Il Papa sfida Trump: il vescovo anti-sovranista sarà cardinale
Wilton Daniel Gregory non è un alto ecclesiastico qualunque: l’arcivescovo di Washington è apertamente schierato dal lato del Partito Democratico. Questo è vero almeno in relazione alle imminenti elezioni presidenziali statunitensi. Quelle in cui si affronteranno il candidato dei Repubblicani Donald Trump e quello dei Democratici Joe Biden. Papa Francesco, in un certo senso, ha optato per una mossa politica o comunque per una scelta che può influire, in termini di messaggio indirizzato agli elettori cattolici, all’interno di un quadro polarizzato come quello che distingue l’opinione pubblica americana: Gregory a breve diventerà un cardinale della Chiesa cattolica.
Molto di questa storia è iniziato quando il cardinal Raymond Leo Burke ha attaccato l’ex vice di Barack Obama, segnalando come le posizioni abortiste non possano garantire accesso all’eucaristia. In sintesi Biden, per il “fronte conservatore”, non dovrebbe poter accedere alla comunione. Gregory è tra i consacrati che non la pensano così. Anzi, l’arcivescovo di Washington, che è succeduto al dimissionario Donald Wuerl (progressista ed a sua volta successore di “Zio Ted”, lo scardinalato per abusi Theodore McCarrick), è un progressista a tutto tondo. Certo, il futuro cardinale non è l’unico consacrato a propendere per Biden, ma il suo ruolo – arcivescovo della diocesi che copre il territorio della capitale americana – è davvero rilevante tra le gerarchie ecclesiastiche statunitensi.
Un altro consacrato che si sta distinguendo per prossimità a Biden durante questa campagna elettorale è James Martin, gesuita e consultore per la segreteria per la Comunicazione della Santa Sede. Non si tratta tanto di sostenere il “campione” degli asinelli, quanto di invitare la base dei fedeli a non votare per Trump. La Chiesa cattolica americana, in buona sostanza, è divisa sul da farsi all’appuntamento elettorale. E Gregory è uno di quelli che non è incline a favorire una conferma di Donald Trump. Il combinato disposto tra la frase sull’apertura alle unioni civili e la nomina di Gregoy a porporato fa sì che anche papa Francesco, in qualche modo, possa essere collocato in vista delle elezioni del 4 novembre. Bergoglio – come ogni pontefice – non fa politica, ma le decisioni che un vescovo di Roma prende possono non essere neutrali. E questo della nomina di Gregory alla soglia delle presidenziali non è un’opzione priva di effetti.
L’arcivescovo Wilton Daniel Gregory è peraltro il primo cardinale afro-americano della storia degli Usa. E questo è un altro fattore da tenere in considerazione. Se non altro perché il tema delle minoranze è stato al centro dell’intera campagna elettorale e di tutta la durata del mandato di Trump. L’Ecclesia è sempre più spaccata al suo interno. Le elezioni americane costituiscono uno spartiacque anche per il peso delle gerarchie sulla base: nel caso in cui il presidente in carica dovesse essere confermato, per esempio, i porporati cattolici dimostrerebbero di avere un peso decisivo in terra americane. Se Trump dovesse sparire dal consesso politico, di rimando, i progressisti avrebbero allora strada libera per portare avanti la loro idea di mondo, con il multilateralismo, il “migrazionismo”, il favour alle istanze della comunità Lgbt e così via. La sensazione insomma è che la sfida del 4 novembre possa contribuire anche ad una “resa dei conti” anche tra le varie correnti dottrinali che animano il contesto ecclesiastico.
