Papa Francesco ci indica le vie della pace sulla terra, ma non annuncia il vangelo del regno, né proclama la buona novella che questo regno è già stato aperto all’uomo attraverso l’opera salvifica di Gesù Cristo.

Un articolo del prof. Douglas Farrow che commenta l’ultima enciclica di Papa Francesco, Fratelli tutti. L’articolo è apparso su Catholic World Report, e ve lo propongo nella mia traduzione. 

 

Raffaello, San Paolo parla agli ateniesi, 1517-1519, arazzo

 

La Dichiarazione di Abu Dhabi, il “Documento sulla Fraternità umana per la pace nel mondo e la convivenza” dell’anno scorso, è stata una nota fonte di controversie nella Chiesa cattolica. Ora è sostenuta dalla nuova enciclica di Papa Francesco, Fratelli tutti, nella quale si persegue l’auspicio del Pontefice che l’aspirazione alla fraternità universale e all’amicizia sociale rinasca tra le persone di buona volontà.

La Dichiarazione stessa si trova in primo piano nella sezione conclusiva dell’enciclica, dove si ribadisce che “un cammino di pace è possibile tra le religioni”. A questa affermazione se ne aggiunge un’altra: che il “punto di partenza del viaggio deve essere il modo di vedere delle cose di Dio” (§281). Questa gradita aggiunta non sederà però in alcun modo la polemica, perché sembrerebbe implicare che il modo di vedere di Dio, almeno per quanto riguarda i fondamenti della pace, sia accessibile all’uomo in generale; anzi, che le religioni non illuminate dall’alleanza tra Dio e l’uomo in Gesù Cristo – anche le religioni che rifiutano quell’alleanza – siano comunque capaci di cogliere e trasmettere il modo di vedere di Dio e di agire su ciò che vedono. L’unica condizione è che “senza un’apertura al Padre di tutti, non ci saranno ragioni solide e stabili per un appello alla fraternità” (§272).

A sostegno di questa condizione, Francesco invoca la Caritas in veritate, dove al §19 Benedetto XVI osserva che “La ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità”. Bisogna però osservare che Benedetto, da parte sua, ha già ancorato il suo appello alla fraternità nella carità che nasce dalla grazia. “La sua fonte è la sorgente dell’amore del Padre per il Figlio, nello Spirito Santo. L’amore ci viene dal Figlio” (CV 5). E Benedetto lo avverte ancora una volta nel paragrafo in questione (CV 19).

In Fratelli tutti non esiste un’ancora cristologica del genere. L’appello è strettamente all’opera di Dio come creatore e sostenitore del mondo, e non al suo eterno generarsi del Figlio o al dono del Figlio incarnato come uomo tra gli uomini, attraverso il quale è mediata la conoscenza del Padre e del modo di vedere di Dio. Il testo più cruciale dei Vangeli sinottici, Matteo 11,27 e simili – il testo così fortemente esposto dall’intero Vangelo di Giovanni – non compare nell’enciclica. La stessa parola “Figlio” non appare. Né appare il Nome divino, il Nome trinitario usato nel battesimo, anche se le parole “Trinità dell’amore” appaiono, alla fine, in “Una preghiera cristiana ecumenica” che segue una “Preghiera al Creatore” universale.

La considerazione della “fraternità che il Padre comune ci chiede” (§46), quindi, è lasciata interamente all’ordine della creazione senza attenzione al Figlio incarnato che è al centro di quell’ordine, attraverso il quale è anche redento (Col. 1, 15ss.). In Fratelli tutti “lo splendido segreto che ci mostra come sognare e trasformare la nostra vita in una meravigliosa avventura” non è il segreto della conoscenza del Figlio da parte del Padre e della conoscenza unica – e altrimenti inaccessibile – del Figlio del Padre. È una proprietà comune dell’uomo qua uomo anche senza riferimento a Gesù Cristo. “Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!” (§8).

L’enciclica ci rimanda a Gesù, ma solo come maestro e modello. Ci viene ricordato, per esempio, che “Gesù non ha mai promosso la violenza o l’intolleranza”. (Curiosamente, la sua pulizia del tempio con la frusta non viene menzionata, mentre il suo detto “non la pace, ma una spada” viene spiegato con attenzione). Anche l’omonimo del papa viene offerto come modello, sebbene in un modo che è stato giustamente criticato come fuorviante. Come osserva Samuel Gregg, il lettore disinformato non indovinerebbe mai la vera natura dell’incontro di san Francesco con il sultano Malik-El-Kamil, che nei paragrafi iniziali di Fratelli tutti non viene presentato come l’audace ed estremamente rischiosa impresa missionaria che fu, ma piuttosto come un’illustrazione dell’elusione dei conflitti attraverso la “sottomissione fraterna”.

