(s.m.) Perché le aspettative di un grande Concilio come il Vaticano II, che programmaticamente voleva “aprire al mondo”, sono state così spietatamente contraddette da ciò che poi è accaduto, con l’ondata di scristianizzazione che ha invaso le società occidentali?
È questo l’interrogativo al quale prova a rispondere il professor Roberto Pertici, in questa seconda affascinante puntata della sua analisi del Concilio e del post-concilio, nel contesto della storia del mondo di questi ultimi decenni.
Pertici è docente di storia contemporanea all’università di Bergamo e specialista dei rapporti tra Stato e Chiesa.
La prima puntata della sua analisi è in questa pagina di Settimo Cielo del 31 agosto scorso:
Ed ecco il seguito, ricchissimo di spunti di riflessione. Sullo sfondo di una società sempre più post-cristiana che sembra inverare la domanda di Gesù: “Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Luca 18, 8).
(Nella foto una chiesa del XV secolo a Zwolle, in Olanda, divenuta un Biblio Café).
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IL POST-CONCILIO E I “GRANDI BALZI IN AVANTI” DELLA MODERNITÀ
di Roberto Pertici
1. Una rivoluzione non prevista
In un recente intervento su Settimo Cielo, ho cercato di indicare, sia pure in modo molto sommario, la modernità con cui la Chiesa cercò di fare i conti nel Concilio Vaticano II. Li faceva – scrivevo – con le “grandi narrazioni ideologiche ottocentesche” uscite vittoriose dalla seconda guerra mondiale: quella liberaldemocratica e quella marxista.
Ho sottolineato il grande ottimismo che aveva circondato i lavori conciliari e la loro conclusione. Giovanni XXIII e Paolo VI, con la maggioranza dei vescovi, speravano che l’atteggiamento dialogico, la ricerca dell’incontro col mondo in tutte le sue articolazioni avrebbe riaperto un’interlocuzione che era venuta a mancare. A una Chiesa che si mostrava più “mater” che “magistra”, che esortava senza condannare, che non escludeva nessuno, il mondo contemporaneo sarebbe tornato a rivolgersi fiducioso e benevolo.
Non sono passati ancora sessant’anni e non è difficile constatare che le cose sono andate diversamente. Proprio dagli anni del Concilio è iniziato un processo di scristianizzazione delle società occidentali, specie europee, che le sta trasformando in società post-cristiane. Perché? Il problema è ovviamente enorme: cercherò di affrontarlo in modo estremamente schematico, tanto per far emergere alcune riflessioni.
Ho scritto consapevolmente “dagli anni del Concilio” e non “a causa del Concilio”, perché anche in questo problema bisogna evitare il sofisma del “post hoc, ergo propter hoc”. Non che il Concilio – come cercherò di mostrare – non abbia inciso, ma quel processo si sarebbe svolto ugualmente, sia pure con forme e ritmi diversi che non è facile ipotizzare, anche se il Concilio non ci fosse stato o avesse preso un andamento diverso. Perché – questo è il problema veramente decisivo – proprio negli anni in cui il Concilio si stava svolgendo, la modernità faceva un grande balzo in avanti, che creava una situazione per molti aspetti completamente nuova rispetto a quella che l’assemblea dei vescovi aveva esaminata e rispetto alla quale stava prendendo posizione.
Nella seconda metà degli anni Sessanta cominciavano a emergere i grandi mutamenti culturali indotti dal travolgente sviluppo economico-sociale in atto dal 1950 e che sarebbe durato fino al 1973 con l’inizio della crisi petrolifera. Lo storico inglese Eric J. Hobsbawm chiama questo venticinquennio “the golden Age”, l’economista francese Jean Fourastié – l’ho già ricordato – “les trente glorieuses” (per lui l’inizio era il 1945). Per l’80 per cento dell’umanità – afferma Hobsbawm – il Medio Evo finì di colpo negli anni Cinquanta, o meglio se ne avvertì la fine nel decennio successivo. Si trattò di un fenomeno mondiale: si ebbe una fase di crescita anche nel blocco sovietico e in quello che allora si chiamava il “terzo mondo”, con un aumento spettacolare della popolazione e delle aspettative di vita.
La costituzione conciliare “Gaudium et spes” avverte che qualcosa di gigantesco sta accadendo. La parte introduttiva, sotto il titolo “La condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo”, lo scrive a chiare lettere: “L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all'insieme del globo. Provocati dall'intelligenza e dall'attività creativa dell'uomo, si ripercuotono sull'uomo stesso, sui suoi giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e d'agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale, i cui riflessi si ripercuotono anche sulla vita religiosa”.