In gioco non c’è soltanto il destino della Casa Bianca, ma anche la capacità della Chiesa di contribuire a sviluppare il mondo secondo i criteri pastorali individuati in questo ultimo periodo. Non è un mistero che l’approccio di Trump sul tema dei migranti, per esempio, non sia lo stesso che viene predicato dalla finestra di piazza San Pietro. Come se non bastasse, c’è anche l’annoso tema del rapporto tra l’Occidente ed il “dragone”: il Vaticano ha da poco annunciato il rinnovo dell’accordo bilaterale per la nomina dei vescovi con la Cina. Poco prima che questo avvenisse, il segretario di Stato Usa Mike Pomepo aveva domandato alla Santa Sede di non contrarre quel patto, per evitare di perdere l'”autorità morale” sul mondo. Pompeo ha anche viaggiato in direzione di Roma, senza essere tuttavia ricevuto da papa Francesco.
26 OTTOBRE 2020
« La clamorosa ingerenza di Bergoglio nelle presidenziali USA: contro Trump e per l’abortista Biden » di Antonio Socci
Proprio stamani Bergoglio ha annunciato la creazione di 13 nuovi cardinali (di cui 9 elettori). Sono tutti ultra bergogliani. La frettolosa scelta dei tempi, alla vigilia del voto Usa, è significativa: Trump è in forte rimonta e ora il Vaticano bergogliano teme fortemente che possa vincere ancora. A Trump Bergoglio, con tutto l’establishment globalista, ha dichiarato guerra totale.
Se Trump dovesse davvero vincere, questo pontificato, già al tramonto, sarebbe di fatto finito, essendosi schiacciato sulla Cina e totalmente screditato. Nello spot elettorale pro Biden di cui parlo nell’articolo, proprio sul finale, viene lanciato platealmente il card. Tagle come colui che Bergoglio vuole come suo successore. Tutto è esplicito. Con i nuovi cardinali Bergoglio vuole assicurarsi il risultato del prossimo Conclave.
* * *
Il docufilm “Francesco” ha fatto enorme clamore per il “sì” papale alle unioni civili per le coppie gay. Ma era questo era lo scopo principale?
Non proprio. Di sicuro era intenzione del Vaticano dare il massimo risalto a questo prodotto. Infatti mercoledì scorso, prima dell’Udienza generale, papa Bergoglio ha ricevuto – con tanto di fotografi – il regista Evgeny Afineevsky e i suoi collaboratori “dando così la sua benedizione al lavoro”, come scrive il “Fatto quotidiano”, in un clima di tale familiarità che il papa argentino ha addirittura offerto una torta al regista visto che era il suo compleanno.
Poi, il giorno dopo, c’è stata la presentazione del documentario apologetico alla Festa del cinema di Roma, diretta da Antonio Monda, fratello del direttore dell’Osservatore Romano, Andrea (presente in sala), e la premiazione del film nei Giardini Vaticani, dove ha ricevuto il Premio “Kinéo Movie for Humanity Award”, assegnato a chi promuove temi sociali e umanitari.
Ma quale obiettivo si perseguiva? Quello palese era lo scopo autocelebrativo: papa Bergoglio è assetato di popolarità e di consenso mondano, specialmente oggi che il suo pontificato è in ribasso e – a sentire i suoi stessi sostenitori – si è totalmente impantanato (basti considerare il Sinodo sull’Amazzonia e quello tedesco). Soprattutto vuole recuperare il favore mondano in queste settimane in cui il suo Vaticano è al centro di notizie scandalistiche che mostrano – anche sul lato della riforma interna – il fallimento dell’attuale pontificato.
L’esca che è stata usata, per avere il maggior risalto possibile e ottenere il grande e unanime plauso dei media mainstream e delle élite progressiste, è stato il clamoroso segnale sulla questione omosessuale.
Era risaputo che Bergoglio – da cardinale di Buenos Aires – era stato a favore delle “unioni civili” in Argentina. E sappiamo che, come papa, ha “orientato nel 2015 e nel 2016 la posizione della Conferenza episcopale italiana sulla legge voluta dal governo italiano di Matteo Renzi, accettandone la formulazione” (lo scrive Maria Antonietta Calabrò sull’Huffington post).
Mai però aveva fatto un pronunciamento pubblico esplicito così, perché contraddice il magistero ufficiale, di sempre, della Chiesa. La novità dunque è enorme.
