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sabato 19 giugno 2021

Una simile realtà in cosa può dirsi credibile e affidabile?

Il ridimensionamento del “Summorum Pontificum” e il problema dell’autorità


Breaking news dal mondo liturgico suggeriscono essere prossimo alla pubblicazione un documento che abolirebbe, o almeno ridimensionerebbe, la portata del motu proprio Summorum Pontificum.

Tale voce ha destato più di una apprensione, soprattutto in quelle diocesi (e quindi nella maggioranza delle diocesi italiane) dove la difesa della celebrazione Vetus Ordo trova tutela solo nel Summorum Pontificum e non certo nel dialogo coi Pastori.

In difesa dello status quo hanno parlato, tra gli altri, anche due principi della Chiesa, nelle persone del cardinale Müller e del cardinale Zen.

Il mio commento odierno porta l’attenzione sul problema dell’autorità.

La mia tesi è che una mossa a danno del Summorum Pontificum – specie se intentata con Benedetto XVI ancora in vita – sarebbe un colpo basso alla Liturgia, ma sarebbe soprattutto un colpo traumatico per l’autorità.

La domanda che mi pongo è quale valore andrebbe riconosciuto a un documento che nel giro di pochi lustri venisse girato e rigirato come un calzino. Davvero scarso, direi. Ma il valore del documento nel nostro caso dice anche del valore del suo autore, e poiché un motu proprio è un intervento eminente e autonomo del Sommo Pontefice, dice del valore delle dichiarazioni pontificie e del loro rapporto con l’episcopato (per esempio con la disponibilità di un episcopato di obbedire a un motu proprio). E dunque davanti a una svalutazione di un motu proprio non si correrebbe il rischio di togliere credito agli interventi del Papa in quanto tali? Non si rischierebbe di generare l’impressione che gli interventi diretti del Papa siano altamente dubitabili, validi al massimo pochi lustri, buoni da esser strattonati?

È in questo senso che toccare il Summorum Pontificum ai miei occhi significherebbe toccare la credibilità stessa del Pontefice e delle gerarchie, toccarne l’autorevolezza. E questo, si badi bene, lo affermo non per dar voce a un personale sentimento psicologico di fiducia tradita, ma per segnalare un radicale e oggettivo stato di confusione che ipso facto l’Anti-Summorum attribuirebbe alle cariche più alte.

Il ragionamento è tanto semplice quanto disarmante: se i vertici non hanno chiaro cosa vogliano fare e perché, se agiscono per equilibri curiali cangianti o per mode sociali e non secondo presupposti teologici definiti e stabili, noi perché dovremmo obbedire loro? Intendo dire, sulla base di quali presupposti dovremmo obbedirgli? A quali condizioni? Meglio ancora, noi a cosa dovremmo obbedire? Allo scritto mutevole? All’intenzione trapelata per mezzo dei giornali? Alle dichiarazioni dei pastori in televisione? Al Papa 1 o al Papa 2? Al vescovo che segue la lettera o a quello dello spirito? Alla moda o alla convenienza? Al primo o al secondo lustro?

Ripeto, la mia non è una reazione psicologica, ma una seria difficoltà deontologica. Io sono tenuto a obbedire a chi sicuramente mi mostra la volontà di Dio, ma una comunità ecclesiale che si presenta confusa, che muta di continuo le proprie istanze, che fornisce sempre meno spiegazioni teologiche, che tendenzialmente non risponde o elude i dubbi sollevati, che nel millennio delle libertà e nella Chiesa post-conciliare finalmente libera da legalismi spinge verso una obbedienza intransigente, una simile realtà in cosa può dirsi credibile e affidabile? In cosa va creduta e seguita? Per quanto tempo? Con che criteri? Quanto va presa sul serio? Quanto invece posso interpretarla e rileggerla a piacimento? Chi lo stabilisce?