Sarà fatto notare che questa enciclica sociale (che, come la precedente, è formalmente rivolta a nessuno e materialmente a tutti) non dovrebbe essere tenuta secondo i canoni delle encicliche dedicate direttamente alla Chiesa. Se essa ispira “persone di buona volontà” nella loro ricerca della pace sulla terra, non ha forse svolto il suo giusto lavoro? Eppure sembra che si stia formando un consenso sul fatto che questa lunga enciclica riassuma l’intero progetto di questo pontificato. La controreplica arriverà: Davvero? Francesco stesso la vede in questa luce? Egli nega, in fondo, che egli stia cercando di “offrire un insegnamento completo sull’amore fraterno”; cerca solo di considerare la sua portata universale, la sua apertura ad ogni uomo e donna” (§6). Ma forse è proprio questo il progetto del suo pontificato: dire e dimostrare che l’autentico amore fraterno non è altro che un amore particolare e universale, allo stesso tempo locale e globale.

Se è così, cosa dire di questo progetto Francescano? Come Paolo tra i pagani sulla collina di Marte, Francesco parla del fatto che tutti gli uomini sono in un certo senso “figli di Dio” (At 17,29), che devono quindi essere rispettati e trattati come tali. Chiunque si apra a Dio vedrà che deve cercare di fare proprio questo. A differenza di Paolo, però, Francesco non continua a parlare del fatto che la sollecitudine di Dio per l’uomo è finalizzata a unire gli esseri umani a sé stessi in Gesù Cristo. Né, nella presente enciclica, ci viene dato alcun accenno al fatto che Dio, avendo prima “trascurato i tempi dell’ignoranza…, ora comanda a tutti gli uomini di tutto il mondo di pentirsi, perché ha fissato un giorno in cui giudicherà il mondo in giustizia da un uomo da lui designato” (At 17,30s.). Francesco ci indica, a volte in modo abbastanza eloquente, le vie della pace sulla terra, ma non annuncia il vangelo del regno, né proclama la buona novella che questo regno è già stato aperto all’uomo attraverso l’opera salvifica di Gesù Cristo. Egli non si impegna, come Paolo, a spiegare o a presentare il Cristo.

Francesco parla del vangelo cristiano come della fonte delle sue convinzioni. “Altri bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo. Da esso «scaturisce per il pensiero cristiano e per l’azione della Chiesa il primato dato alla relazione, all’incontro con il mistero sacro dell’altro, alla comunione universale con l’umanità intera come vocazione di tutti»”. (§277). Ma, così facendo, si accontenta di lasciare da parte il contenuto effettivo di questo vangelo e di interpretarne le implicazioni pubbliche in questi termini molto astratti – termini che avrebbero certamente sconcertato Paolo, che come San Pietro pensava che il vangelo fosse “più prezioso dell’oro”, anche l’oro politico dell’amicizia sociale e della fraternità umana che migliora la vita in questa valle di lacrime. Non ho dubbi che questa astrazione avrebbe lasciato perplesso anche Leone XIII, il fondatore della moderna tradizione dell’enciclica sociale che non merita una sola menzione in più di 40.000 parole; da parte sua, Leone ha sempre lasciato cadere le ancore cristologiche (come alla Rerum novarum 21ss., per esempio).

Poiché ogni vescovo, e soprattutto il vescovo di Roma, condivide con gli apostoli un ufficio divino per far sì che “la Parola di Dio sia pienamente conosciuta” (Col 1,25), abbiamo ragione di chiederci se sia possibile prescindere dal compito di offrire un insegnamento più o meno completo sull’amore fraterno per concentrarsi solo sulla sua portata, sulla sua universalità di principio. Se infatti Fratelli tutti ci viene consegnato a titolo di ricapitolazione, non solo della Dichiarazione di Abu Dhabi ma anche del ministero didattico di questo pontificato, dobbiamo chiederci se abbiamo ricevuto finora solo la prima metà di essa. Possiamo aspettarci un seguito in cui il compito apostolico sia completato da un accurato resoconto dell’amore e della giustizia e della potenza di Dio in Gesù Cristo, un seguito in cui riappaia lo scandalo della particolarità? Oppure dobbiamo ammettere che l’impressione lasciata dalla conclusione dell’enciclica “Preghiera al Creatore” è l’impressione che Francesco intende lasciare, e si accontenta di lasciare, come impressione più o meno definitiva? Sicuramente no! Perché in questo caso il Vescovo di Roma sembrerebbe semplicemente riecheggiare il messaggio di Adolf von Harnack in Che cos’è il cristianesimo? – il messaggio che, nel suo nucleo, il cristianesimo, è semplicemente una forma di vita che esprime la paternità universale di Dio e la fratellanza dell’uomo.

