“Poi venne un altro angelo e si
fermò all’altare, reggendo un incensiere d’oro. Gli furono dati molti
profumi perché li offrisse insieme con le preghiere di tutti i santi
bruciandoli sull’altare d’oro, posto davanti al trono” (Apocalisse 8,
3).
Secondo la concezione dell’epistola agli
Ebrei, il tempio terreno di Gerusalemme e il suo altare erano
l’immagine del santuario che è in cielo ed in cui il Cristo, eterno
sacerdote, è entrato (9, 24). La liturgia celeste e la liturgia
terrestre sono una cosa sola. Così, secondo il passo dell’Apocalisse
citato in epigrafe, un angelo è fermo davanti all’altare d’oro del
cielo, con un incensiere d’oro in mano, allo scopo di offrire le
preghiere dei fedeli al cospetto di Dio. Anche la nostra offerta terrena
non diventa totalmente valida davanti a Dio se non è “condotta dalla
mano di un angelo sull’altare celeste”, come è detto nel canone della
messa romana.
La concezione secondo la quale l’altare
di quaggiù è un immagine dell’archetipo celeste che si trova davanti al
trono di Dio, ha sempre determinato sia la sistemazione dell’altare, sia
la posizione del sacerdote nei confronti di esso: e noi abbiamo visto
che l’angelo che regge l’incensiere d’oro è fermo davanti all’altare.
D’altra parte, le prescrizioni che Dio ha dato a Mosè (cfr. Esodo 30,
1-8) hanno certamente svolto un ruolo anch’esse.
Queste osservazioni preliminari erano
necessarie per far comprendere a che punto siano cambiate le concezioni
attuali circa l’altare. Questo cambiamento non è stato effettuato
brutalmente, ma poco la volta; si è cominciato diversi anni fa, prima
del Concilio Vaticano II.
Nella Richtlinien für die Gestaltung des
Gotteshauses aus dem Geist der römischen Liturgie (Istruzioni per la
sistemazione delle chiese nello spirito della liturgia romana), del
1949, Theodor Klauser sostiene che: “Certi segni fanno intravedere che,
nella Chiesa futura, il prete si terrà come un tempo dietro l’altare e
celebrerà col viso volto verso il popolo, come si fa ancora oggi in
certe basiliche romane; l’augurio, che si solleva dappertutto, di veder
più chiaramente espressa la comunione al tavolo eucaristico, sembra
esigere questa soluzione” (n° 8).
Ciò che Klauser presentava allora come
augurabile, come si sa, nel frattempo è divenuto quasi dappertutto la
norma. Si pensa di aver fatto rivivere così un uso della cristianità
delle origini. Ora, come dimostreranno chiaramente le spiegazioni che
seguono, si può provare con certezza che non si è mai avuta, né nella
Chiesa d’Oriente né in quella d’Occidente, alcuna celebrazione versus
populum (verso il popolo), ma che, al contrario, per pregare tutti si
volgevano sempre ad Oriente, ad Dominum (verso il Signore).
L’idea di un “faccia a faccia” tra il
sacerdote e l’assemblea, nel corso della messa, risale piuttosto a
Martin Lutero, il quale, nel suo piccolo libro Deutsche Messe und
Ordnung des Gottesdienstes (La messa tedesca e l’ordinazione del culto
divino), del 1526, all’inizio del capitolo Della domenica per i laici,
così scrive: “Noi conserveremo gli ornamenti sacerdotali, l’altare, le
luci fino all’esaurimento o fino a quando non riterremo di cambiarle.
Lasceremo, tuttavia, che altri possano fare diversamente; ma nella vera
messa, fra veri cristiani, occorrerebbe che l’altare non restasse com’è
adesso e che il prete si volgesse sempre verso il popolo, come senza
alcun dubbio Cristo ha fatto al momento della Cena. Ma questo può
attendere.” Ed ecco che il momento atteso è arrivato…
Per giustificare il cambiamento di
posizione del celebrante in rapporto all’altare, il Riformatore si
riferiva al comportamento di Cristo all’Ultima Cena. In effetti egli
aveva davanti agli occhi le abituali raffigurazioni dei suoi tempi: Gesù
in piedi o seduto a metà di una gran tavola, con gli Apostoli alla sua
destra ed alla sua sinistra.
Ma Gesù, ha effettivamente occupato tale posto?
