ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 1 giugno 2021

Che qualcuno ci aiuti a cadere in ginocchio

Col vaccino sul cucuzzolo della montagna. Così è cambiata l’idea di Salvezza



    È di inizio maggio la notizia riguardante una squadra di volontari peruviani che ha affrontato un faticoso cammino tra le Ande, pur di raggiungere e vaccinare un anziano ultracentenario.

Dice la notizia: “Si chiama Marcelino Abad, è un peruviano di 121 anni ed è stato vaccinato nella sua abitazione in un piccolo borgo sulle Ande, dove è conosciuto con il soprannome di Mashico. Lo ha riferito il ministero della Salute del paese. Nato nel 1900, Abad vive nella regione centrale di Hua’nuco, nel municipio di Chaglla e ha ricevuto la prima dose di AstraZeneca. Per raggiungere l’abitazione dell’uomo, la squadra di vaccinatori ha dovuto camminare per tre ore lungo strade rurali montuose”.

La vicenda nella sua originalità è francamente assurda e, superata la curiosità iniziale, spinge a porsi l’unica domanda che conta: perché compiere una simile impresa? Si è trattato di un mero gesto di propaganda mediatica? È forse indice di un estremo e disperato tentativo di allontanare l’appuntamento con la morte? Oppure – il che è peggio – la Sanità peruviana considera tale missione assennata, utile e significativa in se stessa? Fatico a rispondere, ma l’episodio ha subito risvegliato nella mia memoria l’esempio precedente di Pierre Vigne.

Il Vigne (Privas, 20 agosto 1670 – Rencurel, 8 luglio 1740) fu un sacerdote francese, vissuto all’indomani delle sanguinose guerre di religione tra cattolici e calvinisti, che si convertì di fronte alla presenza reale dell’Eucaristia e scelse di dedicare tutta la sua vita ai poveri: “Per più di trenta anni, egli solca a piedi e a cavallo, le strade del Vivarais e del Dauphiné e anche oltre. Per far conoscere, amare e servire Gesù Cristo, affronta la fatica dei viaggi, i rigori del clima. Predica, visita i malati, catechizza i fanciulli, amministra i sacramenti fino a trasportare sul dorso il ‘suo’ confessionale per essere sempre pronto ad offrire la misericordia di Dio”.

Il dettaglio del confessionale è l’elemento che mi ha portato a pensare al collegamento col caso del signor Mashico peruviano. Nell’una e nell’altra situazione abbiamo dei volontari che affrontano le ostilità della natura per portare fin nei posti più sperduti il proprio dono di salvezza. Nel caso di don Marcelino, egli ha ricevuto il vaccino AstraZeneca; nel caso di don Pierre, egli portava a spalle il confessionale per poter confessare i contadini nelle zone più disperse di Francia e così donare loro la Misericordia del Dio Vivente.

Non credo servano molti commenti aggiuntivi. Ogni epoca ha i suoi eroi, i suoi mezzi di salvezza, le sue imprese. La Francia ha avuto missionari disposti a ogni sacrificio pur di rinnovare la testimonianza del Cristo Salvatore e di portarne i frutti sacramentali e liberanti in ogni angolo del Paese. Il mondo odierno ha operatori sanitari zelanti pronti a salire fino in cima alle Ande pur di distribuire il vaccino salvifico e risolutivo. Ne prendo atto, senza nemmeno troppo stupirmi.

Del resto sotto gli influssi delle teologie secolariste e delle pieghe moderniste abbiamo predicato per anni in questa direzione, insegnando che la stessa Rivelazione era in fondo mitica (si pensi a cosa resta della fede nei primi capitoli di Genesi) e che i sacramenti sono solo dei simboli (il che ha permesso per esempio di proibire la Comunione sulla lingua, pretendendo che ciò non tocchi la retta fede dei credenti). Perché dunque stupirsi se oggi la gente guarda alla proposta ecclesiale come a un grande mito, più o meno accattivante, e non più come a una rigorosa verità? Perché stupirci se la gente si lascia persuadere dalla proposta di scambiare vecchi miti religiosi con nuovi miti sanitari? Cosa rende alla fin fine un mito più autorevole di un altro? Probabilmente l’ardore di chi lo narra e lo incarna, ma quanto ad ardore il clero che distribuisce le Sacre Specie con le pinzette non può certo competere coi sanitari che scalano le Ande!