Sono da rileggere in questa prospettiva i paragrafi: “Profonde mutazioni”; “Mutamenti sociali”; “Mutamenti psicologici, morali e religiosi”; “Squilibri nel mondo contemporaneo”. Ma quel documento non può rendersi conto fino in fondo – né lo storico può esigerlo – di quanto stava accadendo. Accenniamo solo ad alcuni processi:
1) la fine del mondo rurale, l’estinzione della classe contadina in Occidente e il suo declino anche nei paesi arretrati;
2) le grandi migrazioni interne e internazionali;
3) l’estesa urbanizzazione e la nascita delle megalopoli;
4) lo sviluppo dell’istruzione media e superiore e l’esplosione degli iscritti all’università;
5) il nuovo protagonismo delle donne, derivante dal forte aumento della componente femminile nella popolazione universitaria e dall’ingresso delle donne sposate nel mercato del lavoro: negli Stati Uniti erano il 14 per cento nel 1940, nel 1980 il 50 per cento.
2) le grandi migrazioni interne e internazionali;
3) l’estesa urbanizzazione e la nascita delle megalopoli;
4) lo sviluppo dell’istruzione media e superiore e l’esplosione degli iscritti all’università;
5) il nuovo protagonismo delle donne, derivante dal forte aumento della componente femminile nella popolazione universitaria e dall’ingresso delle donne sposate nel mercato del lavoro: negli Stati Uniti erano il 14 per cento nel 1940, nel 1980 il 50 per cento.
Insomma: erano in via di dissoluzione tutta una serie di situazioni in cui la presenza cattolica era tradizionalmente egemonica, anche se era già stata scossa dalla precedente industrializzazione e dai suoi effetti socio-culturali.
Sono le donne e i giovani i veri protagonisti di questa rivoluzione culturale. I “baby-boomers”, nel nuovo benessere che vivono le loro famiglie, invadono i licei e le università fino ad allora popolate dai rampolli delle élite e ne sconvolgono le strutture. L’istruzione di massa crea un gap culturale fra genitori e figli: in poco tempo si forma un’enorme distanza storica che separa le generazioni nate prima del 1925 da quelle nate dopo il 1950. In un mondo che ormai si è messo alle spalle il “paradigma conservatore”, la loro politicizzazione non può avvenire che a sinistra, perché non dispongono di un altro vocabolario e di un’altra forma di antagonismo, anche se il loro è un marxismo spurio rispetto a quello della vulgata comunista.
Negli stessi anni esplode un nuovo femminismo, assai più radicale di quello tipico della tradizione socialista, che era basato tradizionalmente sulla rivendicazione di diritti sociali e politici.
Quello femminile e quello giovanile sono due universi a cui la “Gaudium et spes” dedica solo cenni molto generici e scontati, eppure sono proprio loro i vettori della trasformazione. Emergono vasti movimenti di massa, il cui elemento unificante e caratterizzante è il prepotente riemergere della “cultura della rivoluzione” o della “passione rivoluzionaria” (uso un’espressione di François Furet): dell’idea, cioè, che l’unico modo veramente decisivo e risolutivo di mutamento politico-sociale sia quello che rompe radicalmente col passato. Ma molti storici oggi propendono a credere che l’effetto più duraturo di quei movimenti sia un altro: una “rivoluzione individualistica”, che proclama la superiorità assoluta del soggetto rispetto a ogni vincolo sociale di qualsiasi natura: familiare, nazionale, di classe.
Hobsbawm osserva che il significato più rilevante di questi mutamenti fu che, implicitamente o esplicitamente, essi rifiutavano l’ordine delle relazioni umane stabilito da una lunga tradizione storica e sanzionato dalle convenzioni e dalle proibizioni sociali. Per cui la rivoluzione culturale degli anni Sessanta e Settanta può essere intesa come il trionfo dell’individuo sulla società o piuttosto come la rottura dei fili che nel passato avevano avvinto gli uomini al tessuto sociale. “Il vecchio vocabolario morale dei diritti e dei doveri, – scrive Hobsbawm – delle obbligazioni reciproche, del peccato e della virtù, del sacrificio, della coscienza, dei premi e delle pene, non poteva più essere tradotto nel nuovo linguaggio della gratificazione immediata dei desideri”. E aggiunge: “Le istituzioni più duramente colpite dal nuovo individualismo morale furono in Occidente la famiglia tradizionale e le Chiese tradizionali, le quali conobbero un tracollo vistoso nell’ultimo terzo di secolo. Il cemento che aveva tenuto compatte le comunità dei cattolici romani si sbriciolò con velocità stupefacente”. E ora cominciamo a capire perché.