Certamente non avvenne così, poiché
sarebbe stato contrario agli usi domestici dell’epoca. Al tempo di Gesù,
e ancora secoli dopo, si utilizzava sia una tavola rotonda sia una
tavola a forma di sigma (a semicerchio). Il davanti di essa veniva
lasciato libero, per permettere il servizio. I convitati erano seduti o
allungati dietro il semicerchio. Per far ciò utilizzavano dei divani o
un banco, anch’esso a forma di sigma. Il posto d’onore non si trovava,
come si potrebbe credere, in mezzo, ma a destra (in cornu dextro). Il
secondo posto d’onore stava di fronte al primo. Questa disposizione dei
posti la ritroviamo, in maniera costante, nelle raffigurazioni più
antiche della Cena di Gesù, fino a metà del Medio Evo. Il Signore è
sempre allungato o seduto dalla parte destra della tavola (fig. 4). È
solo verso il XIII sec. che si incomincia ad imporre un nuovo tipo di
raffigurazione: ed allora Gesù è posto dietro la tavola, in mezzo agli
Apostoli che lo circondano. È questa l’immagine che Lutero aveva davanti
agli occhi. In effetti, essa ha l’apparenza di una celebrazione versus
populum. Tuttavia, in realtà non si tratta di niente di simile, poiché
il “popolo” verso cui il Signore avrebbe dovuto volgersi, si sa che era
assente nella sala della Cena. Cosa questa, che toglie ogni valore
all’argomentazione di Lutero. D’altronde, per quanto ne sappiamo,
anch’egli non ha mai preteso che si celebrasse volti verso l’assemblea,
come in seguito hanno preso l’abitudine di fare i Riformati, soli fra le
comunità protestanti.
Prima domanda: È possibile. Ma
qual era la situazione nella Chiesa delle origini? I fedeli, non erano
dunque seduti con il presidente alla “tavola del Signore”?
Qui è opportuno distinguere tra
celebrazione dell’àgape – il pasto fraterno – e celebrazione
dell’eucaristia, che all’inizio seguiva l’àgape e più tardi la
precedette. Io ho già trattato a fondo la questione nel mio studio:
Beracha. Nei primi secoli, quando il numero dei membri della comunità
era ancora ristretto, si era conservata la stessa disposizione dei
posti, a fedele imitazione dell’Ultima Cena, tanto più che essa
corrispondeva agli usi dell’epoca. Diverse chiese domestiche della
Chiesa delle origini, di cui si sono ritrovate le fondamenta nelle
regioni alpine, lo provano chiaramente. Al centro di un locale
relativamente piccolo (circa 5 metri per 12,5), si trova un banco in
pietra semicircolare, capiente da quindici a venti posti (9). Nelle
città, ove il numero dei fedeli era più elevato, si era obbligati ad
aggiungere delle tavole supplementari. Il vescovo e i presbiteri stavano
seduti ad una di queste, i fedeli nelle altre, le donne separate dagli
uomini. Nell’epistola ai Gàlati (2, 11-12), l’apostolo Paolo rimprovera
all’apostolo Pietro di aver preso cibo con i giudei convertiti, evitando
i pagani convertiti. Ora, mentre per i pasti in comune, le àgapi, si
stava seduti a delle tavole, per la celebrazione dell’eucaristia ci si
alzava e ci si andava a porre dietro il celebrante, che stava
all’altare, come prescrive espressamente la Didascalia degli Apostoli,
una istruzione del II-III sec., che esigeva che ci si volgesse
esattamente verso Oriente (10).Con gli sviluppi successivi, una volta
soppressi i pasti fraterni (verso il IV sec.), le tavole sparirono. I
fedeli ormai stavano seduti su dei banchi disposti lungo i muri della
chiesa. La tavola d’altare, già in legno, divenne un altare in pietra.
Seconda domanda: Come ci si può
opporre agli altari moderni, rivolti verso il popolo, quando essi sono
stati prescritti dal Concilio e praticamente sono stati introdotti nel
mondo intero?
Nella Costituzione conciliare sulla
sacra liturgia, promulgata dal Concilio Vaticano II, si cercherà invano
una prescrizione che imponga di celebrare la santa messa volti verso il
popolo. Ancora nel 1947, papa Pio XII, nella su enciclica Mediator Dei
(n° 49), sottolineava come si sbagliassero coloro che volessero ridare
all’altare la sua antica forma di mensa (tavola). Fino al Concilio la
celebrazione verso il popolo non era autorizzata *, tuttavia essa era
tacitamente tollerata da numerosi vescovi, soprattutto per le messe dei
giovani. Da noi, in Germania, la nuova posizione del sacerdote fece la
sua apparizione con la Jugendbewegung (movimento della giovinezza),
negli anni venti, allorché si incominciò a celebrare l’eucaristia per
dei piccoli gruppi; a questo proposito, Romano Guardini aveva svolto il
ruolo di precursore, con le sue messe al castello di Rothenfels. Il
movimento liturgico diffuse quest’uso, soprattutto Pius Parsch, che
sistemò in questo senso, per la sua “parrocchia liturgica”, una piccola
chiesa romana (Santa Gertrude) a Klosterneuburg, vicino Vienna. Infine,
questi sforzi vennero approvati dall’istruzione della Congregazione dei
Riti Inter œcumenici, del 1964, che ha ispirato in seguito il nuovo
messale. Per le nuove costruzioni è qui prescritto che “È bene costruire
l’altar maggiore separato dal muro, perché si possa facilmente girarvi
attorno e vi si possa celebrare verso il popolo; esso sarà posto
nell’edificio sacro in modo da essere veramente il centro verso il quale
si volge spontaneamente l’attenzione dell’assemblea dei fedeli” (n°
91). Sfortunatamente, è esatto che i nuovi altari verso il popolo siano
stati installati dovunque nel mondo – almeno per quanto riguarda l’area
di diffusione della Chiesa cattolica. Ma, a rigore, essi non sono
prescritti. Nelle chiese ortodosse d’Oriente – ove, dopo tutto, vi sono
alcune centinaia di milioni di cristiani – si continua a rispettare
l’uso della Chiesa delle origini, secondo cui il sacerdote che celebra
il Santo Sacrificio è girato, insieme con i fedeli, verso l’àbside.
