Il crocifisso torna alla sbarra: sarà una sentenza storica
Approda in Cassazione la vicenda di un docente dell'Unione atei e razionalisti che ha imposto di togliere il crocifisso dall'aula di lezione contrariamente alla volontà degli studenti e del preside. La battaglia del Centro Studi Livativo che sta dedicando energie a difendere un principio di laicità e di civiltà: «Su quelle pareti non ha funzione di culto, ma culturale e identitaria». Gli interventi dei giuristi Vari, Licastro e Cardia.
Sarà una sentenza storica, per questo è attesa dai giuristi con una certa apprensione. Quella di oggi è una giornata cerchiata di rosso sul calendario della Corte di Cassazione. Le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione sono chiamate a pronunciarsi sulla esposizione del Crocifisso nei luoghi pubblici. Approda al terzo grado di giudizio una vicenda iniziata da un docente di scuola superiore che durante le ore di insegnamento rimuoveva il Crocifisso andando contro la volontà degli studenti. Questi in maggioranza si erano espressi a favore della sua collocazione sulle pareti dell’aula, e disapplicando un provvedimento del Preside: per il suo comportamento, in conflitto anche col preside, al docente era stata irrogata la sospensione di 30 giorni dalle funzioni, sanzione ritenuta legittima in entrambi i gradi di merito.
Ora la vicenda approda in Cassazione per la pervicacia del docente che ha ingaggiato battaglia, essendo motivato anche dalla sua appartenenza all’Unione atei e agnostici razionalisti. E qui sta il primo punto: si tratta di una battaglia connotata ideologicamente.
I giudici della Corte Suprema sono chiamati a pronunciarsi se l’esposizione del Crocifisso comporti una lesione della libertà d’insegnamento e di quella di coscienza del docente, dando vita a una discriminazione a suo carico.
Il tema, dunque, è decisivo e si può estendere anche a tutti gli altri luoghi pubblici, non solo le scuole andando a imporre, nel caso in cui la Corte dovesse dare ragione al docente (negli altri due casi i tentativi sono andati falliti), la cosiddetta soluzione del muro bianco. Il Centro Studi Livatino segue da tempo la vicenda e si è occupato del tema anche con un apposito convegno il 30 giugno scorso.
Filippo Vari, giurista e membro del direttivo del Cs Livatino ha dedicato un articolo alla vicenda e ha fatto notare che «se il Crocifisso non è in grado d’incidere sul minore perché, come simbolo passivo, non influenza in modo confessionale l’insegnamento, tale ragionamento vale (ancor più) per l’adulto che impartisce l’insegnamento, e cioè il professore, come evidenziato dal giudice di primo grado». Secondo Vari «anche per la presunta discriminazione del professore hanno rilievo le considerazioni di Strasburgo sulla natura del simbolo religioso. Il professore, infatti, non è stato oggetto di un provvedimento sanzionatorio per aver espresso la sua posizione in materia religiosa e di coscienza; giustamente nessuno avrebbe potuto impedirglielo. Nemmeno (ovviamente) è stato richiesto un atto di approvazione, di ossequio verso il Crocifisso, che avrebbe potuto ingiustamente porre su un piano di differenziazione, discriminandolo, il non credente, contrario a compiere tale atto».
Il Livatino si è occupato del tema anche con altri due giuristi di fama.
Il primo è Angelo Licastro, ordinario di Diritto ecclesiastico all’Università di Messina. Licastro fa notare che il crocifisso alle pareti non ha una funzione di culto. «Basta scorrere i programmi di insegnamento per capire che l’esposizione del crocifisso nelle aule non assolve a questo tipo di funzione. Quindi i termini della questione mutano. In questo caso, diventa però centrale la natura di simbolo “passivo”. Il crocifisso non impedisce affatto che a scuola sia garantito e promosso il libero confronto delle idee e delle diverse visioni del mondo, sarebbe da mettere in conto semmai, ancora una volta, una situazione di errore o di falsa rappresentazione della realtà».
Anche Carlo Cardia, emerito di Diritto ecclesiastico dell’Università degli Studi Roma Tre e autorevole componente delle commissioni in materia di libertà religiosa e di rapporti con le confessioni religiose alla Presidenza del Consiglio ha posto l’accento sulla neutralità portata all’eccesso, «che cancella fede, religione e simbologia, che però non coincide con l’imparzialità, ma si trasforma nell’imposizione dell’irreligiosità, nella cancellazione dell’ispirazione spirituale che fonda e alimenta le qualità più alte dell’umanità»
Il punto che deriva dalla decisione della Corte, quindi è ancora una volta quello dell’imposizione di un’irreligiosità spacciata per laicità. «Nessuno – ha fatto notare Cardia - si è veramente soffermato sulle conseguenze che deriverebbero da una scelta negazionista o abolizionista così drastica: la perdita di significato complessiva di tutto la simbologia religiosa mondiale, la cancellazione e umiliazione di sentimenti, tradizioni, identità collettive che pure interessano nazioni, Stati, intere aree geografiche, o geopolitiche e culturali. Scegliendo l’opzione negazionista, si darebbe luogo alla c.d. “espansività” propria di ogni questione giuridica di principio».