Chissà che tutto questo potrà valere almeno a purificarci e a ritornare con umiltà e fermezza alla Verità della fede cattolica e all’eroica devozione verso la presenza reale nell’Eucaristia. Del resto, lo stesso beato sacerdote, Pierre Vigne, iniziò il cammino di conversione proprio da tale semplice consapevolezza, indotto forzatamente – narra la leggenda – a cadere in ginocchio di fronte all’Eucaristia in cui non credeva; e a partire da ciò trovò la forza di testimoniare la fede senza stancarsi in un micromondo a lui del tutto ostile, quale era la regione calvinista del Vivarais. Che qualcuno ci aiuti a cadere in ginocchio, sia pur forzatamente.

    di don Marco Begato

https://www.aldomariavalli.it/2021/06/01/col-vaccino-sul-cucuzzolo-della-montagna-cosi-e-cambiata-lidea-di-salvezza/

Dentro il Leviatano. Il nuovo dispotismo colpisce così

di Aldo Maria Valli

La prima di tutte le forze che governano il mondo è la menzogna.

Jean-Françcois Revel, La conoscenza inutile

Perché gli uomini approvano il potere? In alcuni casi per fiducia, in altri per timore, talvolta per speranza o per disperazione. Comunque, cercano sempre protezione e si aspettano questa protezione dal potere.

Carl Schmitt, Dialogo sul potere

 

Difficile conquistarla, ma molto facile perderla. Parlo della libertà, questo bene che a parole tutti difendiamo, ma molto spesso calpestiamo.

Da quando siamo alle prese con il Covid, mi è venuto spontaneo riflettere sulla libertà e sulla sua fragilità. Perché la libertà è come un oggetto di finissima porcellana. Se non lo sappiamo maneggiare, può andare in mille pezzi da un momento all’altro.

È nato così il mio saggio Virus e Leviatano (Liberilibri, 2020), nel quale affronto da una prospettiva di filosofia politica la situazione nella quale ci siamo trovati immersi a partire dall’11 marzo 2020, ovvero da quando l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato lo stato di pandemia.

Per sgombrare il campo da qualsiasi accusa di negazionismo o di far parte di chissà quali compagini di persone strane, voglio partire da un’analisi che è stata fatta non da pazzi complottisti ma dal Censis, l’istituto che ogni anno pubblica un rapporto sulla situazione sociale dell’Italia. Lo ha puntualmente pubblicato anche alla fine del 2020, e lo ha intitolato Meglio sudditi che morti. Nel rapporto si descrive un’Italia che, a causa del virus, è terrorizzata a tal punto che una netta maggioranza, anzi la stragrande maggioranza degli italiani, è disposta non solo a rinunciare alle libertà personali in nome della tutela della salute collettiva, ma anche a lasciare al governo la facoltà di decidere circa la limitazione o la soppressione di tali libertà, con possibilità di intervento in ogni ambito della vita: quando e come uscire di casa, chi si può incontrare, fino a che punto ci si può muovere, eccetera. Inoltre, un altro dato che viene alla luce è che una netta maggioranza delle persone interpellate è disposta a rinunciare ai propri diritti civili, addirittura alla libertà d’opinione, di organizzarsi, di iscriversi a sindacati o associazioni, a causa della paura del virus, ed è proprio così che si arriva alla dicotomia ultimativa: meglio sudditi che morti, meglio vite non sovrane, volontariamente sottomesse al buon Leviatano, espressione usata dal Censis, lo ricordo, nel dicembre del 2020, mentre io ho scritto il mio saggio a settembre, quindi credo che nessuno mi possa accusare di aver preso ispirazione dal Censis, semmai il contrario.

Tutto ciò per dirvi che ormai credo siano molte le persone che sono giunte a un certo tipo di conclusione rispetto a tutto quello che abbiamo vissuto ne corso del 2020 e che ancora sotto molti aspetti stiamo vivendo. Siamo di fronte a un utilizzo politico e sociale della situazione determinata dalla diffusione del virus. Qualcuno ha parlato del più grande esperimento di ingegneria sociale che sia mai avvenuto nella storia. Io ho provato a ragionare in termini di filosofia politica e sono giunto a dare alcune definizioni.