A Sinistra, in Italia, c’è chi l’ha interpretato addirittura come un segnale positivo per l’approvazione del Ddl Zan (che secondo la Cei rischia“derive liberticide” contro le opinioni non allineate).
L’esternazione papale ha gettato il mondo cattolico nello sconcerto e nella confusione. Ma di questo Bergoglio non si preoccupa. Per lui le questioni dottrinali o morali o spirituali servono solo strumentalmente per raggiungere uno scopo che è sempre, solo e totalmente politico.
Il recente libro del professor Loris Zanatta, uscito da Laterza, “Il populismo gesuita (Peron, Fidel, Bergoglio)”, mostra benissimo la natura tutta politica del gesuitismo sudamericano e di Bergoglio in particolare.
Dunque qual era il principale scopo politico di questa operazione? Il bersaglio più grosso, quello contro cui tutto il sistema mediatico e le élite globaliste sono scatenate: Donald Trump.
E’ lui che mina il progetto obamiano e clintoniano che, nella forsennata finanziarizzazione dell’economia occidentale, impose la Cina come fabbrica del mondo, a spese del ceto medio e dei lavoratori occidentali (e curiosamente l’attacco più micidiale alla riconferma di Trump – che era sicura a gennaio – gli è arrivato proprio dalla Cina: il Covid 19).
Il pontificato di Bergoglio è figlio dell’epoca Obama/Clinton e condivide la loro ideologia globalista, dentro cui c’è migrazionismo e fanatismo ecologista. L’eventuale riconferma di Trump sarebbe un colpo durissimo per questa ideologia e per questo blocco di potere.
Così stanno scatenando il finimondo e anche Bergoglio partecipa alla campagna anti Trump perché l’elettorato cattolico americano è decisivo. Così, a pochi giorni dal voto, è stato lanciato questo incredibile super spot a favore di Biden.
Basta vedere il trailer del film. Infatti comincia con il Covid in chiave ecologista, perché nell’ideologia bergogliana il virus sarebbe un prodotto non del regime cinese, ma delle nostre offese all’ambiente (ci sono pure le immagini del terremoto che non si sa cosa c’entri con l’ecologia).
Poi c’è la glorificazione di Bergoglio come divo mondiale, “purificatore” della Chiesa e “salvatore” dell’umanità. Ed ecco immagini scelte ad hoc: quelle relative a George Floyd (il cui tragico caso è stato usato immotivatamente contro Trump); quindi “casualmente” spunta l’attuale candidato Dem, Biden, che è accanto a Bergoglio mentre parla al Congresso americano. Infine è la volta della “profetessa” della religione ecologista, Greta Thunberg, inquadrata in Piazza San Pietro mentre saluta Bergoglio.
A questo punto inizia un lungo comizio migrazionista che culmina sul muro fra Usa e Messico. Qui appare l’immagine di Trump e si sentono le parole di fuoco di Bergoglio che tuona: “una persona che pensa solo a fare muri e non fare ponti non è cristiano”.
E’ il famoso attacco a Trump che Bergoglio fece nella campagna elettorale del 2016. E’ riproposto oggi in questo trailer “elettorale” nonostante sia noto che il muro col Messico lo abbiano voluto (anche) i Dem e soprattutto dopo quattro anni in cui Trump, a differenze dei predecessori, non ha fatto neanche una guerra e ha realizzato molti accordi di pace nel mondo. Alla fine appare il card. Tagle (filippino di origini cinesi) che è il candidato di Bergoglio alla sua successione.
Questa la clamorosa intrusione di Bergoglio nella campagna presidenziale, a dieci giorni dal voto. Come si ricorderà giorni fa Bergoglio si rifiutò di ricevere il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, arrivato a Roma per scongiurare il rinnovo dell’accordo Vaticano/Cina, perché – fece sapere Bergoglio – sarebbe stata un’interferenza a favore di Trump nella campagna presidenziale.