Il giurista si è servito di un esempio: «Abolire i simboli religiosi di un Paese, addirittura nell’Europa intera, e perfino del mondo, sarebbe come se noi andassimo ad ammirare una splendida galleria rinascimentale e se la notte prima una mano avesse scolorito le tinte, annacquato gli sguardi, sfocato i lineamenti dei soggetti ritratti, della loro nascita, delle loro gesta. In questo caso noi non ammireremmo più quei personaggi e quelle idee vitali che trasmettono vita interiore, forza e debolezza, e riflettono la storia da cui provengono: li vedremmo trasformati in pallide ombre dell’Ade che si avviano verso un destino malinconico senza che nessuno le possa riconoscere».
Il punto cruciale – concludono dunque i giuristi - è che ogni tesi giuridica drasticamente negazionista/abolizionista nei confronti della simbologia religiosa non soltanto è contraria ai principi e alle norme ordinamentali attualmente vigenti, ma soprattutto viola la base stessa del diritto positivo che non può fungere da strumento distruttivo delle rispettive identità popolari e nazionali».
Andrea Zambrano
https://lanuovabq.it/it/il-crocifisso-torna-alla-sbarra-sara-una-sentenza-storica
LA MORTE DELLA SOUBRETTE
Carrà, addio al modello del secolo edonistico
Una vita piena, quella della Carrà, scomparsa ieri a 78 anni. Soldi, successo e soddisfazioni. Modello per i giovani del secolo edonistico. Ne è valsa la pena? Non c’è tempo per chiederselo: show must go on. Avanti un altro.
Si chiamava Raffaella Pelloni, ma la prima volta che la vidi aveva già assunto il nome d’arte di Carrà. Visto che si chiamava Raffaella, prenome che rimandava a un pittore, tanto valeva – le fu suggerito - associarsene un altro, Carlo Carrà. Dicevo che la vidi, unica attrice italiana, ne Il colonnello von Ryan del 1965, in mezzo a calibri internazionali come Frank Sinatra e Trevor Howard. La parte che faceva, certo, era quanto mai improbabile: per salvare degli ufficiali angloamericani fuggiti da un lager tedesco ne infila uno nella toilette del treno, poi si spoglia per depistare la ronda nazista che cerca i fuggiaschi.
Io ero un ragazzino, ma mi sembrò strano che nel 1943 o giù di lì una ragazza italiana si spogliasse in un cesso con uno mai visto prima. Ma il copione è il copione, e il «nazi» un genere letterario talmente affollato che un soggettista non sa più che cos’altro inventare (anche perché i ruoli sono praticamente fissi: i buoni sono sempre gli stessi e i cattivi pure).
Un’altra volta in cui la soubrette incrociò la mia vita fu in discoteca. La mia partner mi costrinse a esibirmi con lei nel tuca-tuca, il ballo che la Carrà aveva lanciato in televisione quando ne era diventata una presenza praticamente fissa. L’epoca dei balli-uno-al-giorno (shake, hully gully, letkiss, triangolo, surf, eccetera) era tramontata insieme a Rita Pavone e al suo geghegé, ma lei riuscì a imporre il suo anche se fuori tempo massimo.
Terzo e ultimo incontro (si fa per dire) fu quando, non sapendo più che cosa farle fare, le fu affidato uno dei primi talk-show, una cosa all’ora di pranzo in cui lei intervistava Vip dello spettacolo. Quel giorno guardai perché c’era Gilbert Bécaud, grandissimo cantautore internazionale e uno dei (pochissimi) miei graditi. A un certo punto lei gli chiese qual fosse il suo colore preferito. Lui si voltò verso l’interprete, che tradusse. A Bécaud scappò una smorfia eloquentissima che voleva dire: ma che razza di domande fa questa qui?
Spensi e da allora non me ne occupai più. Certo, quel suo sbatacchiare le testa mentre ballava rimase impresso pure a me, con quel caschetto di capelli che tornavano magicamente a posto grazie a una messa in piega fatta a regola d’arte. Dalla sua biografia risulta che, come Carla Fracci, entrò nel mondo dello spettacolo da bambina e non ne uscì più.