Sono partito da un dato che è incontrovertibile: con questa pandemia sono state sospese le abituali procedure costituzionali, e da un giorno all’altro abbiamo smesso di essere una repubblica parlamentare. Gli strumenti che abbiamo imparato a conoscere fin troppo bene, i decreti della presidenza del consiglio, i dpcm, hanno assunto una centralità e una preminenza assolute. È come se tutti, il mondo della politica ma anche noi cittadini, a fronte di uno stress test avessimo proclamato che i diritti costituzionali di libertà e il parlamentarismo stesso sono lussi che ci possiamo permettere in tempi “normali” ma non in tempi “straordinari”.

Mentre osservavo la disinvoltura con cui il parlamentarismo veniva messo da parte, mi tornavano alla mente le parole di Lenin: “Noi non possiamo concepire una democrazia, sia pure una democrazia proletaria, senza istituzioni rappresentative, ma possiamo e dobbiamo concepirla senza parlamentarismo” (Stato e rivoluzione).

E poiché accanto alla disinvoltura del governo nella sospensione dei diritti di libertà abbiamo visto la naturalezza dell’opinione pubblica nell’accettare tutto questo, ecco che un nemico della libertà può averne tratto un insegnamento molto chiaro. È stato dimostrato che, agendo su determinate leve connesse alla sicurezza sanitaria, è facilissimo sospendere le garanzie costituzionali imprimendo una svolta in senso autoritario. Dunque, la domanda sorge spontanea: chi ci dice che un domani, di nuovo, un’emergenza di tipo sanitario non potrà essere utilizzata per sospendere i diritti e ridurre ulteriormente gli spazi delle nostre libertà? Se questa situazione d’emergenza si dilatasse, fino a essere presentata e percepita come la normalità – e questo è proprio ciò che stiamo sperimentando – che cosa succederebbe? Chi può assicurarci che un pericolo non possa essere creato di proposito? Come non immaginare che lo stato d’emergenza possa essere istituzionalizzato? Sono domande inevitabili di fronte a quello che abbiamo vissuto e stiamo vivendo. Inevitabili se si ha a cuore la libertà e si è coscienti del suo valore.

Nel libro io non esito a parlare apertamente di dispotismo. Quella che abbiamo vissuto e che per molti aspetti stiamo ancora vivendo è in effetti una forma di dispotismo perché il governo ha assunto una centralità assoluta, senza precedenti. L’esecutivo, attraverso i dpcm, si è messo a legiferare senza alcun riguardo per la separazione dei poteri, cardine dello Stato di diritto e della democrazia liberale.

Che tipo di dispotismo è questo? Lo definisco un dispotismo condiviso, perché mass media e opinione pubblica l’hanno giustificato, assunto e fatto proprio. Ma è anche dispotismo statalista, perché ogni facoltà decisionale è demandata allo Stato. L’iniziativa privata e dei corpi intermedi non è presa in considerazione e neppure viene rivendicata. Lo Stato, percepito come l’unica istituzione in grado di affrontare la situazione, diventa istituzione salvifica.

È poi un dispotismo terapeutico, perché il politico ha preso di fatto le sembianze del medico, il cittadino è diventato un paziente e la nazione intera un grande ospedale. Da qui chiaramente un rapporto asimmetrico che favorisce il dispotismo stesso: non più una relazione tra politico e cittadino, tra rappresentante e rappresentato, ma un rapporto medico-paziente, che mette il paziente nelle condizioni di non poter discutere ciò che il medico decide e indica.

Su tutto domina il dogmatismo scientista, con la preminenza della mitica figura del comitato tecnico-scientifico, questa struttura che agisce dietro le quinte muovendo i fili di tutta l’organizzazione. Ma spacciare la tecnoscienza come espressione di verità assoluta significa ignorare che la scienza ben raramente ha risposte certe, tantomeno la scienza medica. La scienza può studiare, mettere a confronto, incrociare dati, ma non ha la pretesa di fornire indicazioni e risposte univoche, specie se è sollecitata a farlo in tempi brevi. Tutto ciò è semplicemente una grande illusione.