2. La società radicale
Le statistiche che già allora furono raccolte e studiate forniscono dati impressionanti. Limitiamoci all’Italia: se nel 1956 ancora il 69 per cento degli italiani andava regolarmente a messa la domenica, già nel 1962 la percentuale si era ridotta al 53 per cento, per arrivare nel 1968 al 40 per cento. A ciò si aggiunga il radicale assottigliamento delle tradizionali organizzazioni cattoliche, specialmente dell’Azione Cattolica, che nel 1955 contava oltre 3 milioni e mezzo di aderenti, scesi nel 1973 a 816 mila; la crisi delle vocazioni e l’abbandono diffuso del sacerdozio, specie negli anni dopo il 1965; l’analoga contrazione delle vocazioni femminili; il calo dei battesimi e la minore partecipazione ai sacramenti. Si assiste, insomma, a una generale emancipazione della società civile da quella religiosa: anche chi resta all’interno di un orizzonte religioso tende ormai a privatizzare la propria fede, a viverla nell’intimità, senza riconoscerle un qualche ruolo pubblico.
Emergeva quella che Gianni Baget Bozzo ha chiamato la “società radicale”: un avvento – questo va sottolineato – non previsto dal Concilio, che pone una serie di sfide inedite.
Il nuovo individualismo di massa aveva poco a che spartire con quello del liberalismo tradizionale e dell’utilitarismo classico. Si trattava di un individualismo liberato dal concetto di razionalità e da quello di natura, che si identificava piuttosto in una “cultura del bisogno” che stentava a riconoscersi soggetta a una qualsiasi norma. In tale cultura, il sesso, forse il più complesso dei bisogni umani, acquistava una centralità per l’innanzi sconosciuta: l’atteggiamento nei suoi confronti diventava il metro abituale per giudicare il carattere più o meno “progressivo” di movimenti e istituzioni.
Si assisteva al tramonto del modello morale cristiano che era sopravvissuto alla secolarizzazione culturale e filosofica dei secoli XVIII e XIX, i cui maggiori esponenti si erano – per alcuni aspetti – proposti proprio di conservarlo e riformularlo in un mondo che non conosceva più l’egemonia del cristianesimo. Il disciplinamento della sessualità tramite la famiglia monogamica ne era stato uno delle componenti fondamentali: esso era sostanzialmente sopravvissuto anche alla fine del regime di “cristianità”, alla sua possibilità di influenzare legislazione e vita politica, ma ora entrava inesorabilmente in crisi.
Si comprende la portata di una tale sfida alla Chiesa cattolica, che per la prima volta vide vacillare i propri canoni etici all’interno dello stesso “popolo di Dio” e del variegato mondo della ricerca teologica. La sessualità, la contraccezione, i problemi del divorzio e dell’aborto, la condizione omosessuale, la donna e la questione femminista, la situazione del sacerdote e il celibato ecclesiastico, furono i problemi con cui la Chiesa si dovette confrontare in quegli anni e successivamente, fino ai giorni nostri, di fronte a contestazioni pubbliche di settori dello stesso episcopato e a un’inquietudine teologica senza precedenti. Perché la secolarizzazione dispiegata produceva un buco nero fra le regole di vita e di moralità della Chiesa e la realtà della condotta pubblica e privata del tardo ventesimo secolo
La fine del regime di “cristianità”, che molti cattolici conciliari avevano auspicato, avveniva in modi dirompenti e imprevisti, che ponevano interrogativi anche a coloro che l’avevano invocata: così a un grande storico cattolico come Pietro Scoppola, che condensava le sue riflessioni in un prezioso volumetto del 1985 intitolato significativamente “La ‘nuova cristianità’ perduta”.
3. L’impatto del Concilio
Questi processi occupano buona parte degli anni Sessanta e Settanta, grosso modo il pontificato di Paolo VI. Nel mondo cattolico, sul cambiamento epocale che stava trasformando la società, si innestò anche il mutamento ecclesiale: fra i due processi, distinti fra loro per origine e dinamiche, si attuò come un intreccio che produsse un effetto moltiplicatore. Nel senso che il mutamento ecclesiale divenne uno dei fattori, dei simboli potremmo dire, di quello complessivo. E viceversa questo accelerò e in qualche modo ingigantì la portata di quello.