Lui – che nel frattempo ha rinnovato il nefasto accordo con la Cina – aveva in serbo un clamoroso comizio: pro Biden.
Antonio Socci
Da “Libero”, 25 ottobre 2020
Sito: “Lo Straniero”
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Twitter: @Antonio Socci1
MALTA, I NUOVI CARDINALI. UN PERICOLO PER IL FUTURO DELL’ORDINE.
26 Ottobre 2020 2 Commenti
Marco Tosatti
Cari amici e nemici di Stilum Curiae, l’odierno annuncio della nuova infornata di berrette cardinalizie per il prossimo 28 novembre conferma spiacevolmente il clima preoccupante in cui viviamo e l’elenco dei nuovi 13 porporati non rassicura affatto. Ne abbiamo parlato con un amico bene addentro alle cose di Chiesa, e anche a quelle del Sovrano Militare Ordine di Malta, che il 7 novembre prossimo dovrà iniziare le procedure per l’elezione del nuovo Gran Maestro, e vi offriamo i risultati di questa conversazione, da cui abbiamo appreso non poche cose. Buona lettura.
Al di là del dato di politica interna ecclesiastica, al di là di quelli che più che “nomi” sono “nomignoli”, è certo che su queste promozioni ai vertici della Chiesa Cattolica ci sarebbe molto da discutere, e ciascuno meriterebbe una trattazione autonoma, caso per caso: si guardi, ad esempio, al fedelissimo segugio Marcellino Semeraro, che ora raggiunge la tanto pazientemente tessuta porpora; o al chiacchierato Mauro Gambetti, Guardiano del Sacro Convento di Assisi, contemplato di recente a far da accolito a Bergoglio nella sua ultima trasferta picconatrice delle verità di fede; o al maltese Mario Grech, pedissequo esecutore delle volontà sovrane al Sinodo dei Vescovi, potenziato da Francesco come suo braccio armato mercenario.
Confermati trombati il Patriarca di Venezia (Moraglia), l’Arcivescovo di Milano (Delpini), l’Arcivescovo di Torino (Nosiglia), e soprattutto l’inesausto Fisichella, che può serenamente constatare che cambiare casacca non sempre paga.
Ma, al di là del dato geografico e anagrafico, che risulta essere in linea di massima abbastanza coerente con la solita forzatura di questi ultimi concistori coi quali Bergoglio rintuzza l’organo che sarà chiamato a scegliere il suo successore, c’è subito da notare che tra i nuovi cardinali la quasi totalità è super allineata e super fedele alla linea della politica del sovrano: non si premia, dunque, la persona, i suoi meriti o l’incarico che ricopre (fatto salvo – formalmente – per Semeraro e per altri cinque arcivescovi residenziali) ma la fedeltà o l’allineamento allo stile di governo, come nel caso di Augusto Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena ma sostanzialmente vessillifero della sciatta chiesa filoimmigrazionista da Francesco promosso in tempi rapidi prima ad ausiliare di Roma e poi a Siena… il suo motto episcopale è “Mihi fecistis”: una dedica grata, probabilmente più umana che celeste.
Nomine comunque di scarso valore qualitativo, se non fosse, appunto, per la fedeltà al sovrano, che di certo non si può dire sia affetto da quella sindrome dell’inefficienza che ha contraddistinto il predecessore dimissionario, anzi. La progressiva costruzione della sua successione e la ricomposizione del Collegio Cardinalizio la dicono lunga sulle sue capacità pragmatiche, nonostante sia sostanzialmente un irruento, un imprudente, e dunque facilmente incline a sbagliar tiro (come si legge nelle succose pagine dell’ultimo libro di Massimo Franco “L’enigma Bergoglio”). Ma tolto il dato psicologico del regnante, è comunque indubbio che quasi tutte le porpore bergogliane (fatta eccezione per alcuni pochissimi creati solo perché non si poteva fare altrimenti) siano comunque appendici di sé stesso. Certo, non è così indubbia la fedeltà post-mortem, perché si sa che “avuta la grazia, gabbato lo santo”, ma di questi tempi volano anche le berrette e dunque finché il potere è manovrato dal secondo piano di Santa Marta c’è poco da sperare. D’altra parte, come si diceva, la qualità dei nuovi è oggettivamente mediocre, e comunque abbastanza intrisa di ideologismi e devianze teologiche per poter immaginare in un mutamento di rotta.