Questo vale sia per le Chiese di rito bizantino (greca, russa, bulgara,
serba, ecc.) sia per le Chiese dette di rito orientale antico (armena,
siriana, copta). Che l’altare debba essere scostato dal muro “perché si
possa facilmente girarvi attorno”, è un’altra questione. Questa esigenza
della Congregazione dei Riti si accorda perfettamente con la tradizione
** . Per più di dieci secoli, come fino ad oggi nelle chiese ortodosse
d’Oriente, l’altare è rimasto privo di sovrastrutture. Un cambiamento si
produsse all’epoca gotica, con l’apparizione delle pale. Queste
svolgevano in parte il ruolo dei dipinti dell’àbside e dei muri,
raffigurando le diverse tappe della salvezza: dall’Annunciazione
all’Ascensione del Signore. Mentre nelle piccole chiese gli altari erano
spesso addossati al muro dell’àbside, nelle grandi chiese, come abbiamo
visto, erano posti, fino all’epoca gotica, in mezzo al santuario. Ed
allora era possibile girarvi intorno al momento dell’incensamento, com’è
detto nel salmo 25: “…giro intorno al tuo altare, Signore, per far
risuonare voci di lode e per narrare tutte le tue meraviglie”. Per
sottolineare la santità dell’altare, questo – almeno nelle grandi chiese
– era generalmente sormontato da un baldacchino in materiale prezioso,
poggiante su quattro colonne. Ai quattro lati erano fissate delle
cortine; certo in riferimento alla tenda del Tempio di Gerusalemme, che
separava il Santo dei Santi (Sancta Sanctorum) dal santuario, come Dio
aveva prescritto a Mosè: “Farai il velo di porpora viola, di porpora
rossa, di scarlatto… Lo appenderai a quattro colonne di acacia,
rivestite d’oro… Collocherai il velo sotto le fibbie e là, nell’interno
oltre il velo, introdurrai l’arca della Testimonianza. Il velo sarà per
voi la separazione tra il Santo e il Santo dei santi” (Esodo 26, 31-33).
Come abbiamo già detto, nel rito bizantino è l’iconostàsi che attua la
separazione, ma, secondo la concezione ortodossa, essa rappresenta
anche, insieme alle icone, l’Ecclesia cœlestis (la Chiesa del Cielo) che
celebra di concerto con i fedeli, tanto che essa dev’essere
considerata, da quelli che partecipano alla celebrazione, non solo come
una separazione, ma anche come un oggetto di contemplazione. In altri
riti orientali non bizantini, l’iconostàsi manca; al suo posto vi sono,
come presso gli Armeni, due tende: una piccola davanti all’altare e una
grande che, in certi momenti della liturgia della messa, nasconde tutto
il coro agli occhi dei fedeli. E a questo proposito san Giovanni
Crisostomo dice: “Quando vedi chiudere le tende, pensa che in quel
momento il cielo si apre lassù in alto e ne discendono gli angeli” (11).
Secondo la testimonianza di Guillaume Durand, queste tende furono anche
usate in Occidente, fino a metà del Medio Evo. Egli parla di tre vela:
uno che ricopre le offerte del sacrificio, il secondo intorno all’altare
e il terzo sospeso davanti al coro (12). Mentre la Chiesa delle origini
dissimulava l’altare come poteva, ornandolo con tessuti preziosi e con
pendoni, ecco che oggigiorno questo stesso altare si trova posto, nudo,
in mezzo alla chiesa, esposto a tutti gli sguardi. La sua santità, in
quanto luogo delle offerte del sacrificio, si ritrova così meglio
evidenziata? Certamente no. A meno che non si voglia prendere in
considerazione – contro tutte le tradizioni – la sua funzione di tavola
da pasto e la si voglia rendere manifesta in tal modo. Allora,
certamente, non mi resta che inchinarmi… Ma, in questo caso, non si
tratta più di rendere presente quaggiù il mondo di lassù: si tratta solo
dell’uomo e del suo universo. L’universo di Dio, degli angeli, dei
santi, diventa marginale: ci sfiora appena. Forse, malgrado tutto, ci si
interesserà ancora a un uomo chiamato Gesù e a qualche passo
accuratamente selezionato del suo Vangelo!
