Gli Stati Uniti sono entrati a gamba tesa sul possibile rinnovo dell’accordo tra Vaticano e Cina in merito alla nomina dei vescovi. Il monito alla Santa Sede di non fidarsi di Pechino è arrivato direttamente da Mike Pompeo. “Due anni fa, la Santa Sede ha raggiunto un accordo con il Partito comunista cinese, sperando di aiutare i cattolici cinesi. Ma l’abuso del Pcc sui fedeli è solo peggiorato. Il Vaticano metterebbe a rischio la sua autorità morale, se rinnovasse l’accordo”, ha scritto in un tweet al veleno il segretario di Stato Usa.
Proprio Pompeo aveva già toccato l’argomento scrivendo un lungo saggio pubblicato sulla rivista statunitense First Things. Il braccio destro di Donald Trump ha criticato la decisione del Vaticano di dare legittimazione a vescovi e sacerdoti che erano nel Partito comunista cinese, facendo leva sulla difesa della “libertà religiosa in Cina” e dei fedeli cinesi. Washington ha insomma espressamente chiesto al Vaticano di unirsi a questa missione.
Anche perché, si legge sempre nel articolo firmato da Pompeo, nel caso in cui il Pcc dovesse “mettere in ginocchio la Chiesa cattolica e le altre comunità religiose”, in quel caso i “regimi che disprezzano i diritti umani” saranno “incoraggiati” e il “costo della resistenza alla tirannia aumenterà per tutti i coraggiosi credenti religiosi che onorano Dio al di sopra dell’autocrate del giorno”.
La “chiamata alle armi” di Pompeo
Pompeo farà di tutto per convincere il Vaticano ad abbandonare l’abbraccio cinese. Ed è anche per questo che il prossimo 29 settembre il segretario americano farà tappa proprio presso la Santa Sede. Il motivo di una così imperterrita chiamata alle armi di Washington sta tutta nello scenario favorevole a Pechino. Già, perché, come ha sottolineato Repubblica, la disponibilità del Vaticano verso la Cina è massima.
Anzi: la segreteria vaticana starebbe aspettando una risposta cinese, che dovrebbe sopraggiungere entro la metà di ottobre. Ovvero il giorno stesso in cui, due anni fa, entrò in vigore lo storico accordo. Pompeo ribadirà di persona ai suoi interlocutori che l’accordo Cina-Vaticano non ha affatto tutelato né difeso i cattolici dal governo cinese. Giusto per agitare ulteriormente le acque, e completare il binomio libertà religiosa-tutela dei diritti umani, il funzionario americano tirerà in ballo anche le questioni relative a Hong Kong e lo Xinjiang, cercando di mettere la Santa Sede con le spalle al muro.
Uno scontro geopolitico
La missione di Pompeo non punta soltanto a salvaguardare i valori morali e religiosi in cui credono gli Stati Uniti. Dietro al meticoloso lavoro del segretario Usa c’è molto di più. Convincere il Vaticano a chiudere le porte in faccia a Pechino significherebbe assestare un destro in pieno volto alle ambizioni del Dragone. Il motivo è semplice: il governo cinese, riuscendo nell’impresa di ottenere una nuova fumata bianca con la Santa Sede, potrebbe, in un colpo solo, ripulire la propria immagine e sbandierarsi come “amico” della Chiesa. E questo nonostante le critiche mosse dal mondo occidentale nei confronti del gigante asiatico.
L’obiettivo di Washington, dunque, è far allontanare quanto e più possibile il governo cinese dal Vaticano. Anche se, come detto, questa non sarà certo un’impresa facile. Con l’ultima intesa provvisoria sulla nomina dei vescovi, secondo alcuni osservatori, sarebbe stato dato un effettivo potere di nomina degli stessi vescovi alla Chiesa ufficiale cinese, controllata dall’Associazione patriottica cattolica cinese (la stessa che mantiene uno stretto rapporto di collaborazione con il governo di Pechino). Ora una possibile riconferma dell’accordo sembrerebbe essere dietro l’angolo.
Federico Giuliani
20 SETTEMBRE 2020
Il mistero del patto sanitario firmato da Italia e Cina prima della pandemia
Nel marzo 2019 il presidente cinese Xi Jinping effettuava la sua prima visita ufficiale in Italia. In quell’occasione Roma si impegnò a firmare il Memorandum d’Intesa sulla Nuova Via della Seta. Non solo: in quei giorni concitati veniva abbozzato un accordo sanitario con la Cina in seguito perfezionato e bollinato nel novembre 2019, poco prima del viaggio oltre Muraglia del premier Giuseppe Conte.