Ecco, dunque, perché parlo di dispotismo statalista, condiviso e terapeutico, un dispotismo che rivela però, a mio giudizio, tante debolezze. La debolezza della politica, che si è messa nelle mani della tecnoscienza riconoscendosi incapace di affrontare i problemi. Debolezza dell’esecutivo stesso, che accentrando tutto ha manifestato la paura del confronto democratico. Debolezza dello Stato, che ha risposto con la solita farraginosità e i soliti ritardi, lasciandosi guidare da organismi sovranazionali, come nel caso dell’Organizzazione mondiale della sanità. Debolezza della cosiddetta società civile, che è rimasta del tutto passiva. E – lo dico da battezzato, da credente – debolezza della gerarchia della Chiesa cattolica, che si è prontamente allineata al dispotismo, alla narrazione dominante, e non è stata in grado di pronunciare una parola alternativa e di mettere la questione su un piano diverso da quello imposto dalla narrativa dominante. Parlerei, infine, di una debolezza antropologica dell’uomo contemporaneo, che manifestando la pretesa infantile di essere messo a riparo da ogni tipo di pericolo è arrivato a supplicare il potere (“Dammi l’immunità, subito!”), senza prendere minimamente in considerazione l’idea di un confronto virile con il male e la sofferenza.

In tutto questo è stato sicuramente decisivo il ruolo dell’informazione. Il dispotismo per sussistere e affermarsi ha bisogno del sostegno dei mass media e della rete, strumenti indispensabili per alimentare la narrativa adeguata, fondata sulla paura. Da sempre il potere utilizza la salute e la sicurezza per sopprimere le libertà, questa non è una novità. La novità sta nel fatto che ciò che in passato era stato in gran parte solo teorizzato oggi sta venendo applicato, nelle nostre vite e nei nostri comportamenti di tutti i giorni.

Accennavo poco fa alle domande che mi sono venute spontanee fin dall’inizio del primo lockdown. Domande sostenute in particolare dal ricordo delle lezioni del professor Gianfranco Miglio, che ebbi come docente di Scienza della politica e Storia delle dottrine politiche nella facoltà di Scienze politiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Fu proprio Miglio, curatore del fondamentale libro Le categorie del «politico». Saggi di teoria politica di Carl Schmitt, edito da Il Mulino ne 1972, a sottolineare l’importanza del pensiero di Schmitt circa lo stato d’eccezione: “L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto”. È nel caso limite, non descritto dall’ordinamento vigente e abituale, che la natura del diritto, e dunque quella del potere, si svela nella sua essenza.

Sovrano, per Schmitt, è colui che decide quando sussiste lo stato di eccezione e “cosa si debba fare per superarlo” (Teologia politica). Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione e nello stato di eccezione. Ma, stando così le cose, necessaria diventa la riflessione su come e quando lo stato d’eccezione diventa regola.

Ebbene, per la prima volta il mondo intero, nel caso della pandemia da Covid-19, è diventato un laboratorio nel quale verificare questa tesi.

Ritengo sia utile ricordare poi il senso di colpa continuamente alimentato dalla narrativa dominante. Accanto al terrore, il senso di colpa è decisivo. Ognuno di noi, condizionato da una narrativa adeguata, è portato a colpevolizzarsi e quindi a limitarsi, anzi a gettarsi nelle braccia del tiranno, addirittura ringraziandolo. Il meccanismo è stato studiato da eminenti studiosi, filosofi, politologi. La novità è che lo stiamo sperimentando con tempi di applicazione velocissimi.

Un’altra osservazione mi sembra doverosa. Noi diciamo sempre che viviamo in un mondo profondamente secolarizzato, che non abbiamo più bisogno di una trascendenza, di un pensiero religioso, però abbiamo visto che nel momento della difficoltà, dell’emergenza, quelli che sono venuti alla luce sono tutti modelli, in fin dei conti, di stampo religioso. Abbiamo una sacra trinità, che è formata da Scienza-Salute-Sicurezza. Abbiamo il peccato, che consiste nel non collaborare, nel pensare con la propria testa, nel porre domande scomode. Abbiamo il castigo per il diverso, il non allineato, castigo che consiste in una forma di scomunica, cioè nell’essere posto fuori dalla comunità, in quanto irresponsabile e indegno. Abbiamo le sacre scritture, che sono i mass media, la grande stampa, con la loro narrativa omologata e omologante, alimentata quotidianamente. Abbiamo l’impellente richiesta di convertirci alla pretesa scientista, la nuova religione. Abbiamo l’identificazione del credere alla narrativa dominante con la salvezza. Abbiamo i bacchettoni che giudicano tutto e tutti ritenendosi detentori della verità. Abbiamo l’inquisizione, che scomunica i reprobi e censura le fonti considerate non allineate. Abbiamo l’indice dei testi proibiti. Abbiamo la casta sacerdotale dei virologi e, in generale, degli esperti continuamente sollecitatati dai mass media come oracoli. E infine abbiamo l’etichetta di miscredenti appiccicata a tutti coloro che, poco disposti a lasciarsi condizionare, osano porre domande scomode.