A ciò si aggiunga che se è vero che ad oggi i quattro concistori di Francesco riequilibrano il numero degli elettori (considerati anche quelli che compiranno 80 anni entro l’anno) non è altrettanto vero che il Collegio risulti ben amalgamato, poiché tra loro i porporati non si conoscono, in quanto lo stesso papa che va dicendo al mondo che il dialogo è importante e che siamo tutti fratelli e che bisogna essere buoni etc etc etc non ha mai, dico mai!, consentito che al concistoro pubblico seguissero le riunioni dei cardinali che ordinariamente si sono sempre svolte a margine delle cerimonie di conferimento della berretta. Dunque, pur componendo lo stesso collegio (un organo che il diritto canonico considera “di eguali”), tra loro non vi è alcuna comunicazione né alcuna occasione di incontro, di confronto, di studio, di approfondimento. È come se i componenti di un CDA (tanto ormai i paragoni col mondo dell’economia hanno smesso di essere inappropriati) non si incontrassero mai e si conoscessero solo per sentito dire. Evidentemente il papa non gradisce che i suoi cardinali si conoscano… e la cosa è normale. No?
Comunque, tornando ai nuovi “principi della Chiesa” (o che tali dovrebbero essere), tra gli ottuagenari (e dunque non elettori) “creati”, insieme all’ignoto Felice Arizmendi Esquivel, emerito di San Cristobal de las Casas in Messico, spiccano l’attuale Rettore del Santuario del Divino Amore don Enrico Feroci, già direttore della Caritas diocesana di Roma (e ci risiamo!), il telegenico p. Raniero Cantalamessa, cappuccino e predicatore della Casa Pontificia (lo stesso che lo scorso venerdì santo disse che il virus covid-19 non c’entra niente col Creatore) e, udite udite, mons. Silvano Tomasi, nunzio apostolico a riposo e già Osservatore della S. Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra.
Sorvolando sugli altri (per doveri di carità più che altro), motivi di giustizia ci impongono una riflessione sulla scelta di dare la berretta rossa a mons. Tomasi, poiché la questione sembra legare ancora le vicende di Oltretevere con quelle dell’Ordine di Malta. Se ben ricorderete, ci siamo già occupati di lui perché l’immarcescibile prelato, intimo amico del card. Parolin – che con altissima probabilità ne avrà sponsorizzato la promozione – in fin dei conti è un maneggione di prima classe. Lo era quando svolgeva il suo “servizio” a Ginevra occupandosi non certo di negoziati umanitari né di conversione di calvinisti, ma trattando questioni economiche di significative rilevanza alla stregua di un faccendiere; e ha continuato ad avere le mani in pasta quando lo stesso Parolin lo (pro)pose a capo della commissione d’inchiesta sull’operato dell’allora Gran Maestro fra’ Matthew Festing, finché il fido Tomasi non sistemò le cose in modo tale da liquidare, in un sol colpo, il capo dell’Ordine e il Cardinal Patrono Burke, facendo bingo.
