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lunedì 24 maggio 2021

L’architrave della civiltà in cui siamo nati

 Tornare al Pater noster

Cade la festa più misteriosa del calendario cristiano e non solo: la Pentecoste, la festa dello Spirito Santo, a cinquanta giorni dalla Resurrezione. Dopo tante giornate mondiali dedicate all’omotransobia, il razzismo, le celebrazioni antifa, vorrei parlarvi di una preghiera che è stata per secoli e per generazioni l’asse, il cardine della vita spirituale dei cristiani. 


Il Padre nostro, anzi il Pater noster, è l’architrave della civiltà in cui siamo nati. Non solo cristiana. Il Pater noster è stata la base religiosa e famigliare, morale e civile del nostro stare al mondo nel tempo, in rapporto con l’eterno. Sul “Padre nostro che sei nei cieli” ha retto per secoli il lessico famigliare del vivere personale e comunitario, la fede elementare in Dio e nel Cielo, la costruzione primigenia della famiglia e della società; l’ordine naturale derivato e benedetto dall’ordine soprannaturale. Il Pater noster è il primo articolo della Costituzione cristiana. Ogni potestas deriva dal Padre, quel Padre: dal Santo Padre al padre di famiglia, dal maestro di scuola al padre sacerdotale, dal patriarca al padre della patria. Non esiste fratellanza senza la figura di un pater che ne è sintesi, unità e riferimento supremo: ogni fratellanza senza padre degenera in fratricidio. Ce lo insegna la storia, e la nostra società senza padre.

Col Padre nostro ho quel rapporto originario, puerile e famigliare che tutti o quasi abbiamo avuto già nei primi anni della nostra vita, quando il sentire precede il pensare e il credere anticipa il riflettere. È stato il perno della nostra formazione e della nostra tradizione, l’abbecedario della fede ai suoi primi passi. Le quattro preghiere che mi hanno accompagnato nella vita, ancor oggi, seppure con qualche discontinuità, compongono un’architettura spirituale che somiglia a una casa: il Padre nostro, l’Ave Maria, l’Angelo custode e l’Eterno riposo. Sin da bambino mi detti una regola di preghiera (che ho ricordato nel romanzo spirituale La leggenda di Fiore): se perdi il filo, se reciti meccanicamente, senza pensare a quello che dici, lo ripeterai fino a che ogni parola sia pensata con attenzione. Non vale nulla pregare pensando ad altro, senza badare al significato, per pura inerzia mnemonica. Ogni parola sia pesata e capita. Il tuo nome, il tuo regno, il pane, i debiti, il frutto del tuo seno, l’ora della nostra morte, custodisci, governa me, la luce perpetua, l’eterno riposo, amen. Uno dei ricordi più teneri dei miei bambini era sentirli recitare dalla loro stanza le preghiere prima di addormentarsi; parole così grandi e impegnative, solenni promesse di vita oltre la morte in voci così ignare, inermi e sorgive.

Nel Pater noster non c’è solo la preghiera a Dio ma anche l’ispirazione su cui fondare i rapporti umani: dopo aver santificato il Suo Nome, atteso il Suo Regno e accolta la Sua Volontà, in cielo come in terra, si esprime una richiesta di sostegno primario, dacci oggi il nostro pane quotidiano, seguita da un impegno reciproco a rimettere a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Ha fatto discutere la modifica recente del Padrenostro in quel passaggio maldestramente tradotto con “non indurci in tentazione”, come se il Padre ci spingesse alla tentazione del maligno, magari per metterci alla prova. Meglio rivedere la traduzione e renderla così: “non lasciarci cadere in tentazione”; un’invocazione di soccorso per aiutarci a non farsi succubi del male. Aiutarci, e non esimerci dal male: vi dev’essere un nostro concorso attivo perché il Padre possa liberarci dal male; non dev’essere solo un intervento dall’alto, una grazia senza nostro impegno.

Il Padre nostro resta il caposaldo della storia universale della pietà; quante volte ha risuonato quella preghiera e quell’invocazione in momenti di dolore e di speranza, quanti lutti ha accompagnato, quanti momenti di paura e di sconforto, di miseria e di spaesamento. Quanti sacramenti, quanti passaggi cruciali, quante sofferenze ha lenito la preghiera rivolta a Dio Padre. Nel Padre nostro si raggruma il sangue di secoli, di popoli, di generazioni; si rivela la vulnerabilità e la mortalità della condizione umana. Si ritrova l’antica fede delle madri e dei padri in quell’infinita processione in saecula saeculorum.

La preghiera resta uno dei momenti più intensi e veri della nostra vita, quando l’intimità si scopre interiorità, si raccoglie e si proietta in alto, in una connessione celeste. O facendosi comunitaria nel corso di un rito, di una liturgia, di un matrimonio, un battesimo o un funerale. La preghiera è un ponte, l’anello nuziale tra l’umano e il divino, tra il terrestre e il celeste, il naturale e il soprannaturale. È il segno dello spirito che agisce nella carne. La preghiera è attenzione assoluta, il segno della croce e le mani giunte per la connessione, il respiro e il tono consonanti, l’amen come mite teurgia, l’abbandono fiducioso nelle mani materne della Provvidenza. La preghiera dà sempre frutti ma non è uno scambio; il dono è già nel pregare, non nell’ottenere qualcosa in cambio.

Davanti alla scomparsa di Dio, provai in un mio libro a rovesciare il Padre nostro, e rivolsi un’invocazione a Dio: non ci abbandoni al nichilismo, alla morte di Dio. E intonai una preghiera paradossale: “Padre nostro sia nei cieli/ Non sia vanificato il tuo nome/ Vero il tuo regno/ sia fato la tua volontà, / come in cielo così in terra. / Datti oggi il tuo pane eterno/ Rimetti a noi i nostri dubbi/ Come noi li rimettiamo ai tuoi dubitatori/ Non ti indurre in negazione /Ma liberati dal niente, amen”.

Quella preghiera rivolta a Dio, era in realtà un promemoria per l’uomo contemporaneo che pensa di poter fare a meno del Cielo ed essere padrone assoluto del suo destino. E invece non c’è morte di Dio che non sia pure morte dell’uomo. Pentecoste, discende lo Spirito Santo. Facciamoci trovare.

MV, La Verità 23 maggio 2021

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