Chi è di parere opposto, supponendo che il pontefice farebbe bene a lasciare le cose come stanno ora, ricordi che Harnack, lo stimato professore di Berlino che ha contribuito a trasformare il cristianesimo protestante in un programma sociale per la pace sulla terra tra persone di buona volontà, è lo stesso uomo che ha contribuito a redigere il discorso del Kaiser Wilhelm del 4 agosto 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale. Da quella scelta disastrosa, per fortuna, è venuto questo unico bene: il suo ex allievo, il giovane Karl Barth, fu abbastanza inorridito da svegliarsi dal suo “sonno dogmatico” e da condurre una parte vitale del mondo protestante a “ricominciare tutto da capo, con Gesù Cristo”. Fu in onore delle sue fatiche a tal fine che Barth fu invitato, una cinquantina d’anni dopo, a diventare osservatore al Vaticano II, anche se la cattiva salute glielo impedì.

Più di qualche cattolico vorrebbe vedere papa Francesco, nonostante la sua età, seguire la guida di Barth, per così dire, piuttosto che quella di Harnack. Alcuni vorrebbero addirittura vederlo emulare Gesù usando la frusta per purificare le circoscrizioni vaticane da tutti coloro che hanno scambiato il vangelo di Gesù Cristo con un altro vangelo o che con il loro stile di vita hanno rinnegato il Signore che li ha comprati. Ci possono essere poche ragioni per aspettarsi tali sviluppi, nonostante la recente destituzione del Cardinale Becciu. Ma prima o poi ci devono essere tali sviluppi, perché il cristianesimo cattolico non è e non può essere una religione della paternità universale di Dio e della fratellanza dell’uomo – non senza le qualifiche cristologiche ed escatologiche fornite da Paolo sulla collina di Marte e da Agostino nella Città di Dio. Perché ci sono nel saeculum due città, non una, due fraternità, non una. Passare sopra a questo (come ho fatto notare quando è apparsa la Caritas) non è costruire fraternità, ma cuocere mattoni per Babele.

Il cristianesimo cattolico è la religione, appunto la religione, propugnata da Paolo sulla collina di Marte: una religione generosa e accogliente e sollecita, sì; una religione di pace e di disponibilità al dialogo, una religione che collabora con la divina provvidenza nella cura dei popoli e delle nazioni; ma sempre e comunque anche una religione che proclama, apertamente e senza accenni di imbarazzo, che ciò che i popoli del mondo hanno più bisogno di sapere è che Cristo è morto, Cristo è risorto, Cristo tornerà.

Questo è ciò che ogni messa attesta. Questo è ciò che Paolo ha detto agli stoici e agli epicurei. Questo è ciò che san Francesco disse al Sultano e ciò che papa Francesco dovrebbe dire al Grande Imam, se non l’ha già fatto. Questo è ciò che dovremmo dire ai nostri vicini, oltre che mostrare ai nostri vicini. Perché non c’è altro modo di essere fratello o sorella di nessuno, cristianamente parlando, se non quello di mostrare e raccontare. Se il globale e il locale, “la fraternità universale e l’amicizia sociale”, sono “due poli inseparabili e ugualmente vitali” (§142), così pure, sia localmente che globalmente, si mostrano e si raccontano. Anche qui – qui molto più certamente! – dobbiamo dire che “separarli significherebbe sfigurare ciascuno di essi e creare una pericolosa polarizzazione”.

Perché? Perché, come insisteva la Gaudium et Spes, ponendo la propria ancora cristologica al §22, “la verità è che solo nel mistero del Verbo incarnato il mistero dell’uomo prende luce”.

 

Douglas Farrow è professore di Teologia e pensiero cristiano alla McGill University, e autore di diversi libri tra cui Theological Negotiations: Proposte in Soteriologia e Antropologia (Baker Academic, 2018) e un nuovo commento sui Tessalonicesi (Brazos, 2020).

Di Sabino Paciolla|