Terza domanda: Tuttavia, non vi
era già nel Medio Evo un altare destinato al popolo, per di più un altar
maggiore, come lo abbiamo oggi?
Ciò è esatto nella misura in cui, nelle
chiese cattedrali e nei monasteri, vi era in genere, da dopo la fine
dell’epoca romana, un altare destinato al popolo, posto davanti al jubé;
quest’ultimo era una specie di chiusura del coro, un po’ più alta di
quella delle chiese antiche, con due entrate che davano sul coro dei
canonici o dei monaci, i quali, in tal modo, si trovavano separati dal
resto della chiesa. A causa della croce posta al di sopra di
quest’altare, o più esattamente sul jubé, l’altare stesso veniva
chiamato “altare della croce”. È su questo altare che, in queste chiese,
si celebrava la messa per il “popolo” ***, come ogni altra messa
destinata ad avere numerosi assistenti: la messa solenne per i funerali,
quella per l’incoronazione di un sovrano (fig. 5). Per di più si
predicava dall’alto del jubé e solo le messe conventuali (solenni)
venivano celebrate all’altar maggiore, nel coro. Dunque, in primo luogo
la funzione del jubé non era di elevare una barriera fra il clero e il
popolo – e per questo non può essere paragonato all’iconostàsi bizantina
– piuttosto esso era destinato a creare, per i canonici e per i monaci,
uno spazio apposito, ove si potessero svolgere le funzioni liturgiche
del coro (liturgia delle ore, messa conventuale) senza essere
disturbati. Per delle ragioni sia liturgiche che architettoniche è stato
del tutto irragionevole far sparire il jubé e l’altare della croce,
come è accaduto quasi dappertutto in Germania all’epoca dei Lumi, su
ordine delle autorità secolari (13). Come allora si procedette a delle
importanti modifiche architettoniche all’interno delle chiese – per far
sì che i fedeli potessero guardare direttamente l’altar maggiore – così
oggi, in seguito al Concilio, quasi tutte le chiese antiche sono state
ritoccate con dei lavori di “aggiornamento”. Chi giri adesso il mondo e
visiti le chiese, scopre, per la sistemazione del santuario, le
soluzioni più singolari. Soprattutto in Italia, dove è stato possibile,
gli altari barocchi sono stati privati della loro tavola d’altare che è
stata rimpiazzata dai seggi del celebrante e dei suoi assistenti. Si può
pensare che sia la meno felice delle soluzioni, visto che la pala perde
così la sua antica funzione di riferimento al sacrificio eucaristico
per vedersi “degradata” a semplice schienale dei preti. Se non fosse
che, nella maggior parte dei casi, l’antico altar maggiore, col suo
tabernacolo, serve solo a conservare la santa comunione, così che
occorre rassegnarsi al fatto che il sacerdote, in piedi davanti
all’altare verso il popolo, gira costantemente le spalle al tabernacolo,
lo stesso su cui fino a ieri si fissavano gli occhi dei fedeli in
preghiera. Quando occorre, è la corale parrocchiale che si installa sui
gradini dell’altar maggiore, con i cantori che volgono anch’essi le
spalle al tabernacolo e si servono della tavola d’altare per poggiarvi i
loro diversi accessori. Allorché le considerazioni artistiche lo hanno
permesso, l’altar maggiore è stato totalmente soppresso, e l’eucaristia
viene conservata in un tabernacolo murale laterale; ed allora sorge
subito il problema di come occupare lo spazio così liberato dell’àbside.
Le soluzioni adottate sono le più diverse. Spesso vi si è installato
l’organo, con la sua cassa decorativa, oppure, per la maggior parte del
tempo, la corale parrocchiale, oppure si è semplicemente appeso al muro
dell’àbside l’antica pala d’altare o un pendone di valore, come fossero
degli ornamenti. In definitiva, ognuna di queste soluzioni non è
soddisfacente, poiché, installando un nuovo altare, per di più
dall’apparenza molto modesta, si è fatto sparire il centro di gravità
spaziale costituito dall’altar maggiore, così come era stato concepito
dall’architetto che aveva costruito la chiesa. Senza alcun dubbio, A.
Lorenzer ha ragione allorché scrive: “Il significato dell’altare, a
questo punto, fa parte integrante della chiesa… che lo spostamento di
questo “centro di gravità spaziale” dovrebbe indurre ad elaborare un
piano interamente nuovo” (14). La cosa assume un’evidenza impressionante
nelle grandi chiese, come per esempio nella cattedrale di Spira, ove lo
sguardo di coloro che vi entrano si posa subito sull’antico altar
maggiore sormontato dal suo baldacchino. Oggi quest’altare sembra
fluttuare nel vuoto: la tavola d’altare installata nel coro, malgrado le
sue dimensioni, si nota appena in questo spazio tutto volto in altezza,
mentre l’altare verso il popolo, alcuni gradini più in basso, non
costituisce affatto un “centro di gravità spaziale”.