Di per sé il Vaticano II seguiva una logica “riformatrice” largamente diffusa in quei primi anni Sessanta. Tutti sanno che, se la ricostruzione post-bellica fu guidata da governi conservatori moderati, spesso da uomini nati ancora nel XIX secolo, i primi anni Sessanta furono il momento dei “riformisti”, a partire dalla presidenza Kennedy, dalle socialdemocrazie al potere nei paesi scandinavi, dalla vittoria del laburista Wilson in Gran Bretagna nel 1964, fino al lento crepuscolo dell’egemonia democristiana in Germania che porterà al potere Willy Brandt nel 1969. In Grecia finisce l’era Karamanlis, uomo di centro-destra, e nel 1963 sale al potere il democratico Georgios Papandreou. In Italia è l’ora del centro-sinistra, alla fine “sdoganato” dalla Chiesa di Giovanni XXIII. Sembra, insomma, aprirsi un’era generale di aperture politiche e di riforme.
Ma è anche noto che questo processo riformatore si arenò o comunque non corrispose alle aspettative diffuse, che invece andavano sempre più alzando il tiro: si pensi al tramonto tragico del kennedysmo o alle difficoltà del primo centro-sinistra in Italia. Per cui si ha il paradosso che nei paesi in cui l’apertura politica era stata maggiore – si pensi agli Stati Uniti, alla Germania, ma anche all’Italia – maggiore fu anche la radicalizzazione degli anni successivi al 1965. Il primo annuncio della mutazione è, forse, la rivolta studentesca di Berkeley alla fine del 1964.
Ora, con la necessaria prudenza, avendo a che fare con un’istituzione così particolare come la Chiesa cattolica, non è improprio tentare una comparazione fra queste dinamiche “mondane” e quelle della Chiesa fra Concilio e post-concilio. L’innesto di un processo riformatore in una “società chiusa” (definizione tecnica, non giudizio di valore), che ha fatto della sua immutabilità e della sua “perfezione” (“societas perfecta”) i suoi tratti distintivi, che si basa su una serie di credenze organicamente coese e impone comportamenti ad esse coerenti, può avere effetti diversi.
Da un lato può indurre a spostare sempre in avanti il livello della riforma, affermando che essa non è mai completa, anzi deve essere rilanciata continuamente, perché continuamente i tempi mutano, e a lungo andare le inevitabili lentezze della storia possono spingere i sostenitori di questo continuo cambiamento prima alla dissidenza e poi alla fuoriuscita. Possiamo chiamare questa posizione, molto nota agli studiosi dei movimenti rivoluzionari, come rivoluzione permanente: in questa prospettiva, bisogna sempre assecondare il “dérapage” del mutamento, rilanciandone continuamente il livello.
Ma si può presentare anche un’altra reazione, che potremmo chiamare del disincanto. Non si può operare una “smentita” formale della fede creduta e vissuta da generazioni e generazioni, ridimensionare credenze e prassi fino a poco prima presentate come vincolanti, senza introdurre un “vulnus” irreparabile nell’autorappresentazione e nella percezione diffusa di un’istituzione. È vero: le credenze di fondo restano, si tratta solo di cambiamenti presentati come accessori, ma per molti la fede vissuta era nutrita proprio di quegli aspetti che ora vengono mandati in soffitta. Non voglio fare un paragone irrispettoso: ma a ben vedere, il comunismo europeo non si è più ripreso dopo la fine del mito di Stalin, perché per molti il comunismo era proprio quello: “E ora ci venite a dire – pensavano e dicevano molti militanti comunisti degli anni Cinquanta – che avevano ragione quelli contro cui abbiamo lottato per decenni!”.
Per queste istituzioni “chiuse” in via di cambiamento – e il cambiamento è spesso necessario e indifferibile – il vero problema è a un certo punto quello di “porre fine alla rivoluzione”, se non vogliono completamente snaturarsi o finire. Lo avvertivano già Benjamin Constant e la sua amica Madame de Staël fra il 1795 e il 1796, a proposito della necessità di preservare i risultati della rivoluzione francese, senza cedere a impossibili reazioni, ma nemmeno continuando in mutamenti continui e in nuove fratture. Impresa tutt’altro che facile, perché spesso la logica e la forza delle cose prende il sopravvento: basti pensare all’esito del riformismo gorbacioviano nell’URSS degli anni Ottanta del secolo XX.
Non si allarmino i lettori per questi riferimenti “mondani” mentre si sta ragionando della Chiesa del secondo Novecento: perché – se usati con prudenza – forse possono aiutarci a capire alcune dinamiche del post-Concilio.