In un nostro recente articolo ricordavamo un po’ le scorribande del monsignore-faccendiere, e, cogliendo i suggerimenti di voci amiche, ci premuravamo a far presente che la sua sempre più probabile nomina a Delegato Speciale presso l’Ordine per rimpiazzare Becciu sarebbe stata quantomeno azzardata, visto e considerato che Tomasi aveva avuto larghissima responsabilità nell’affaire del trust di oltre una centinaia di milioni di euro (120 per l’esattezza) nel quale, sotto insistenza dell’attuale Gran Cancelliere Boeselager, l’Ordine avrebbe investito, facendo dunque guadagnare chi dell’operazione aveva avuto la paternità, cioè lo stesso Tomasi in primis, in quanto presidente della fondazione “Caritas in Veritate” destinataria di parte cospicua di quella sommetta di bruscolini. Avevamo fatto notare che il Tomasi, da controllato si era trasformato in controllore, e dunque la ventilata successione a Delegato Speciale del Papa presso l’Ordine sarebbe fatale, in una fase così delicata come quella che lo SMOM sta attraversando, fatta di pseudo-riforme e lotte intestine tra chi ne difende la natura religiosa e chi, al contrario, vorrebbe laicizzarlo sempre più trasformandolo in una ONG; anche perché non sono certo un mistero le connivenze tra Tomasi e i fratelli Boeselager, uno dei quali è consigliere dello IOR (toh!).
L’annuncio di oggi, però, che ci informa del conferimento della porpora anche Tomasi non lascia molto spazio all’immaginazione; e se prima la successione a Becciu poteva apparire principalmente un’ipotesi – anche a ragione del campo libero di cui il Segretario di Stato Parolin gode presso Francesco una volta tolto di mezzo Becciu, nominato già presso l’Ordine ancor prima di diventare cardinale proprio in ragione di una fiducia molto stretta tra lui e il papa e onde evitare “passaggi” che avrebbero potuto falsare le notizie – ad oggi ogni dubbio appare fugato, e si aspetta di qui a poco la nomina almeno a Delegato Speciale, visto che finora Bergoglio non ha mai avuto il coraggio di rimuovere formalmente Burke dal suo incarico di “Cardinalis Patronus”.
Se così andranno le cose, l’Ordine avrebbe buon motivo di temere per la sua incolumità, poiché non ci sarebbe ragione di ipotizzare che Tomasi riesca a fare gli interessi della S. Sede prima di quelli suoi e dei suoi compagni di merende che attualmente gestiscono tutto il governo dell’Ordine e che, di fatto, tengono in pugno l’intera istituzione con un sistema clientelare blindato in cui l’azione di resistenza è considerata insubordinazione.
È evidente che Tomasi farebbe il doppio gioco (come sempre ha fatto nella sua carriera peraltro di modesto nunzio ma di grande manipolatore di cose e persone) e farebbe sì che passi in avanti la linea tedesca di riforma dell’Ordine, indifferente probabilmente al fatto che più l’Ordine si laicizzerà più sfuggirà al controllo della Santa Sede, e dunque potrebbe mettere a repentaglio la stessa struttura istituzionale oggi esistente solo grazie al nucleo dei religiosi professi, che costituisce l’unica ragion d’essere della sovranità ancor oggi riconosciuta a questa plurisecolare istituzione. In altre parole (così come ci hanno spiegato addetti ai lavori) se si privasse o depotenziasse l’Ordine della natura religiosa – motivo per il quale la Santa Sede offre garanzie diplomatiche di soggettività internazionale – verrebbe meno la natura della sovranità di quella che, anche dal diritto internazionale, è considerata una “Persona mixta”, cioè un ente la cui soggettività (=sovranità e autonomia) è collegata alla sua natura religiosa, e da essa non può prescindere.
L’ipotesi per la quale Tomasi potrebbe diventare il nuovo Delegato Speciale del Papa presso l’Ordine è più che concreta, anche perché i tempi stringono, e per i prossimi 7-8 novembre è convocato a Roma il Consiglio Compìto di Stato che sarà chiamato ad eleggere il successore di Fra’ Giacomo Dalla Torre, scomparso lo scorso aprile, e la legge dell’Ordine dispone che il giuramento del neo eletto (Gran Maestro o Luogotenente di Gran Maestro che sia) avvenga nelle mani di un rappresentante del Papa (che ordinariamente il Cardinale Patrono, ma che è sostituito dal Delegato Speciale, come già avvenuto per Dalla Torre). Pertanto entro il 7 novembre papa Francesco dovrebbe comunque provvedere a nominare qualcuno, e l’annuncio della porpora a Tomasi non sembra un caso, rendendolo ancora più papabile all’assunzione del ruolo.