Quarta domanda: Nell’Handbuch
der Liturgie für Kanzel, Schule und Haus (Manuale di liturgia per la
cattedra, la scuola e la casa), del P. Alfons Neugart (1926), si legge:
“Nella basilica della Chiesa delle origini, l’altare era posto in mezzo
all’àbside del coro e il prete celebrante si metteva dietro di esso,
rivolto verso il popolo. Sull’altare non vi erano né croce né luci. I
seggi del vescovo e degli ecclesiastici erano disposti tutt’intorno,
lungo il muro. È solo più tardi che l’altare venne posto contro il muro,
come oggi”. È esatto?
La cosa esatta è che nei primi secoli, i
seggi dei vescovi e dei sacerdoti erano posti lungo il muro dell’àbside
e non ai lati dell’altare; in ambito greco essi erano spesso nettamente
rialzati su diversi scalini, di modo che il vescovo, assiso sul trono,
potesse esser visto da tutti e meglio ascoltato al momento del suo
sermone, che un tempo pronunciava dal suo seggio. Il seggio centrale era
sempre riservato al vescovo, come accade ancora oggi in Oriente. È
anche esatto che a quel tempo sull’altare non vi fosse né croce, né
luci, né leggio per il messale, ma solo il calice e la patena con le
offerte; lo si può constatare nelle raffigurazioni medievali della
messa; e se fino ad un’epoca recente si usava decorare con dei fiori il
pavimento della chiesa, l’altare non veniva mai decorato. Ecco perché in
genere gli altari erano piccoli, con una tavola che raramente
raggiungeva un metro quadrato. Nel chiostro della cattedrale di
Ratisbona vi è, per esempio, un piccolo altare massiccio in pietra, che
risale ad un’epoca molto antica, mentre vi si trova anche, nella
“cattedrale antica”, un grandissimo altare di due metri e dieci per un
metro e quaranta, che risale probabilmente al V secolo e che rappresenta
una “confessione”, vale a dire che faceva parte della tomba di un
martire. Ecco spiegata la sua taglia (15)! La limitata superficie della
maggior parte degli altari lasciava posto solo per le offerte del pane e
del vino: questa particolarità sottolineava significativamente il
carattere sacrificale della messa, come accadeva per i sacrifici dei
Giudei e dei pagani, per i quali solo le offerte propriamente dette
trovavano posto sull’altare. Gli altari di grande dimensione erano rari
nei tempi antichi, eppure, al pari degli altri che abbiamo citato,
anch’essi erano riccamente ornati di stoffe preziose che cadevano dai
quattro lati fino a terra, di modo che le tavole che ricoprivano non si
presentavano come tali. Più tardi, in molti posti, si dispose sul lato
anteriore degli altari un pendone di stoffa, di legno e di metallo
riccamente ornato. Così che non si può affermare che il carattere di
pasto della messa sia stato sottolineato dagli altari a forma di tavola.
Parleremo dopo più a fondo della posizione del sacerdote all’altare ai
tempi della Chiesa delle origini. Qui ricordiamo solo quanto scriveva
sulla rivista Der Seelsorger, nel 1967, quindi poco dopo il Concilio, il
P. Josef A. Jungmann, autore di un lavoro celebre, Missarum sollemnia:
“L’affermazione spesso ripetuta che l’altare della Chiesa delle origini
supponesse sempre che il prete fosse rivolto verso il popolo, si rivela
essere una leggenda”. Inoltre, Jungmann mette in guardia contro il
pericolo che, auspicando l’adozione dell’altare verso il popolo, “se ne
faccia un’esigenza assoluta e, alla fine, una moda alla quale ci si
sottometta senza riflettere”. Secondo lui, la ragione principale di
questa raccomandazione di celebrare rivolti verso il popolo è la
seguente: “Vi è qui, innanzi tutto, l’accento esclusivo che oggigiorno
si ama tanto mettere sul carattere di pasto dell’eucaristia”. Da parte
sua, il cardinale Joseph Ratzinger ha sempre più messo in guardia, in
questi ultimi anni, contro il rischio di considerare la liturgia sotto
il solo aspetto di “pasto fraterno” (16).
Quinta domanda: Il papa non
celebra da tempo immemorabile rivolto verso il popolo, e non v’è in San
Pietro, a Roma, un altare isolato su un podio, come nella maggior parte
delle chiese moderne?