Quindi vedete la stranezza di questo mondo, che si dice secolarizzato ma nel momento della difficoltà mette in atto tutti i comportamenti e gli atteggiamenti tipici del fideismo.

Io credo che tutto ciò che noi stiamo vivendo faccia parte non tanto di un complotto (sebbene evidentemente ci sia una somma di interessi convergenti) quanto di una grande crisi, che ormai va avanti da tempo e non è stata determinata da questa pandemia ma con la pandemia è venuta ancora di più allo scoperto: la crisi della ragione umana, una crisi che ci porta a cadere appunto in nuove forme di fideismo cieco. La conoscenza e la capacità di porre domande e alimentare lo spirito critico si scontrano con un acuto bisogno di credere (“A qualcosa devo pur credere” mi ha detto una persona con la quale ho avuto modo di scambiare occasionalmente alcune opinioni sulla pressante sollecitazione a vaccinarsi). E proprio questo disperato bisogno di credere si trasforma in “un tenace rancore verso gli gnostici” come scrive Jean-François Revel (La conoscenza inutile): ecco così la feroce intolleranza verso il non credente, verso colui che rivendica il diritto all’autonomia, alla critica nei confronti del pensiero dominante.

A volte dico che siamo ormai narcotizzati. Tale è il condizionamento per cui la sola idea di poter sviluppare un’idea personale, un pensiero autonomo, qualcosa che vada controcorrente e aldilà del conformismo assoluto è ritenuta blasfema (ed eccoci di nuovo alle prese con categorie religiose).

Infine, segnalo che tutto ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi ha una portata potentemente sovversiva. Pensiamo soltanto al rapporto che si è venuto a creare tra lo Stato e la persona. Abbiamo rapidamente dimenticato che lo Stato riceve il potere dagli individui, dalle persone, dal popolo. Non è il popolo, non è la persona, non è l’individuo che ottiene concessioni dallo Stato, è il contrario! Abbiamo rapidamente dimenticato che in una democrazia liberale è consentito tutto tranne ciò che è espressamente vietato, mentre oggi siamo ormai convinti che sia vietato tutto tranne ciò che è espressamente consentito. Il disorientamento è tale che ormai il cittadino ha sempre l’impressione di sbagliare, di essere in fallo. La prima domanda che viene in mente è: ma questa cosa la potrò fare? Il rapporto tra Stato e cittadino è stato ribaltato e questo ribaltamento è già realtà quotidiana. Non stiamo parlando di qualcosa che verrà o di un rischio, parliamo di realtà dei nostri giorni. Ormai non viviamo più in uno Stato di diritto, ma in uno Stato autoritario. So di usare un’espressione pesante, ma quando, appunto, la domanda che quotidianamente ci si pone non riguarda le proprie opportunità ma i limiti della libertà di movimento e di azione significa che siamo di fatto in un dispotismo. La democrazia liberale non c’è più.

Nel mio libro cito Alexis de Tocqueville, che nel suo La democrazia in America, a metà dell’Ottocento, fotografa il potere amministrativo visto all’opera al di là dell’oceano definendolo “assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite”. Come non pensare ai nostrani dpcm, così minuziosi nel voler entrare in tutti gli elementi delle nostre esistenze, perfino nelle nostre case, nelle nostre relazioni familiari e personali: un potere assoluto, particolareggiato, che si manifesta come previdente e mite, perché dice di essere dalla nostra parte, di fare tutto per il nostro bene, ma di fatto che cosa fa? Ci toglie la fatica di dover pensare, e anche queste sono espressioni di Alexis de Tocqueville. È un potere che ci riduce a bambini, incoscienti, incapaci di una reazione personale. Tocqueville parla di piccole regole, complicate, minuziose e uniformi. Come tali, non sembrano costituire un pericolo per la democrazia liberale, ma inesorabilmente regolano, dirigono e quindi infiacchiscono. L’individuo così diventa massa informe, desiderosa soltanto di lasciarsi guidare. Questo tipo di Stato non è il classico tiranno che fa la voce grossa e minaccia. No, è paternalista, è gentile e, dice di stare dalla tua parte. Direi che è addirittura materno, perché è come una mamma previdente, piena di raccomandazioni: non fare questo, non fare quello, non toccare, non correre, mettiti la maglia pesante, non sudare, ma di fatto così impedisce la crescita e quindi comprime e, snerva, riducendo infine la nazione a non essere altro che una “mandria di animali timidi” (sono ancora parole di Tocqueville).

