GIUSTIZIA E "IL PERDONO DI DIO"
Si sente un gran parlare, nell’ambito della cultura cattolica, da qualche anno in qua (o meglio da qualche decennio) di perdono e misericordia, come se queste cose abolissero, o quanto meno superassero, la giustizia; come se le si potesse contrapporre alla giustizia, costringendo quest’ultima a riconoscere la loro superiore qualità morale. Partiamo dalla definizione tomista di giustizia: la ferma e costante volontà di dare a ciascuno il suo, come espressa nella Summa Theologica. Non vi è dubbio che Dio, essendo somma Giustizia, non deflette mai da questo principio: che consiste nel premiare quanti praticano il bene e castigare quanti si abbandonano al peccato. Il fatto che il peccatore possa venire perdonato non incrina la giustizia, perché il perdono è possibile laddove il peccatore si riconosce tale, ha orrore di essere tale, si pente e si duole con tutto il cuore e domanda a Dio il perdono delle proprie colpe.
In quel momento, il peccatore non è più peccatore: è un ex peccatore ravveduto e riconciliato con Dio; per cui la remissione della colpa (che non implica l’annullamento della pena) rientra perfettamente nella categoria della giustizia, tanto quanto la punizione del peccatore impenitente. Non si confondano le due cose: un conto è essere perdonati da Dio, dopo aver meritato la sua misericordia; e un altro conto è ostinarsi pervicacemente nel peccato, nel qual caso non può esservi perdono, quand’anche vi fosse il pentimento (si veda il caso di Giuda Iscariota), perché tale pentimento non è accompagnato dalla richiesta di perdono a Dio. Non domandare perdono a Dio significa disperare della sua bontà: il che aggiunge un nuovo e più grave peccato a tutti gli altri.
Il perdono delle offese e la misericordia verso il proprio simile, specie se vinto ed inerme, sono stati un enorme passo avanti nella storia delle società umane e sono un vanto specifico del cristianesimo. Nel mondo antico questi due concetti, perdono e misericordia, erano piuttosto l’eccezione che la regola: nessuno che li ignorasse si sentiva minimamente in difetto, anzi era fiero di aver esercitato il diritto del più forte. I poemi omerici ci mostrano una società che ignora il perdono e disprezza la misericordia, considerandola semmai una forma di pericolosa debolezza. Achille dice ad Ettore morente che non renderà il suo corpo ai genitori, ma lo abbandonerà in pasto ai cani; anzi dice che vorrebbe essere lui stesso un cane affamato e cibarsi delle sue carni per placare l’odio e la sete di vendetta che lo tormentano (Iliade, XXII). Ulisse, tornato a Itaca, non solo uccide i pretendenti di Penelope a tradimento, ma incarica suo figlio Telemaco d’impiccare le dodici serve che avevano parteggiato per costoro, dopo averle obbligate a lavare il sangue che lordava tutta la casa (Odissea, XXII). Nemmeno la parola data viene rispettata dagli eroi greci: dopo aver indotto il prigioniero troiano Dolone a dare tutte le informazioni utili sullo stato della città assediata, Diomede gli taglia la testa «mentre quegli stava ancora parlando» (Iliade, X). È un mondo terribile, senza pietà, senza compassione alcuna, dove non solo s’infierisce crudelmente sui vinti, ma si calpestano anche i giuramenti, pur di affermare se stessi e consolidare il proprio vantaggio nella continua rincorsa della aretè, equivalente alla virtus dei romani, ossia l’affermazione del proprio valore guerriero e della propria gloria fra gli uomini, che richiede sempre nuove lotte e sempre nuove vittorie, in una sanguinosa spirale senza fine. Oppure si pensi agli spettacoli romani del circo, ai combattimenti dei gladiatori e alle venationes, cioè ai combattimenti fra uomini e animali; e alle pubbliche esecuzioni che avvenivano nelle maniere più sadicamente ingegnose, con la croce, il fuoco, le belve, come se una mente diabolica le avesse lungamente escogitate.
Perdono e la misericordia aboliscono la giustizia? Non domandare perdono a Dio significa disperare della sua bontà: il che aggiunge un nuovo e più grave peccato, come fece Giuda Iscariota!
Poi è venuto il cristianesimo. Non ha abolito la violenza, non ha tolta la crudeltà: e questo perché i Santi, i veri cristiani, sono sempre stati un’esigua minoranza; nondimeno, una importanza che è riuscita a imprimere una nuova idea dell’uomo, creatura prediletta di Dio e chiamata alla sua figliolanza (perché gli uomini non sono automaticamente figli di Dio, ma chiamati a diventarlo). Il cristianesimo ha tolto le forme più raccapriccianti della crudeltà gratuita, come i combattimenti dei gladiatori, il diritto di morte del padrone sugli schiavi, il diritto all’infanticidio del padre che, per varie ragioni, non accetta il neonato. Ha anche cercato di limitare la guerra, di ridurre i giorni in cui era lecito combattere, e operato una distinzione fra la guerra giusta, quella che nasce da finalità etiche, come la propria difesa, e la guerra ingiusta, che è moralmente inaccettabile. Perfino nei processi dell’Inquisizione, checché se ne dica, lo scopo che si proponevano i giudici, salvo casi particolari di personalità malate, era salvare l’anima e, se possibile, anche la vita del processato. Al fianco dei conquistadores spagnoli e dei colonizzatori europei, i sacerdoti cattolici cercarono di limitare la violenza sugli indigeni; e per impulso del cristianesimo i Re Cattolici emanarono disposizione che, per quanto largamente aggirate o inevase, si proponevano di offrire una certa protezione ai nativi contro la prepotenza dei proprietari bianchi. Ma soprattutto un cambiamento si è verificato nella mentalità e nel sentire comune: atti di crudeltà come quelli narrarti dai poemi omerici, e riportati sopra, ad esempio l’impiccagione delle ancelle infedeli, in epoca cristiana avrebbero suscitato orrore. Non diciamo che sarebbero stati impossibili, perché l’uomo rimane sempre lo stesso, e i suoi istinti violenti non scompaiono se non si verifica un’intima, radicale conversione, il che non è mai accaduto per le masse, ma solo per alcuni individui che hanno risposto incondizionatamente alla chiamata dello Spirito. Gesù ha insegnato il valore del perdono e lo ha praticato fino all’ultimo, mentre lo stavano inchiodando al legno della croce, dicendo: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34).