Sembrerebbe esatto che l’idea di un
altare centrale isolato su un podio sia, in qualche modo, già
prefigurata nella chiesa barocca di San Pietro (certo non nella chiesa
costantiniana che l’ha preceduta): l’altare papale, leggermente
sopraelevato, si trova isolato nel mezzo della chiesa, proprio al di
sotto della cupola centrale, posta esattamente sopra la confessione con
la tomba del Principe degli Apostoli; esso è facilmente visibile da ogni
parte, sia dalla navata sia dai due bracci del transetto. Chi una volta
partecipava alle messe papali notava che il papa non era posto, come
nel resto della cristianità, davanti all’altare, bensì dietro. Alcuni
liturgisti ne deducevano, avventatamente, che in tal modo si fosse
conservata la posizione “verso il popolo”, posizione risalente alla
Chiesa delle origini. In realtà si tratta, come abbiamo visto,
dell’orientamento nella preghiera: la chiesa di San Pietro, a differenza
delle chiese antiche, non ha l’àbside ad Est, bensì ad Ovest. Tuttavia,
come dimostrano le foto scattate prima dell’elevazione al Soglio di
Paolo VI, che intraprese la trasformazione dell’altare papale, i fedeli
presenti potevano appena intravedere il papa, a causa dell’enorme
dimensione dei candelieri e della croce, posti sull’altare. Non è dunque
possibile, a stretto rigore, parlare di celebrazione versus populum.
Non si trattava di un privilegio papale, come talvolta è stato
affermato. Infatti vi sono a Roma delle altre chiese il cui àbside è
posto ad Occidente e non ad Oriente e in cui il celebrante è ugualmente
posto dietro l’altare. Nelle chiese moderne, costruite dopo il Concilio,
si trova spesso, come a San Pietro, un altare isolato su un podio, ma
ad esso manca il coronamento del primo: il baldacchino. Siccome si
tratta di un podio isolato in mezzo alla chiesa, e dunque sprovvisto di
ogni orientamento – e circondato dalle fila di sedie dei fedeli – è
difficile trovare un posto adeguato per la croce dell’altare, di cui
abbiamo esposto prima la funzione di punto di riferimento, croce che
tuttavia continua ad essere richiesta dalle nuove regole liturgiche.
Nell’Institutio generalis del nuovo messale, si prescrive: “Del pari,
sull’altare o in prossimità di esso, vi sarà una croce, ben visibile
dall’assemblea” (n° 270). Era questo il caso dell’”altare della croce”
medievale ****, ma non lo è più adesso quando si verifica che, per
soddisfare in una maniera o in un’altra questa prescrizione, si finisce
con l’usare una piccola croce o a fianco dell’altare o poggiata su di
esso.
Sesta domanda: Andava dunque
bene che il sacerdote pregasse, come accaduto finora, in direzione del
muro? Molto meglio vederlo girato verso l’assemblea!
Allorché si pone davanti all’altare, il
sacerdote non prega in direzione di un muro, ma, insieme a tutti coloro
che sono presenti, prega in direzione del Signore. Tanto più che fino ad
adesso la cosa che più importava non era tanto di realizzare una
qualche comunione, bensì di rendere il culto a Dio, tramite la
mediazione del sacerdote, che rappresentava i partecipanti ed era unito
ad essi. Parlando della direzione della preghiera, sant’Agostino,
vescovo di Ippona, scrive: “Quando ci alziamo per pregare, ci volgiamo
verso l’Oriente (ad orientem convertimur), da dove si alza il cielo. Non
perché Dio si troverebbe solo lì, non perché Egli avrebbe abbandonato
le altre regioni della terra… ma perché lo spirito sia esortato a
volgersi verso una natura superiore, e cioè verso Dio” (17). Questo
spiega perché dopo il sermone, i fedeli si alzavano per la preghiera e
si volgevano verso Oriente. Sant’Agostino li invitava spesso a farlo
alla fine dei suoi sermoni, impiegando a mo’ di formula consacrata le
seguenti parole: “Conversi ad Dominum… (Rivolti al Signore). Possiamo
ricordare qui le parole di san Paolo. Conscio che “finché abitiamo nel
corpo siamo in esilio lontano dal Signore, camminiamo nella fede e non
ancora in visione” egli preferisce essere “in esilio dal corpo ed
abitare presso il Signore” (ad Dominum) (2 Corinti 5, 6-8). Così,
volgersi verso il Signore e guardare ad Oriente era, per la Chiesa delle
origini, una sola e medesima cosa. Nella sua opera fondamentale, Sol
salutis (1920), Joseph Dölger si dice convinto che la risposta del
popolo: “Habemus ad Dominum” (Sono rivolti al Signore), al richiamo del
sacerdote: “Sursum corda” (In alto i nostri cuori!), significasse anche
che ci si volgeva verso Oriente, verso il Signore (p. 256). A questo
proposito, Dölger fa osservare che certe liturgie orientali prevedono
espressamente questo invito, con un appello espresso dal diacono prima
della preghiera eucaristica (anaphora) (p. 251). È il caso dell’anàfora
copta di san Basilio, che comincia: “Accostatevi, voi uomini,
mantenetevi rispettosi e guardate ad Oriente!”, ed anche dell’anàfora di
san Marco, in cui lo stesso appello (Guardate ad Oriente!) viene
espresso nel mezzo della preghiera eucaristica, prima del passaggio che
conduce al Sanctus. La breve descrizione liturgica del secondo libro
delle Costituzioni apostoliche (un’istruzione del IV secolo), dice
anch’essa che ci si alza per pregare e ci si volge verso Oriente (18) .