Di che cosa si trattava? Niente meno che di una sorta di patto in merito alla cooperazione sulle pandemie. Il quotidiano La Verità, oltre a sottolineare il curioso accordo, fa luce sulla tempistica dell’avvenimento. Lo scorso novembre non era un mese qualunque. Stiamo parlando di un periodo delicatissimo, ovvero poche settimane prima dell’esplosione dell’emergenza sanitaria provocata dalla pandemia di Covid. Non solo: in quello stesso mese, secondo alcune fonti, a Wuhan, capoluogo della provincia cinese dello Hubei, nonché primo epicentro globale dell’epidemia, sarebbero già stati intercettati i primi pazienti infetti.
Se diamo uno sguardo al contenuto del documento citato, notiamo come Italia e Cina avessero stabilito una stretta collaborazione in materia di prevenzione, diagnosi e perfino trattamento delle malattie infettive. In più, si faceva espressamente riferimento a risposte inerenti a “emergenze di salute pubblica”. Tutto questo, ricordiamolo, a poche settimane dallo scoppio della pandemia.
Dubbi e misteri
Nel patto si parla anche degli interventi che dovrebbero essere adottati in caso di pandemia. Ovvero: quali atteggiamenti individuali adottare, quali comportamenti prediligere e come gestire la popolazione. Ricordiamo che nei giorni in cui fu firmato l’accordo, il nuovo coronavirus doveva ancora uscire dall’ombra, e che nessuno si sarebbe mai aspettato un disastro sanitario simile. Insomma, una coincidenza alquanto sinistra.
In ogni caso il Ministero della Salute ha confermato l’esistenza dell’accordo, spiegando, sempre a La Verità, che quel patto “interessava soprattutto ai cinesi” e che “erano loro a insistere”. Il Piano d’azione 2019-2021 in ambito sanitario, questo il nome dell’intesa, ha preso definitivamente vita l’8 novembre 2019. Diamo ancora uno sguardo al calendario: il primo paziente cinese sarebbe stato ricoverato il 17 novembre.
Tornando alla cooperazione sanitaria tra Roma e Pechino, stiamo parlando di un qualcosa di inedito visto che fino a quel momento era la Francia a fare la voce grossa. È infatti Parigi che fin lì aveva sempre addestrato i ricercatori cinesi nei laboratori ad alto rischio, tanto per fare un esempio. Perché il Dragone ha scelto di coinvolgere l’Italia? Il dubbio resta, anche se forse la curiosa tempistica potrebbe essere soltanto una coincidenza.
Il contenuto dell’accordo
La collaborazione sanitaria tra Italia e Cina è triennale e riguarda cinque aree: oncologia, malattie cardiovascolari, cure primarie, medicina generale e risorse umane. Sono previsti scambi di esperienze e informazioni, ma anche studi e seminari vari. Vale la pena soffermarsi su un’area particolare, quella relativa alle malattie infettive. Gli obiettivi prefissati dai due Paesi, tra le altre cose, puntano a “sviluppare e sostenere strategie di prevenzione, politiche e azioni per contrastare l’esposizione agli agenti eziologici, i comportamenti e atteggiamenti individuali e della popolazione generale relativi alla trasmissione delle infezioni”.
Si parla inoltre di misure di prevenzione e vulnerabilità del sistema di risposta alle emergenze infettive. Ma, insomma, perché è nata questa cooperazione sanitaria con la Cina? Il Ministero della Salute ha spiegato che in quel periodo, pre Covid, il governo cinese stava per avviare la riforma del proprio sistema sanitario e considerava il nostro come un modello. In merito a questo c’è addirittura chi ritiene che i medici inviati da Pechino in piena pandemia potessero essere esponenti collegati ai servizi di intelligence. La loro missione? Secondo alcuni, carpire i segreti del sistema sanitario italiano, compresi i punti deboli. Altro particolare: nel maggio 2019, poco dopo la visita di Conte in Cina, il cadavere di un agente dell’Aisi è stato ritrovato a Parigi. Uno 007 morto ufficialmente per infarto. Adesso tocca al governo italiano fare chiarezza.
Federico Giuliani
20 SETTEMBRE 2020
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