4. La rivoluzione permanente
Per una parte del mondo cattolico, al di là delle sue pur rilevantissime decisioni, il Vaticano II divenne un grande mito collettivo, carico di ottimismo contro i “profeti di sventura” che avevano sempre condannato il mondo moderno, di contestazione “dal basso” della gerarchia e di aspirazioni a un diffuso rinnovamento. La critica della Chiesa “costantiniana”, l’opposizione a ogni contaminazione mondana del fenomeno religioso e di ogni compromesso col potere, ne furono temi costanti: questo nuovo cattolicesimo post-conciliare venne quindi smarcandosi dalla gerarchia, dilatando con forza alcuni temi presenti nei testi conciliari.
A costoro poco importava che quei testi non consentissero esiti così radicali. Il Concilio contava come “evento”, il cui “spirito” autorizzava i più audaci sviluppi. Questo fu il comune denominatore della contestazione cattolica che si sviluppò nella seconda metà degli anni Sessanta le cui vicende, in Italia e fuori, sono troppo note perché si debba qui parlarne. Quanti di quei giovani e meno giovani, chierici e laici, uomini e donne, delusi dalla “svolta” di Paolo VI dopo il primo lustro di pontificato, abbandonarono le organizzazioni cattoliche, lasciarono le parrocchie, presero insomma altre vie, spesso di natura essenzialmente politica? Quanti si trasformarono in cattolici “in sonno”, magari pronti a tornare alla comunione ecclesiale quando se ne fosse presentata l’opportunità per il successo delle loro posizioni?
Una parte della diaspora cattolica di quegli anni ha questa radice. Ma conviene guardare anche da un’altra parte.
5. La logica del disincanto
Ci dà molti elementi in merito un libro del sociologo Guillaume Cuchet uscito in Francia nel 2018, che ha un titolo eloquente: “Comment notre monde a cessé d’être chrétien. Anatomie d’une effondrement”. Basandosi su un gran numero di dati e di indagini già pubblicate, Cuchet rileva il crollo della pratica religiosa e il tramonto del “sentire cattolico” anche nella Francia profonda a partire dagli anni Sessanta, con un andamento precipitoso proprio dal 1965, l’anno in cui il Concilio si chiude. Sullo sfondo della sua analisi c’è il mutamento socio-culturale di quel decennio, al quale anch’io ho prima accennato: ma nel mondo cattolico esiste uno specifico elemento scatenante, che è appunto il Concilio. La questione che si pone allora è di precisare ciò che nell’evento Concilio ha potuto provocare questa rottura della pratica religiosa dopo il 1965. A questo livello, evidentemente, le enunciazioni teologiche più o meno innovative hanno scarso impatto. È su altri aspetti che si deve dirigere l’attenzione.
Per capirci qualcosa, Guchet ricorre a un importante testo del 1976 del canonico Ferdinand Boulard, uno dei maggiori sociologi della religione di metà Novecento, che aveva partecipato al Concilio come perito. Boulard spiegava che uno scarto si era creato dopo il Vaticano II fra le “nuove norme” religiose che ne erano scaturite e quelle del “popolo cristiano tradizionale”: questo scarto poteva spiegare almeno in parte la crisi che si era aperta nella pratica religiosa, nelle credenze e nell’immagine diffusa della Chiesa e del clero. Nella religione quotidiana, giocarono un ruolo importante alcuni aspetti della riforma liturgica che potevano apparire anche secondari, ma che non lo erano del tutto sul piano psicologico e antropologico: l’abbandono del latino, il dare del tu a Dio, la comunione nelle mani, il tramonto di una serie di pratiche obbligatorie. Nel campo degli articoli di fede tutta una serie di verità antiche finirono brutalmente nel dimenticatoio – a cominciare dai “novissimi”: morte, giudizio, inferno, paradiso –, come se gli stessi preti avessero smesso di crederci o non sapessero più come parlarne, dopo averlo fatto per secoli in modo drammatico e ultimativo.
Un altro campo nel quale la congiuntura degli anni Sessanta ha potuto destabilizzare i fedeli è quello dell’immagine della Chiesa, della sua struttura gerarchica e del sacerdozio. Non si deve dimenticare che la crisi cattolica degli anni 1965-1978 fu in primo luogo una crisi del clero e delle organizzazioni cattoliche. L’abbandono della tonaca e dell’abito religioso, il crescente silenzio dei preti sui “fini ultimi”, la loro politicizzazione generalmente a sinistra, l’abbandono dello stato ecclesiastico di un gran numero di sacerdoti, religiosi e religiose, talora seguito dal loro matrimonio, apparvero a molti fedeli come una vera e propria “trahison des clercs” (qui Guchet riprende e adatta la nota espressione di Julien Benda), paragonabile solo alle “déprêtrisations” operate dalla rivoluzione francese (ma se ne ebbero anche in Italia, specie nel triennio giacobino 1796-1799, sia pure in dimensioni minori), con gli effetti destabilizzanti sulla vita religiosa che tutti conoscono.