L’ottavo libro ci riporta l’appello corrispondente lanciato dal diacono:
“Tenetevi in piedi verso il Signore!” (19). Come si può vedere, anche
qui vi è il parallelismo fra il guardare ad Oriente e il volgersi verso
il Signore. L’uso della preghiera in direzione del sol levante è da
tempo immemorabile, come ha dimostrato anche Dölger; lo si ritrova
presso i Giudei e presso i Romani. Vitruvio, nel suo lavoro
sull’architettura, scrive: “I templi degli dei devono essere posizionati
in modo tale che… l’immagine che è nel tempio guardi verso ponente,
affinché coloro che andranno a sacrificare siano rivolti verso Oriente e
verso l’immagine, di modo che, nel pregare, guardino sia il tempio sia
la parte del cielo che è a levante, mentre le statue sembrano levarsi
insieme al sole per guardare coloro che le pregano nei sacrifici” (20).
Per Tertulliano (200 ca.) la preghiera verso Oriente è cosa scontata.
Nel suo piccolo libro, Apologeticum, egli ricorda che i cristiani
“pregano in direzione del sol levante” (cap. 16). Questo orientamento
nella preghiera è stato evidenziato molto presto nelle case, con una
croce sul muro. Se ne trova una in un locale di un piano superiore di
una casa di Ercolano, seppellita dall’eruzione del Vesuvio del 79 (21).
Settima domanda: Ma, se non
altro, vi sono degli studi, come quello conosciuto del prof. Otto
Nussbaum, nei quali si dimostra scientificamente che fin dai tempi più
remoti si sono avute delle celebrazioni verso il popolo, e che queste
fossero anche le più antiche.
Nel suo studio di grande respiro, Der
Standort des Liturgen am christlichen Altar (Il posto del liturgo
all’altare cristiano), apparso nel 1965, Nussbaum scrive: “Quando
comparvero gli edifici cultuali propriamente detti, non vi erano delle
regole precise che fissavano da che parte dell’altare dovesse mettersi
il liturgo. Egli poteva rimanere sia davanti che dietro l’altare” (p.
408). Egli ritiene che la celebrazione versus populum sia stata
preferita fino al VI secolo. Tuttavia Nussbaum non distingue a
sufficienza tra le chiese con l’àbside ad Est e quelle con l’àbside ad
Ovest e la cui entrata era dunque ad Est. Quest’ultimo orientamento è
quasi esclusivo delle basiliche del IV secolo, specialmente di quelle
fatte erigere dall’imperatore Costantino e da sua madre Elena, come per
esempio la chiesa di San Pietro a Roma. Ma, dall’inizio del V secolo,
san Paolino da Nola indica come abituale (usitatior) l’àbside ad Est
(22). In effetti, le basiliche con l’entrata ad Est si trovano
soprattutto a Roma e nell’Africa del Nord, mentre sono relativamente
rare in Oriente (a Tiro e ad Antiochia). L’entrata ad Oriente (basiliche
costantiniane) imitava la disposizione del Tempio di Gerusalemme (cfr.
Ezechiele 8, 16), come di altri templi antichi, le cui porte aperte
lasciavano entrare la luce del sol levante, che faceva scintillare
all’interno la statua del dio. Nelle basiliche cristiane con l’entrata
ad Est, il celebrante era obbligato normalmente a rimanere davanti al
lato “posteriore” dell’altare, al fine di essere rivolto ad Oriente al
momento dell’offerta del Santo Sacrificio, esattamente come nelle chiese
con l’àbside ad Oriente, nelle quali egli rimaneva “davanti” all’altare
(ante altare), quindi con le spalle all’assemblea. Per il fatto che in
certe basiliche con l’àbside ad Est vi fosse posto dietro l’altare anche
per il celebrante, si è dedotto a volte che quest’ultimo si ponesse da
questo lato, volgendosi così verso il popolo; specialmente quando
nell’àbside vi era anche un banco per i sacerdoti, con un trono per il
vescovo. Ora, si tratta di una conclusione chiaramente errata – adottata
peraltro da Nussbaum – come si dimostra, in maniera irrefutabile, con
l’aiuto degli scavi archeologici (23). Se così non fosse, per quale
motivo si sarebbero costruite queste chiese esattamente orientate ad
Est?
Ottava domanda: Quando il
sacerdote si trovava posto “dietro” l’altare, nelle chiese che avevano
l’àbside ad Occidente, come San Pietro a Roma, non si finiva, malgrado
tutto, col celebrare rivolti al popolo?
