrano esserci due visioni diverse all’interno della Chiesa, ma è presumibile che non tutti coloro che le esprimono abbiano forse veramente approfondito l’origine della questione, perché altrimenti non accetterebbero, eticamente e moralmente, alla prassi di ricorrere ad aborti volontari per avere materiale da laboratorio a disposizione.
Obbligo morale di tutta la Chiesa, e ciascuno di noi ne è componente, è quello di richiedere e pretendere, a tutti i livelli, un’offerta alternativa etica nei vaccini.
Amedeo Rossetti
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