Opportunamente Guchet ricorda uno scritto di Théodore Jouffroy, un altro di quei geniali pensatori del XIX secolo – come Alexis de Tocqueville, di cui era leggermente più anziano – che si interrogarono sulle dinamiche e sul destino delle religioni. In una lezione intitolata “Du scepticisme actuel” (siamo negli anni Trenta dell’Ottocento) affermava che il mutamento dell’insegnamento ufficiale diffonde scetticismo fra gli umili, perché ne deducono che se l’istituzione s’è “ingannata” ieri, dando per immodificabile ciò che invece ha cessato di esserlo, non si può essere sicuri che la cosa non si ripeta anche in futuro.
Per Guchet, il Vaticano II ha soprattutto aperto la strada a quella che chiama una “fuoruscita collettiva dalla cultura della pratica obbligatoria la cui infrazione comportava un peccato mortale”, pratica obbligatoria che occupava un posto centrale nel vecchio cattolicesimo. Questa cultura, che ha lasciato vivi ricordi in quanti di noi l’hanno vissuta, era ancora più rigida nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento che precedentemente: si incarnava nei precetti della Chiesa – la santificazione delle domeniche e delle feste, appunto, “di precetto”; la confessione e la comunione almeno a Pasqua; il digiuno e l’astinenza dalla carne il venerdì… – che venivano avvertiti come i principali “doveri religiosi” del cristiano. Negli anni del post-concilio questi obblighi canonici furono in parte mantenuti, ma resi sempre meno vincolanti e talvolta seriamente relativizzati nella pratica. Ebbene, l’ipotesi di Guchet è che la fine dell’insistenza pastorale sul carattere obbligatorio di quei precetti e il tramonto del discorso sui “fini ultimi”, sopraggiunti alla fine del Concilio, abbiano giocato, sul piano collettivo, un ruolo fondamentale nella rottura della pratica religiosa soprattutto nei bambini e nei giovani, a cui questi obblighi erano stati presentati come i fondamenti della vita cristiana.
Perché è proprio l’abbandono della pratica religiosa da parte dei giovani, l’elemento che scatena la crisi, fra il 1965 e il maggio 1968. Era difficile – si può però aggiungere – che una generazione che stava vivendo la rivoluzione individualistica, di cui abbiamo prima parlato, potesse ancora comprendere il linguaggio degli obblighi e delle prescrizioni e non li avvertisse come residui di una religione formale e repressiva. Lo dimostra l’impressionante crollo del sacramento della confessione, la cui ampiezza statistica è sottolineata da Guchet: nel 1983, solo un cattolico francese su cento si confessava almeno una volta al mese (nel 1952 erano 15) e ben 69 non si confessavano mai (nel 1952 erano 37). Questa caduta libera della confessione nel giro di pochi anni costituisce di per sé un fatto sociologico e spirituale di cui forse storici e sociologi non hanno ancora valutato bene tutta la portata: perché si trattava di una pratica che aveva profondamente modellato la mentalità dei cattolici sulla lunga durata, come pure le forme culturali della colpa personale e collettiva.
La “Gaudium et spes” (49) esortava a istruire adeguatamente i giovani, “molto meglio se in seno alla propria famiglia, sulla dignità dell'amore coniugale, sulla sua funzione e le sue espressioni; così che, formati nella stima della castità, possano ad età conveniente passare da un onesto fidanzamento alle nozze”. Il giovane uomo e la giovane donna della fine degli anni Sessanta, nel pieno della “rivoluzione sessuale”, poteva anche confessare di praticare sesso prima del matrimonio e magari di usare gli anticoncezionali, ma non poteva proporsi solennemente di non compiere più quei “peccati”, come il catechismo che aveva memorizzato gli imponeva. Perché sapeva benissimo che non sarebbe stato così. Alla lunga non li avrebbe più confessati o, più spesso, si sarebbe allontanato dal confessionale.
Ho semplificato la complessa e documentata argomentazione di Guchet. Essa è sicuramente connessa alla situazione francese, in cui gran parte delle masse cattoliche aveva tradizionalmente fatto parte del “blocco d’ordine”, dai tempi della Restaurazione in avanti. Ma ci può dare qualche indizio e molte osservazioni interessanti per altri contesti nazionali e quindi avere una portata più complessiva.