Sono domande davvero aperte, cui già oggi non so rispondere. Quando il Summorum sarà stato castigato, una risposta definitiva diverrà per me ancora più difficile, perché dare credibilità alle autorità sarà per definizione un azzardo, una roulette, un gioco. Peraltro sempre meno divertente e sempre più rischioso.

di don Marco Begato

https://www.aldomariavalli.it/2021/06/19/il-ridimensionamento-del-summorum-pontificum-e-il-problema-dellautorita/

Infallibilità e discutibilità, da Kung a Bergoglio


Immaginiamo un pover’uomo (non tanto immaginario in verità, dato che è qui che scrive), nato immediatamente dopo la fine della guerra, ancora giovincello all’epoca del Concilio Vaticano II, di cui perciò poco comprese, passato poi incolume attraverso il così detto Sessantotto senza perdere la fede, ma con una gran voglia di dedicarsi allo studio per chiarirsi le idee su quel che accadeva, il quale infine scopre alcuni autori non cristiani che soddisfano la sua preoccupazione apologetica, poiché gli danno la chiave di una comprensione della realtà non confessionale ma in conformità con la tradizione cattolica … e poi si ritrova con tanti vescovi e ora perfino il Papa che dicono cose affatto difformi da ciò che l’aiuto di questi autori gli aveva fatto capire. Immaginiamo dunque l’imbarazzo del pover’uomo, convinto assertore della tradizione “papista” in cui era stato educato, al trovarsi di fronte a questa spiacevole alternativa: o rinnegare i propri studi o riconoscere la fallacia di quelli di Papa e vescovi.

Nel 1970 Hans Küng pubblicò un saggio intitolato Infallibile? Una domanda. All’epoca la domanda era a senso unico, il conciliare rimettere in discussione l’autorità nella Chiesa, che la dottrina della infallibilità papale aveva voluto ribadire un secolo prima, nel momento in cui anche l’Italia, e Roma stessa, veniva investita dall’ondata volgarmente detta laicista, che avrebbe finito dopo un secolo appunto per sommergere tutta l’Europa. Küng, dunque, ha cavalcato l’onda come un surfista, con l’intento di spiegare il senso che può avere oggi “essere cristiani”, come recita il titolo del suo più famoso libro. Ma non è Küng che qua interessa, quanto la domanda, il suo poter andare in senso inverso, non per seguire l’onda cioè, ma per nuotare contro: non in verità per contestare l’infallibilità “ex cathedra”, come definita dal Concilio Vaticano I, ma l’autorità papale, e in generale del magistero, nel suo esercizio ordinario. Insomma, il Papa in quanto Papa non può sbagliare, ma l’uomo che ne ricopre l’ufficio sì (dopo tutto il maggior poeta cristiano non si peritò dal mettere Bonifacio VIII, e non solo, all’Inferno). Pare anch’egli seguire l’onda, contro la quale bisogna invece nuotare, prima che per la sua contrarietà alla fede, per quella alla ragione.

Succede infatti che il magistero ecclesiastico, depositario del depositum fidei, non sappia renderne ragione. A cominciare dal suo capo, esercita la propria autorità senza ragioni che la giustifichino, come se il suo riconoscimento fosse questione di “sola fede”, solo dovuto a motivo dell’appartenenza ecclesiale. Perché mai poi uno dovrebbe appartenere alla Chiesa, non pare cosa di cui valga la pena parlare. O meglio, di cui pare imbarazzante parlare, per la pretesa diciamo pure imperiale di rappresentare l’universale società naturale del genere umano, abbracciando virtualmente ogni etnia e società particolare, che la qualifica di “cattolica” conferisce alla Chiesa. Rinchiusa dalle vicende storiche nei limiti della Cristianità europea, come ben sappiamo irta di conflitti e divisioni, la riaffermazione di una simile rappresentanza suona sgradevolmente eurocentrica, manifestazione, allargando gli orizzonti, dell’imperialismo occidentale. Abbiamo preso coscienza infatti, nell’accelerarsi planetario delle comunicazioni portato dall’espansionismo europeo, della pluralità di tradizioni grandi e piccole che pullulano sulla Terra. Ed anche nella Chiesa troviamo difficile dire perché preferire una tradizione all’altra. Per cui ad esempio Hans Küng criticò la dichiarazione Dominus Iesus del 2000 sull'unicità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, definendola un misto di "megalomania e arretratezza vaticana".