Ultimamente era diventata, e se ne vantava, un’«icona» del Gay Pride. Ma non c’è da farci troppo caso. L’ambiente dei creativi – e quello dello spettacolo lo è - ne è pieno ed è noto che chi va con lo zoppo impara a zoppicare, o almeno a trovarlo normale. Lei, per sua stessa ammissione, un padre non lo aveva mai avuto, visto che i suoi si erano separati in un tempo in cui i coniugi separati si contavano in Italia su una mano sola e il pensiero politicamente corretto di allora li costringeva quasi a vergognarsene.
Cresciuta da mamma e nonna, è chiaro che non trovasse affatto anormale per un bambino venir su da una coppia same-sex. Poi, svanita la fresca bellezza dei tempi in bianco e nero dell’ombelico al vento, ecco le canzoni mambo-rumba-chachachà dal ritmo scatenato e adattissime alle adunate da villaggio turistico estivo, da Com’è bello fa l’amore da Trieste in giù all’improbabile A far l’amore comincia tu, i cui versi mi hanno sempre lasciato perplesso: perché devo cominciare myself? tu sei andata un attimo in bagno? non sarebbe meglio aspettarti? Boh.
Luigi Piras Su «Il Timone» accennò anche ad altre canzoni ballabili, come Pedro e Maracaibo, con testi piuttosto equivoci; ma a chi si scatena in pista il testo non interessa. Neanche a chi li canta. Una vita piena, quella della Carrà. Soldi, successo e soddisfazioni. Modello per i giovani del secolo edonistico. Ne è valsa la pena? Non c’è tempo per chiederselo: show must go on. Avanti un altro/a.
Rino Cammilleri
-FUORI SCHEMA: HO SPARATO ALLA CARRA' di Andrea Zambrano
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RICCA DI VIRTÙ
Maria Goretti, una santità testimoniata dai fatti
In una riedizione di un suo libro Giordano Bruno Guerri ha rilanciato la sua vecchia polemica su santa Maria Goretti in cui sostiene che la Chiesa la proclamò santa pur senza credere alla sua santità. In realtà era una giovane ricca di fede e virtù, che perdonò in piena coscienza il suo omicida, poi convertitosi. E i Papi, da Pio XII a san Giovanni Paolo II, da Benedetto XVI a Francesco, lo hanno sempre insegnato.
Un po’ di anni fa, nel 1985, uscì un controverso libro dello storico Giordano Bruno Guerri dedicato alla figura di santa Maria Goretti, dal titolo Povera santa, povero assassino. La vera storia di Maria Goretti.
Lo scrittore ricorda le polemiche successive al suo libro nella recente revisione di un altro suo volume, Gli italiani sotto la Chiesa cattolica: «Nel 1985, in un saggio su santa Maria Goretti (Povera santa, povero assassino), sostenevo due tesi: a) Le miserabili condizioni culturali e sociali della bambina, che aveva undici anni e era analfabeta e affamata, non le permettevano di sviluppare una religiosità cosciente. La sua resistenza allo stupratore, che la uccise, fu comprensibilmente istintiva quanto il suo grido “Dio non vuole!”; b) Neanche in Vaticano si credeva ci fossero i termini del martirio e della santità, ma Pio XII dopo il 1945 aveva bisogno di un esempio per la gioventù cattolica corrotta dalla guerra e dall’occupazione anglo-americana (protestante) dell’Europa. Così il papa decise una santificazione tesa a incoraggiare la purezza sessuale dei giovani. […] Il Vaticano convocò una folta commissione di prelati, storici, medici, magistrati, che dopo un anno pubblicò un “libro bianco” per smontare le mie affermazioni […]. Alle contestazioni risposi con una nuova edizione del libro, quella attualmente in circolazione».
Ricordo in effetti le polemiche che circondarono l’uscita di quel libro intorno alla popolare figura di Maria Goretti (1890-1902). La storia di questa santa, la cui memoria liturgica cade oggi, 6 luglio, è molto conosciuta. Ma è il caso di rispondere alle due obiezioni del libro di Guerri.
L’autore sostiene che le miserabili condizioni economiche e l’ignoranza non avrebbero permesso a Maria Goretti di sviluppare una religiosità cosciente. Ma non si dice in certi ambienti che sono proprio l’ignoranza e la povertà a fomentare la religiosità? In che senso questa non sarebbe cosciente? Se accettiamo questa posizione, anche la coscienza politica non sarebbe sviluppata in chi è povero e ignorante, quindi non dovrebbe votare. Poi, quando parliamo di una ragazzina di quasi 12 anni, specialmente in quel tempo in cui si cresceva molto più rapidamente, si può certamente definire un’adolescente e non una bambina, visto che l’adolescenza va all’incirca dai 10 ai 18 anni.