D’altra parte, Gesù non ha mai insegnato, né praticato, il perdono all’ingrosso, né la misericordia a un tanto il chilo. È stato anzi durissimo verso certe categorie di peccatori (Mt 18,6-9):
6 Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. 7 Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!
8 Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. 9 E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco.
Il fatto che il peccatore possa venire perdonato non incrina la giustizia, perché il perdono è possibile laddove il peccatore si riconosce tale, ha orrore di essere tale, si pente e si duole con tutto il cuore e domanda a Dio il perdono delle proprie colpe!
E ancora, a proposito del traditore Giuda Iscariota (e con buona pace di Bergoglio, il quale assicura che Giuda è stato perdonato e quindi è destinato al Paradiso; Mt 26,21-25):
21 Mentre mangiavano disse: «In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà». 22 Ed essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». 23 Ed egli rispose: «Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà. 24 Il Figlio dell'uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell'uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell'uomo se non fosse mai nato!». 25 Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l'hai detto».
Una cosa è certa: perdono e misericordia, in termini cristiani, vanno considerati nella prospettiva dell’eternità: non sono concetti che si possano risolvere sul piano della realtà terrena e immanente. I teologi hanno quasi smesso di parlare dei Novissimi – morte, giudizio, inferno e paradiso - mentre un tempo essi erano al centro, e giustamente, della prospettiva cristiana, e i sacerdoti ne trattavano sovente nelle omelie, per non parlare della predicazione straordinaria, come si usava soprattutto nel tempo pasquale. Uno degli ultimi studi importanti sui Novissimi è quello del teologo Michael Schmaus (tradotto dalle Edizioni Paoline nel 1969, con il titolo I novissimi del mondo e della Chiesa); ma già il modernismo, grazie al cavallo di Troia del Vaticano II, stava sovvertendo la sana dottrina, e nelle facoltà teologiche tedesche, come poco dopo anche in quelle italiane, parlare di simili argomenti divenne rapidamente obsoleto, per non dire malvisto dalla stessa gerarchia, sempre più smaniosa di dialogare con chiunque e mettere da parte tutto ciò che abbia il sapore di una netta presa di posizione dottrinale, perché ritenuto “divisivo” e quindi “poco caritatevole”. Ma quando si parla di giustizia, misericordia e perdono bisogna fare attenzione a non smarrire la prospettiva finale, escatologica: allorché le cose terrene diverranno polvere e resterà solo ciò che è assoluto ed eterno. Tutto ciò che facciamo e che pensiamo in questa vita terrenaa, ha senso e valore solamente se posto in relazione con quel punto finale. Meditiamo ancora le Parole di Gesù (Mc 8,34-38):
34 Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. 35 Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà. 36 Che giova infatti all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima? 37 E che cosa potrebbe mai dare un uomo in cambio della propria anima? 38 Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi».
C’è una frase tremenda di Gesù, pronunciata durante a preghiera sacerdotale del Venerdì Santo, al termine dell’Ultima Cena, nella quale si rivolge solennemente al Padre celeste: io non prego per il mondo. In quell’invocazione, Gesù mette in evidenza la relazione esistente fra la verità e il bene:
6 Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 7 Ora hanno conosciuto che tutte le cose che mi hai date, vengono da te; 8 poiché le parole che tu mi hai date le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute e hanno veramente conosciuto che io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 9 Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dati, perché sono tuoi; 10 e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; e io sono glorificato in loro. 11 Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, quelli che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 12 Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 13 Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia gioia. 14 Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 15 Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 16 Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17 Santificali nella verità: la tua parola è verità. 18 Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 19 Per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati nella verità.
Gesù ha insegnato il valore del perdono e lo ha praticato fino all’ultimo, mentre lo stavano inchiodando al legno della croce, dicendo: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34).
Dunque, Gesù si rifiuta di pregare per il mondo. Ma cos’è il mondo, nel linguaggio del Quarto Vangelo? Lo dice san Giovanni nel grandioso e stupendo incipit (Gv 1,9.10): 9 Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. 10 Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Il mondo, allora, non è tutto il mondo, ma gran pare di esso: è quella parte del mondo che ha rifiutato e che rifiuta la luce di Cristo, perché preferisce le tenebre alla luce. Gli uomini infatti non hanno voluto accogliere la luce venuta ad illuminare il mondo, anche se non hanno potuto spegnerla (cfr. Gv 1,5). E ancora Giovanni (3,16-21):):
16 Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. 17 Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. 18 Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio. 19 E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. 20 Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. 21 Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio.
Perdono e la misericordia aboliscono la giustizia?
di Francesco Lamendola
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.