Ecco il quadro nel quale viviamo ormai quotidianamente. Ridotti a una mandria di animali timidi, compressi, snervati, stressati, incapaci di una reazione, non sappiamo più che cosa possiamo fare e cosa non possiamo fare: tutto è concessione dello Stato. Abbiamo dimenticato che le nostre libertà sono diritti fondamentali, non sono concessioni! Nella democrazia liberale non ci sono concessioni del despota di turno: ci sono i diritti del cittadino. Eppure, il ribaltamento è avvenuto. Siamo già snervati, siamo già compressi, siamo già stati ridotti a mandria.

Desidero concludere con le parole di Etienne de la Boétie: “Di una sola cosa, non so come mai, la natura non trasmette agli uomini il desiderio: la libertà, un bene così grande che una volta perduto sopravvengono tutti i mali possibili, e anche i beni che restano perdono del tutto il loro gusto e sapore, corrotti dalla servitù” (Discorso sulla servitù volontaria).

https://www.aldomariavalli.it/2021/06/01/dentro-il-leviatano-il-nuovo-dispotismo-colpisce-cosi/

Vaccini Covid a bimbi: fuori dal mondo e contro l'etica

Il Governo spinge per le vaccinazioni ai bambini, ma ci sono scienziati che si oppongono. L'epidemiologo Rainisio alla Bussola: «L’idea di vaccinare i bambini per salvare i vecchi è scientificamente fuori dal mondo ed è anche un insulto all’etica». «Fino ai 29 anni la probabilità di morire di Covid è irrilevante». Dubbi anche sulla sicurezza: «Le sperimentazioni di Pfizer sono su appena mille ragazzi: impossibile notare un evento avverso con quel campione». E c'è anche chi preferirebbe che i bambini si facessero il Covid: «Per sviluppare una resistenza anche per il futuro e far diventare il virus endemico».

«L’idea di vaccinare i bambini per salvare i vecchi, oltre che scientificamente fuori dal mondo è anche un insulto all’etica». Maurizio Rainisio, epidemiologo e statistico è coautore, assieme a Sara Gandini e altri scienziati italiani, dello studio decisivo che ha riportato i ragazzi a scuola dopo aver convinto il governo che tra i banchi non si sviluppavano focolai. La sua opinione sulla vaccinazione in età pediatrica è tranchant: «Potrebbe non essere una buna idea». Ancor più contraria sull’obbligatorietà.  

Rainisio è stato ospite della puntata de i Venerdì della Bussola, col legale Alessandro Fusillo (in foto), dedicata proprio al tema dell’obbligo vaccinale e non ha lesinato critiche alle attuali strategie governative che stanno spingendo sempre più verso una campagna di vaccinazione estesa anche ai bambini e agli under 15. Ieri la commissione Ue ha dato il via libera al vaccino Pfizer per la fascia 12-15 anni, mentre a breve arriverà l’autorizzazione per l’Italia secondo quanto dichiarato ieri dal ministro Speranza.

«Non sono contrario alla vaccinazione – ha esordito Rainisio ai nostri microfoni venerdì -, io stesso che ho più di 70 anni mi sono vaccinato AstraZeneca, ma qui sta il punto chiave: bisogna sempre tenere conto dei rischi e dei benefici». Rainisio ha mostrato i dati sulla mortalità che evidenziano come l’età e i fattori di rischio siano decisivi nella scelta di vaccinarsi e non ne esistano altri.