Il racconto, poi, della violenza subita - fatto dallo stesso Alessandro Serenelli, che fu colui che tentò di violentarla - non fa proprio pensare ad una reazione da bambina: «Il 5 luglio 1902 i Serenelli ed i Goretti erano intenti alla sbaccellatura delle fave secche e Maria seduta sul pianerottolo che guardava l’aia, rammendava una camicia del giovane Alessandro. Ad un certo punto questi lasciò il lavoro e con un pretesto si avviò alla casa; giunto sul pianerottolo invitò Maria ad entrare dentro, ma lei non si mosse, allora la prese per un braccio e con una certa forza la trascinò dentro la cucina che era la prima stanza dove s’ entrava. Il racconto è dello stesso Alessandro Serenelli, fatto al Tribunale Ecclesiastico; Maria Goretti capì le sue intenzioni e prese a dirgli: “No, no, Dio non vuole, se fai questo vai all’ inferno”. Ancora una volta respinto, il giovane andò su tutte le furie e preso un punteruolo che aveva con sé, cominciò a colpirla; Maria lo rimproverava e si divincolava e lui ormai cieco nel suo furore, prese a colpirla con violenza sulla pancia e lei ancora diceva: “Che fai Alessandro? Tu così vai all’inferno…”, quando vide le chiazze di sangue sulle sue vesti, la lasciò, ma capì di averla ferita mortalmente. Le grida della ragazza a malapena sentite dagli altri, fecero accorrere la madre, che la trovò in una pozza di sangue, fu trasportata nell’ospedale di Orsenico di Nettuno, dove a seguito della copiosa perdita di sangue e della sopravvenuta peritonite provocata dalle 14 ferite del punteruolo, i medici non riuscirono a salvarla. Ancora viva e cosciente, perdonò al suo assassino, dicendo all’affranta madre che l’assisteva: “Per amore di Gesù gli perdono; voglio che venga con me in Paradiso”; fu iscritta sul letto di morte tra le Figlie di Maria, ricevé gli ultimi Sacramenti e spirò il giorno dopo, il 6 luglio 1902» (Famiglia Cristiana).
È davvero la fine edificante di una giovane cristiana che cercò di resistere ad una violenza contraria alla sua fede e che fu anche capace di perdonare. Certamente, come tutti noi avremmo fatto, tentò di resistere alla violenza con l’istinto, ma ha anche perdonato d’istinto? Non credo proprio, i fatti parlano, anni precedenti alla violenza ovviamente compresi.
Guerri dice che il Vaticano non credeva alla santità di Maria Goretti? Non si spiega allora perché, nel centenario del suo martirio (2002), un Papa, pure santo come Giovanni Paolo II, scrisse un messaggio al vescovo di Albano con queste parole: «Quale fulgido esempio per la gioventù! La mentalità disimpegnata, che pervade non poca parte della società e della cultura del nostro tempo, fatica talora a comprendere la bellezza e il valore della castità. Dal comportamento di questa giovane Santa emerge una percezione alta e nobile della propria e dell’altrui dignità, che si riverberava nelle scelte quotidiane conferendo loro pienezza di senso umano. Non v’è forse in ciò una lezione di grande attualità? Di fronte a una cultura che sopravvaluta la fisicità nei rapporti tra uomo e donna, la Chiesa continua a difendere e a promuovere il valore della sessualità come fattore che investe ogni aspetto della persona e che deve quindi essere vissuto in un atteggiamento interiore di libertà e di reciproco rispetto, alla luce dell’originario disegno di Dio. In tale prospettiva, la persona si scopre destinataria di un dono e chiamata a farsi, a sua volta, dono per l’altro».
E c’è poi Benedetto XVI, che ha definito Maria Goretti «una ragazza che, seppure giovanissima, seppe dimostrare forza e coraggio contro il male». Anche Papa Francesco in un messaggio al vescovo di Albano la celebra: «Questo recarvi nei luoghi in cui, viva, è la sua memoria, vi stimoli ad impegnarvi, come la Santa che venerate, ad essere testimoni del perdono». Insomma, questo è solo un florilegio delle tante citazioni che potremmo fare. Certo che Pio XII voleva un esempio di virtù cristiana da proporre ai giovani; i santi e le sante servono anche a questo.
Povera santa? No, dunque, ma sicuramente povero assassino, che però poi si convertì dopo aver pagato per legge la sua colpa, e che una volta uscito dal carcere chiese perdono alla madre di Maria per quello che lui aveva fatto. E poi, accolto dai Frati Cappuccini, trascorse il resto dei suoi giorni in un convento, in espiazione.
Aurelio Porfiri
https://lanuovabq.it/it/maria-goretti-una-santita-testimoniata-dai-fatti
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