6. “Terminer la Revolution”
Tutto questo “vecchio cattolicesimo” che veniva ormai accantonato era un ultimo residuo del “paradigma conservatore”, che quindi perse la sua ultima battaglia proprio all’interno della Chiesa, provocando tuttavia una disaffezione diffusa in una parte del mondo cattolico. Al tempo stesso lo stile e gli atteggiamenti di questo “vecchio cattolicesimo” erano ormai totalmente estranei ai tempi che stavano cambiando e allo stile di vita delle generazioni più giovani, anche di sacerdoti, al punto che difficilmente sarebbe sopravvissuto anche se tanti preti avessero tenuto maggiormente la posizione.
Per uscire dalla crisi che rischiava di disarticolare la Chiesa, bisognava – usando le parole di Madame de Staël – “terminer la Revolution”, porre fine alla rivoluzione. Questo fu il compito storico dei pontificati di Giovanni Paolo II e del suo immediato successore Benedetto XVI: il che non significava operare una “restaurazione” – come si è detto e ripetuto da parte di critici interni ed esterni alla Chiesa –, ma preservare e gestire i frutti fondamentali del Vaticano II senza fughe in avanti e ulteriori scosse. Dunque Wojtyla e Ratzinger sono stati papi “conciliari”, ma hanno capito che per consolidare e dare pace alla Chiesa nata dal Vaticano II era necessario, in qualche modo, sopire definitivamente i disordini del post-concilio.
7. L’avvento della post-modernità
Tuttavia i loro pontificati possono essere letti anche in un’altra prospettiva: come un tentativo di risposta all’ulteriore balzo in avanti che la modernità intanto stava compiendo proprio dalla fine degli anni Settanta. Sembrava un’autocritica, in realtà era uno sviluppo: si parla spesso di post-modernità (dal fortunato volume di Jean-François Lyotard, “La condition postmoderne. Rapport sur le savoir”, uscito nel 1979), ma si potrebbe anche parlare di “iper-modernità”. Le principali componenti della cultura otto-novecentesca, proprio quelle con cui il Vaticano II aveva appena finito di confrontarsi, venivano ridotte al rango di “grandi narrazioni”, che ormai avevano perduto consistenza e capacità di incidere in un mondo radicalmente cambiato.
Possiamo riassumere i tratti essenziali di questa nuova cultura con la provocatoria caratterizzazione che ne ha fornito un suo critico, il filosofo neo-illuminista italiano Maurizio Ferraris:
1) la “messa tra virgolette” del mondo, per cui non esistono più la verità, la realtà, l’oggettività, ma solo la “verità”, la “realtà”, l’”oggettività”. Gli intellettuali, che sono di natura “decostruttori”, lo sanno bene: togliere quelle virgolette sarebbe un atto di inaccettabile violenza o di fanciullesca ingenuità. Siamo immersi nei fenomeni, con le cose non abbiamo contatto: quindi dobbiamo guardare con sospetto chiunque si ritenga in possesso di una verità.
2) la rivoluzione desiderante: il desiderio costituisce di per sé un elemento emancipativo. Si sottolinea perciò il ruolo politico del corpo, elaborando una critica della morale come struttura repressiva.
3) la de-oggettivazione: l’idea che quelle che solitamente si chiamano l’oggettività, la realtà e la verità siano un’illusione o un’arma ideologica di un potere sottilmente violento. La banalizzazione dell’aforisma nietzscheano: “non esistono fatti, ma solo interpretazioni” viene da allora ripetuta in ogni aula universitaria.
Si era giunti, perciò, al paradosso che la Ragione con la R maiuscola, in nome della quale la civiltà moderna aveva condotto e vinto tante battaglie contro la Chiesa, era stata in qualche modo messa da parte e ridimensionata proprio dagli ultimi esponenti della modernità. Lo stesso metodo filologico-storico, che aveva rivoluzionato la critica biblica e la storia delle origini cristiane – anche in questo mettendo in seria difficoltà la cultura ecclesiastica – non sembrava più assicurare alcuna oggettività alla storiografia, che rischiava di essere ridotta a una forma narrativa senza pretesa di “scientificità”.
È evidente la sfida di tipo nuovo che questa cultura emergente portava alla Chiesa, non più in nome della ragione e della storia, ma della critica del principio di verità: perché all’esistenza di una “verità oggettiva” di cui il cristianesimo è portatore, anche Paolo VI, nel suo momento più dialogico, non aveva rinunziato: “Per chi ama la verità, la discussione è sempre possibile. Ma ostacoli d'indole morale accrescono enormemente le difficoltà, per la mancanza di sufficiente libertà di giudizio e di azione e per l'abuso dialettico della parola, non già rivolta alla ricerca e all'espressione della verità obbiettiva, ma posta al servizio di scopi utilitari prestabiliti” (“Ecclesiam suam”, 106).