«Prediamo il mio caso: ho 70 anni e sono maschio, quindi da questi dati ho una probabilità di morire a causa di covid in rapporto di 1 a 130, cioè una persona su 130 tra i 70 e i 79 anni è morta di covid». E così andando avanti con l’età: «Se prendiamo il dato sui novantenni è spaventoso: «1 su 26 è morto di covid. A questa gente il vaccino non può fare che bene perché i benefici supererebbero i rischi».



Diverso invece il caso dei bambini: «Un bambino tra 0 e 9 anni ha una probabilità di morire per covid talmente bassa da essere del tutto irrilevante: 1 su 600mila per i maschi e 1 su 400mila per femmine. E simili valori si hanno fino ai 29 anni».

Il dato si abbassa, ma resta irrilevante anche se prendiamo in considerazione la categoria dei quarantenni, oggi presa di mira dalle indagini europee: «Un maschio quarantenne ha una probabilità su seimila di morire di covid. Da questo si evince che quando parliamo di rischio/beneficio dobbiamo sempre considerare che il rischio è dato dall’età e dalla situazione patologica, purtroppo i dati forniti dall’ISS non disaggregano le patologie correlate all’età. Ma è chiaro che un obeso o un cardiopatico rischiano molto di più. Però un soggetto sano non corre rischi».

Dunque, esporre i bambini alla vaccinazione di massa sarebbe un errore? «Potrebbe non essere un’ottima idea perché la sicurezza dei vaccini è stata dimostrata con dati deboli, a differenza dell’efficacia: negli esperimenti clinici c’erano 15/20mila adulti nel ramo trattato, ma Pfizer che ha avuto l’approvazione per la sperimentazione sui bambini dai 12 ai 15 anni ne ha trattati appena mille. Ebbene: il dato di mille ragazzi non consente nessuna valutazione sulla sicurezza in relazione agli eventi avversi anche frequenti.

Prendiamo – ha proseguito Rainisio – un evento avverso con frequenza inferiore a 1 su 500, non verrebbe neanche visto in un campione di queste dimensioni. Quindi, il rapporto rischio-beneficio per i giovani, non è detto che sia a favore del beneficio».

L’epidemiologo ha poi citato uno studio pubblicato sul British Medical Journal (qui la traduzione in italiano), secondo il quale «non è necessariamente una buona cosa l’idea di vaccinare i bambini. Ha portato tre argomenti».

Il primo è quello della prevenzione: «I giovani non hanno bisogno di prevenzione perché non si ammalano della malattia da covid». Il secondo è quello della trasmissibilità: «Ci sono parecchi studi che dicono che non sono i bambini che trasmettono agli adulti, ma si è visto che sono gli adulti che a casa lo trasmettono ai ragazzi. Lo si è visto ad esempio in Norvegia dove le scuole primarie sono state sempre aperte».


L’ultimo argomento che il BMJ porta per sostenere la tesi dell’inopportunità della vaccinazione ai bambini è che «non è chiaro quali possano essere le conseguenze del vaccinare i bambini. Anzi, i ricercatori hanno sostenuto l’idea che sarebbe meglio che i bambini fossero esposti al Sars Cov 2 in un momento in cui non rischiano nulla, perché sviluppino le resistenze a questo virus che porteranno avanti nel tempo. È il concetto dell’endemicità del virus: far diventare un’epidemia un fatto endemico è proprio quello di lasciare che i bambini si infettino».

Infine Rainisio affronta l’ormai mitologica immunità di gregge: «È la stessa Ema a dire che una volta vaccinati si può essere ancora infettivi e a non avere certezze circa la sterilizzazione del vaccino. L’evidenza empirica c’è, ma manca la certezza scientifica».

Eppure, in Italia si parla di campagne vaccinali per i bambini con lo scopo di proteggere i vecchi. «Questa è un’aberrazione etica – conclude Rainisio -, non è neanche legalmente consentito di obbligare a un trattamento medico una persona per salvarne un’altra. Il trattamento medico deve sempre essere indirizzato alla persona che lo riceve. Per questo l’idea di vaccinare i bambini per salvare i vecchi è fuori dal mondo. Se l’obiettivo è salvare i vecchi, si vaccinano i vecchi, non i bambini che neppure potrebbero trasmettere il virus».

Andrea Zambrano

https://lanuovabq.it/it/vaccini-covid-a-bimbi-fuori-dal-mondo-e-contro-letica

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.