Magnifico questo “arretratezza”, tipico di chi in mancanza di argomenti si appella all’avanzamento di un nuovo che nessuno sa cosa sia; il “megalomania” poi è addirittura sublime, nel suo investire la vocazione cattolica della Chiesa fin dai suoi fondamenti neotestamentari (chi è filologicamente avanzato sa infatti che quel comando di andare e battezzare tutte le genti “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” non era di Gesù, ma solo a lui attribuita in seguito dalla comunità). Karl Rahner a suo tempo, decenni prima, auspicava una Chiesa non più europea, ma mondiale: peccato che questa mondialità suonava sinistramente tedesca (la lascio qua, perché spiegare che cosa intendo richiederebbe un articolo a sé). Per cui vediamo la Chiesa cattolica tedesca avanzare trionfalmente nella blandizie della contemporanea mentalità euro-americana, che non sa riconoscere nelle altrui come nella propria tradizione culturale i tratti della universale natura umana, da tutte rappresentata; e si assolutizza di conseguenza come sola universale, in un innaturale indifferentismo che le negano tutte.

Oggi il Vaticano sembra voler abbandonare la sua “megalomania”. Bergoglio non rinuncia a indirizzarsi a un uditorio umano generale, ma senza mai fare il nome (almeno nelle affermazioni riportate dai media) di Gesù Cristo. Il che significa che i suoi appelli morali sembrano mantenersi nei limiti della pura ragione – come Kant voleva che fosse la religione. Sono i limiti, fissati nel così detto Occidente, che disgiungono la ragione dalla fede. Ma proprio per questo sono irragionevoli, contrari alla vera ragione.

Guardiamo alla faccenda eclatante dei migranti.

La posizione promossa, dalla gerarchia ecclesiastica vaticana come dai politici di sinistra, è di incondizionata accoglienza. Dire aiutiamoli a casa loro appare una cosa di destra, con politici che si atteggiano a difensori dei cristiani indigeni, o meglio i nativi dell’Occidente sia cristiani che non cristiani. Ma se fosse l’unica cosa ragionevole da fare? Tanti anni fa il Cardinale Biffi, arcivescovo di Bologna, propose di essere selettivi nella immigrazione, con preferenza ad esempio per chi provenisse da paesi di cultura cattolica come le Filippine, che si potessero più facilmente integrare in Italia con gli indigeni cattolici: apriti cielo! Su questo tema siamo divisi nella Chiesa come guelfi e ghibellini, con la gerarchia che prende una posizione di parte. Non importa se sia ragionevole o meno, non è ragionata.

Tra i fedeli, dunque, il Papa fa appello alla loro fede, mentre parla al di là della loro cerchia con il prestigio della sua posizione papale; ma come ho detto si astiene dal nominare l’origine di quella posizione. Per questo, lungi dall’essere infallibile, egli è intrinsecamente discutibile – come un qualunque Kant (a meno di non considerare Kant alla stregua di una specie di infallibile pontefice). Che vi sia infatti una ragione non solo distinta dalla fede, ma da essa separata, è nozione del tutto moderna. Quanto ho appreso da autori non cristiani, è che essa è davvero nozione tribalmente occidentale. L’avversione, in “Occidente”, all’esclusività così detta religiosa, non fa che opporre ad essa la propria esclusività: una cattolicità della ragione che, separandosi dalla fede, non sa rendere ragione di se stessa – così come non può rendere ragione di sé la fede da sola.

Dire fede significa dire persuasione mossa dalla fiducia nell’autorità, e la prima cosa a cui l’autorità muove è a parlare, e quindi all’esercizio della ragione. Siamo invece abituati a porre in termini di fede e ragione la questione della conciliabilità della dottrina cristiana, insegnamento al quale si aderisce per fede, e la cognizione delle cose acquisita con la ragione: come se ne avessimo notizia separatamente, prima di metterle a raffronto. Da qualche secolo a questa parte, vi siamo così abituati da non renderci neanche conto dell’errore antropologico, abissale, in cui cadiamo. Avere notizia di qualcosa significa anche che è oggetto di discorso. Ora, nell’uso del linguaggio noi ci definiamo nei nostri rapporti reciproci ed enunciamo come stanno le cose nel mondo, inestricabilmente; e ciò comporta l’impossibilità di separare fede e ragione. Non rendendocene conto, quindi, non vediamo la pretesa d’autorità di chi si richiama alla ragione, ma solo quella di chi ci richiama alla fede.

Riconoscere l’umanità di tutti gli esseri umani, di qualunque tempo e luogo, viene da un’autorità universale, che ha ricapitolato quell’umanità nella pura e semplice corporeità. Questo dovrebbe far capire il magistero. Dopo di che del problema delle migrazioni si può anche discutere razionalmente.

di Giorgio Salzano

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