“Non ci indurre in tentazione”: se i vescovi leggessero la Commedia … (#Dante, Purgatorio, canto XI, vv. 4-24)
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Il bellissimo “Padre Nostro pregato” di Dante prosegue, dopo l’iniziale contemplazione di Dio che sta nel cielo, sempre sulla stessa falsariga di una dizione poetica che è pura meditazione del testo evangelico e va dentro, non oltre la lettera del testo sacro.Santificetur nomen tuum fiorisce in «laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore / da ogne creatura, com’è degno / di render grazie al tuo dolce vapore» (vv. 4-6), una terzina in cui il riconoscimento dell’impronta trinitaria nel volto del Padre (nome – valore – vapore, che richiamano il Figlio, il Padre stesso e lo Spirito Santo) apre alla gratitudine perché Egli si é rivelato a noi: «com’è degno / di render grazie al tuo dolce vapore». E come si è rivelato? Come un dolce soffio di vento che ci accarezza il volto: così è il dono dello Spirito.
Adveniat regnum tuum si dispiega in «Vegna ver’ noi la pace del tuo regno, / ché noi ad essa non potem da noi, / s’ella non vien con tutto nostro ingegno» (vv. 7-9). Pronunciata così, la seconda invocazione impressiona, sia per l’identificazione del regno con la pace, sia per la dichiarazione dell’impossibilità umana della pace stessa, da cui la lettura straordinariamente pregnante di quel “venga”, che significa: “venga lui” perché solo se “avviene” lui, il Regno che coincide con la persona di Cristo, come un dono inaspettato, come una cosa bella che capita senza alcun nostro merito, è possibile che venga. Altrimenti no.
Fiat voluntas tua sicut in caelo et in terra rivela, nella trascrizione dantesca, tutta la forza cogente del sacrificio che tale preghiera implica. L’affermazione della volontà di Dio, infatti, è il sacrificio di ogni altra volontà. Ma un sacrificio lieto, gioioso, che si compie e si esprime in un canto, il canto degli angeli. Ecco quindi un’altra cosa dell’altro mondo, una cosa celeste, che viene introdotta in questo mondo: «Come del suo voler li angeli tuoi / fan sacrificio a te, cantando osanna, / così facciano li uomini de’ suoi» (vv. 10-12).
Panem nostrum cotidianum da nobis hodie sarebbe, in realtà, la vera crux per i traduttori, perché nel testo greco dei vangeli lì c’è una parola, ἐπιούσιος, che, come ben sanno gli esperti, non è per nulla facile da intendere, anché perché si trova praticamente solo lì. Che vorrà mai dire epiousios, che letteralmente dovrebbe valere “soprasostanziale”? Il latino se l’è cavata (anche brillantemente, a modo suo) con cotidianus, che poi è pianamente transitato nel nostro “pane quotidiano”, una forma concreta come una pagnotta, che il buon popolo di Dio ha sempre applicato, senza incertezze e senza farsi troppi problemi, essenzialmente al carboidrato fondamentale della sua povera dieta, la cui “quotidianità” era troppo spesso minacciata dalla miseria e dalle carestie. Ora, la fame va rispettata, sempre e comunque, perché è cosa troppo seria perché chi è a pancia piena possa permettersi di darle lezioni, quindi quell’esegesi popolare dev’essere accolta e benedetta. Bene hanno fatto dunque i vescovi a non darsi pensiero di cambiare la formula in uso. Continuiamo pure a chiedere a Dio di darci il “pane quotidiano”, però ricordiamoci anche che il Padreterno, sfrattando i progenitori dal giardino dell’Eden, non garantì loro alcun “reddito di cittadinanza”, anzi li avvertì che da quel momento in poi si sarebbero dovuti procurare il pane con il sudore della fronte. Se la società è così ingiusta e malfatta che tanti non hanno lavoro e non hanno reddito, la colpa è solo nostra e la responsabilità di rimediare pure. Dante, senza toccare quell’aggettivo tanto caro al buon popolo di Dio (che deve mangiare “tutti i giorni”), lavora sul sostantivo, traducendo panem con manna, e apre così genialmente la porta all’interpretazione spirituale del passo (quella che gli esperti raccomanderebbero), ma lo fa in modo tanto piano e semplice che tutti possano capire: «Dà oggi a noi la cotidiana manna, / sanza la qual per questo aspro diserto / di retro va chi più di gir s’affanna» (vv. 13-15). Che è tra l’altro la ripresa puntuale del concetto già espresso alla fine del canto precedente: «O superbi cristian, miseri lassi, / che, della vista de la mente infermi, / fidanza avete ne’ retrosi passi» (X, vv. 121-123). Senza quel pane lì, nella vita si crede di andare avanti, invece si va indietro.
Dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris viene chiosato con una finissima spiegazione di che cosa siano i crediti e i debiti di cui si parla, in modo da sottrarre la nostra lettura al rischio di un’interpretazione da bottegai o ad una contabilità da ragionieri (con tutto il rispetto per entrambe le categorie). Dice semplicemente: «E come noi lo mal ch’avem sofferto / perdoniamo a ciascun, e tu perdona / benigno, e non guardar lo nostro merto» (vv. 15-18). Quando pensiamo ai nostri presunti crediti, noi tendiamo a considerare in primo luogo il bene che abbiamo fatto (o che presumiamo di aver fatto), ma quel bene, di solito, è condito di tanto amor proprio e soddisfazione di sé che il suo credito forse ce lo siamo già riscosso. Forse, in quel computo del dare e dell’avere, valgono di più le sofferenze che ingiustamente patiamo, lo «mal ch’avem sofferto». Mi ricordo che una volta, quando ci si andava a confessare, il sacerdote al momento dell’assoluzione recitava una preghiera che diceva, mi pare: «Passio Domini nostri Jesu Christi, merita beatæ Mariæ Virginis, et omnium sanctorum, quidquid boni feceris, et mali sustinueris, sint tibi in remissionem peccatorum, augmentum gratiæ, et præmium vitæ æternæ». Formula perfetta, in cui le nostre eventuali “buone opere” sono sì annoverate, ma al loro posto (che non è il più importante), un tassello tra gli altri di un’opera fondata sulla passio Domini nostri Iesu Christi.
Infine ecco l’espressione che tanto ha angustiato i nostri vescovi da indurli a cambiare la carrozzeria del Padre Nostro (il motore speriamo resti sempre quello!). Et ne nos inducas in tentationem sed libera nos a malo era stato letteralmente reso in italiano con quel “non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male”, che io continuo tranquillamente ad usare nella recita privata dell’oratio dominica, ma che a quanto pare non si poteva più sentire in chiesa. La soluzione che i nostri pastori hanno adottato è, a mio avviso, peggiore da tutti i punti di vista (come mi pare che tutti gli esperti abbiano fatto notare nei mesi passati, con argomenti che non è qui il caso di ripetere). Chissà, magari se fossero stati più familiari con la lettura della Commedia forse sarebbero stati aiutati, nella loro scelta, proprio dalla limpida esegesi dantesca, che sgombra ogni equivoco: «Nostra virtù che di legger s’adona, / non spermentar con l’antico avversaro, / ma libera da lui che sì la sprona» (vv. 19-21). È come dire: “Signore, nostro Dio, tu certo puoi metterci alla prova, e in effetti spesso lo fai, e noi crediamo che lo fai per il nostro bene … però lo vedi come siamo: «nostra virtù di legger s’adona», lo sai che resistiamo ben poco contro l’antico avversaro … allora ti preghiamo: «non metterci alla prova»”. Cosa può esserci di più semplice di così, di più aderente al testo greco, di più espressivo di un sentimento filiale verso il Padre?
Paolo VI nel 1965, il giorno prima della chiusura del concilio Vaticano II, pubblicò una lettera apostolica, Altissimi Cantus, dedicata all’illustrazione del magistero teologico di Dante, un testo di grande spessore che bisognerà tornare a leggere e meditare, e donò una copia della Divina Commedia a ciascun padre conciliare. Così facendo, quel papa coltissimo diede a tutta la chiesa un’indicazione preziosa. Caduta nel vuoto, come tante altre, temo. Nel tempo incolto in cui viviamo, sarebbe il caso che qualcuno la riprendesse.
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