Molti gli interrogativi sulla persona, moltissime le perplessità sui suoi oscuri e meno oscuri legami con le gerarchie di governo dell’Ordine, specie per quanto attiene ai suoi traffici economici e alla sua compromissione in certi affari non del tutto limpidi.
Tomasi, infatti, potrebbe assai facilmente far carta straccia del lavoro della commissione costituita da Becciu perché rivedesse le bozze di lavoro presentate dal governo di Via Condotti, strizzare l’occhio ai vecchi amici e far sì anzitutto che procedano all’elezione di un candidato allineato (che tutti identificano nell’italiano fra’ Marco Luzzago, che mai ha avuto esperienze di governo, nemmeno locali, e che quindi sarebbe un soggetto facilmente manovrabile) e che pertanto si approvi un progetto di riforma caotico e incerto di cui i membri dell’Ordine (o almeno alcuni superiori) hanno avuto modo di leggere le “linee guida” in delle comunicazioni di recente diffusione interna. Un progetto di riforma che di fatto “non riforma” l’Ordine religioso dandogli nuova linfa – non una riga, infatti, è spesa per l’incremento della pastorale vocazionale o per la risoluzione dell’annosa questione del sostentamento dei membri religiosi – ma lo trasforma in un ente prettamente assistenzialista (riducendo la vocazione religiosa ad un funzionalismo strumentale da personale ospedaliero), mortificato in un tratto distintivo quale quello della nobiltà (il cui requisito viene sostanzialmente ridotto a essere un mero elemento anacronistico) e soprattutto “costituzionalizzato”, ma non in un ottica di più ampia rappresentatività, bensì solo mediante la riduzione dei margini di autonomia sovrana del Gran Maestro. A tal proposito si noti, infatti, che uno dei punti enunciati nelle lettere diffuse riferisce che il ruolo del Gran Maestro – di cui emerge un profilo giuridico e canonico assai incerto – verrà “costituzionalizzato” ma subordinato, di fatto, alla volontà del Sovrano Consiglio (che sarebbe l’Esecutivo dell’Ordine), eliminando la possibilità, ad esempio, che egli possa porre un veto sulle decisioni dell’organo di governo, cosa che è stata sempre limitata all’approvazione dei bilanci.
Singolare decisione questa proposta, se consideriamo che il “caso Festing” iniziò proprio perché il Gran Maestro, non vedendoci chiaro nel bilancio sottopostogli con la benedizione di Boeselager nel quale comparivano i soldi destinati al trust sponsorizzato da Tomasi, pose il veto sull’approvazione e incaricò la Promontory Financial Group di approfondire la questione; e quella società, ritrovando irregolarità, diede pezze d’appoggio a Festing per dimettere Boeselager da Gran Cancelliere. Se tanto ci da tanto, se la commissione d’inchiesta vaticana sull’argomento fosse stata affidata ad una persona diversa da Tomasi, probabilmente Festing sarebbe ancora al suo posto e l’ordine godrebbe di buona salute. Ma così non è stato. E anzi qualcuno (Tomasi, per il tramite di Parolin) si premurò a far emettere al papa un documento di assai dubbio valore giuridico col quale si annullavano i provvedimenti dell’ultimo mese di governo di Festing, tra cui naturalmente la dimissione dell’amico barone tedesco. E i conti tornano, in tutti sensi.
Intanto siamo certi che già in queste ore Tomasi si stia sfregando le mani ardendo di essere nuovamente burattinaio delle vicende dell’Ordine di Malta, probabilmente anche per riprendersi le sue rivincite personali, stavolta nei panni di un novello – sebbene caricaturale – cardinal Canali.
D’altra parte, lo stesso qualche giorno fa sulle pagine di Repubblica non esitava a tornare alla ribalta della cronaca dando lezioni di moralità sul caso Becciu: il bue che dice cornuto all’asino.
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