Il confronto con la post-modernità e i suoi esiti nichilistici fu – lo ripeto – peculiare dei pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. E anche qui si assiste a un altro paradosso: che il loro magistero finì per ribadire l’assolutezza dei principi morali e la centralità della ragione, rifacendosi a un atteggiamento per così dire “kantiano” e anche a un certo illuminismo. In un importante intervento del marzo 2005, quindi poche settimane prima della sua elezione al pontificato , il cardinale Ratzinger affermava:
“Il cristianesimo […] ha sempre definito gli uomini, tutti gli uomini senza distinzione, creature di Dio e immagine di Dio, proclamandone in termine di principio, seppure nei limiti imprescindibili degli ordinamenti sociali, la stessa dignità. […] In questo senso l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. Laddove il cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato. […] È stato merito dell’illuminismo aver riproposto questi valori originali del cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua propria voce. Il Concilio Vaticano II, nella costituzione della Chiesa nel mondo contemporaneo, ha nuovamente evidenziato la corrispondenza tra cristianesimo e illuminismo, cercando di arrivare ad una vera riconciliazione tra Chiesa e modernità. […] Con tutto ciò bisogna che le due parti [cristianesimo e illuminismo] riflettano su se stesse e siano pronte a correggersi. Il cristianesimo deve ricordarsi sempre che è la religione del ‘logos’. Esso è fede nel ‘creator spiritus’, nello spirito creatore dal quale proviene tutto il reale. Proprio questa dovrebbe essere oggi la sua forza filosofica, in quanto il problema è se il mondo provenga dall’irrazionale, e la ragione non sia dunque altro che un ‘sottoprodotto’, magari pure dannoso, del suo sviluppo o se il mondo provenga dalla ragione, ed essa sia di conseguenza il suo criterio e la sua meta. La fede cristiana propende per questa seconda tesi, avendo così, dal punto di vista puramente filosofico, davvero delle buone carte da giocare, nonostante sia la prima tesi ad essere considerata oggi da tanti la sola ‘razionale’ e moderna. Ma una ragione scaturita dall’irrazionale, e che è, alla fin fine, essa stessa irrazionale, non costituisce una soluzione ai nostri problemi”.
Questa battaglia anti-relativistica si è risolta in un sostanziale fallimento, anche perché batteva in breccia atteggiamenti e mentalità ormai maggioritari nel mondo della cultura e dei media, producendo una lunga serie di manifestazioni di rigetto, che appannarono l’immagine di Benedetto XVI. A ciò si aggiunga un’ampia resistenza anche nell’istituzione ecclesiastica, che lasciò solo quel papa in alcuni momenti decisivi:. Il progetto di cercare un dialogo critico con la post-modernità, che fosse al tempo stesso una sfida sui temi della vita, della razionalità dell’uomo, della libertà religiosa, si chiuse con la sua rinuncia al pontificato.
8. Per concludere
In alcuni precedenti interventi pubblicati anch’essi su Settimo Cielo, ho cercato di tratteggiare le mie impressioni di osservatore sul momento attuale della Chiesa. Con Francesco e il suo entourage, essa ha ripreso ad assecondare il “dérapage” della post-modernità, correndo consapevolmente il rischio, che per taluni è anche un’opportunità, di superare il “cattolicesimo romano” come si era strutturato negli ultimi secoli, nella speranza di operare un’inculturazione cristiana del nuovo “Zeitgeist”:
> Fine del “cattolicesimo romano”? (13 aprile 2018)
Per questo oggi la Chiesa di Francesco ha messo ulteriormente in sordina il discorso sui “fini ultimi”, insistendo invece su temi più politici come l’ecologia, le migrazioni, le nuova povertà, che la post-modernità delega volentieri alla Chiesa, da essa avvertita come un’agenzia etica fra le tante:
> Primato dello spirituale o primato della politica? (17 aprile 2020)
Dall’altra parte assistiamo al tentativo di rilanciare in forme nuove il “paradigma conservatore” (come ad esempio fa l’americano Rod Dreher), col rischio calcolato di diventare per molto tempo – per dirla con Tocqueville – “una schiera di ferventi zelatori in mezzo a una moltitudine di increduli”:
> Rod Dreher conservatore e cristiano (11 ottobre 2018)
Ma, a ben vedere, si tratta del confronto fra due minoranze. È difficile capire quanto di questi dibattiti e di questi problemi arrivi al rarefatto e sempre più anziano “popolo cristiano”, che munito di mascherina, sanificato e distanziato socialmente, ha avuto il permesso di tornare nelle chiese la domenica.
Settimo Cielo
di Sandro Magister 14 set
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