No! Infatti, durante la preghiera
eucaristica (canon missæ), non solo il celebrante, ma anche i fedeli si
volgevano ad Oriente. Come ha fatto osservare san Giovanni Crisostomo
(24), nei tempi antichi i fedeli stendevano le mani nel corso della
preghiera, al pari del sacerdote (cfr. fig. 9, p. 46), e tutti
guardavano in direzione delle porte aperte della chiesa, da dove
penetrava la luce del sol levante, simbolo di Cristo resuscitato che
ritorna. Al di là della particolare venerazione per il sol levante che
aveva il costruttore di queste basiliche, l’imperatore Costantino,
certamente ha avuto la sua influenza questo passo del profeta Ezechiele
(43, 1-2): “Mi condusse allora verso la porta che guarda a Oriente, ed
ecco che la gloria del Dio di Israele giungeva dalla via orientale…”. In
tal modo, con le porte della basilica aperte sull’Oriente, ci si
aspettava che il Cristo venisse a partecipare alla celebrazione
dell’eucaristia, come dopo la sua resurrezione era apparso più volte ai
suoi discepoli durante il pasto (cfr. Luca 24, 36-49; Giovanni 21; Atti
1, 4). All’origine i fedeli – donne e uomini separati – non stavano
nella navata centrale, ma in quelle laterali *****, cosa questa che
implicava che, nelle chiese antiche, il numero delle navate laterali
potesse arrivare fino a sei (quelle del Laterano e di San Pietro, a
Roma, ne hanno solo quattro). In definitiva, questo modo di prender
posto nelle navate laterali corrispondeva all’abitudine di fermarsi
lungo i muri laterali delle piccole chiese della cristianità delle
origini. Tale abitudine è ancora oggi in atto nelle chiese d’Oriente: la
navata o lo spazio centrale sotto la cupola rimangono liberi per le
funzioni. I fedeli anziani prendono posto su delle sedie (stasidien)
lungo i muri della chiesa e nelle navate laterali, gli altri assistono
alla messa in piedi. In Oriente, la posizione del corpo più conveniente
per la partecipazione liturgica, è quella in piedi, e non
l’inginocchiarsi, com’era da noi una volta; tale posizione esige una
grande disciplina fisica, soprattutto nel corso di offici che si
prolungano. Come si evince da certi scavi e dalle raffigurazioni che
sono state trovate (fig. 6), nelle basiliche costantiniane e
nord-africane l’altare era quasi al centro della navata. Esso era
attorniato da ogni lato da un recinto e, in genere, era sormontato da un
baldacchino ******. Il coro dei cantori (schola cantorum) prendeva
posto davanti al celebrante. Nelle chiese di Ravenna, benché fossero
tutte orientate, si conservò per lungo tempo questa disposizione
dell’altare e della schola in mezzo alla navata (25): la cosa è
attestata fino all’VIII secolo. Lo stesso accadeva nella chiesa
costantiniana di San Pietro, a Roma: l’altare non si trovava, come si
potrebbe pensare, al di sopra della tomba dell’Apostolo, ma quasi al
centro della navata centrale. In corrispondenza di dove era sotterrato
il Principe degli Apostoli, vi era una “memoria” senza altare,
sormontata da un baldacchino a colonne, come si può vedere in una
raffigurazione molto antica, quella dello scrigno d’avorio di Pola (fig.
7). La supposizione spesso avanzata che vi fosse già un altar maggiore
mobile, là ove i pellegrini entrano ed escono per visitare la tomba
dell’Apostolo, non ha avuto alcun riscontro. Poiché, nella basiliche con
l’àbside ad Occidente e l’altare in mezzo alla navata centrale, i
fedeli si disponevano, come abbiamo visto, lungo le navate laterali –
fra le cui colonne vi erano, peraltro, dei tendaggi che si aprivano
durante la messa – di fatto non volgevano le spalle all’altare; cosa che
peraltro non avrebbe neanche potuto essere supposta visto il rispetto
che si portava alla santità dell’altare; bastava una leggera rotazione
del corpo per volgersi, senza difficoltà, in direzione dell’entrata,
verso Oriente. Anche nel caso inverosimile che nel corso della preghiera
eucaristica i fedeli non guardassero verso l’entrata, ma verso
l’altare, resta il fatto che, anche così, non si sarebbe potuto
verificare il faccia a faccia tra il celebrante e l’assemblea, poiché,
come abbiamo già detto, nei tempi antichi l’altare era nascosto dalle
tende. A partire dal Medio Evo, l’altare di queste basiliche venne
generalmente trasferito verso l’àbside. Nella chiesa di San Pietro ciò
avvenne, come si sa, nel 600, sotto il papato di Gregorio Magno, il
quale apportò anche importanti modifiche al coro e fece costruire una
cripta circolare che permettesse ai pellegrini di recarsi liberamente
alla tomba dell’Apostolo, senza dover passare per il presbiterio (fig.
8). Col passare degli anni, il popolo si dispose via via nella navata
centrale. In una certa epoca (impossibile da precisare oggi), in queste
basiliche costantiniane, gli assistenti smisero di volgersi verso
Oriente, per rimanere rivolti all’altare; fu allora che si giunse ad una
parvenza di celebrazione versus populum.
Nona domanda: Qual era la
posizione del sacerdote e dei fedeli, in quelle chiese che avevano
l’àbside orientato, chiese che costituivano, come si sa, la maggioranza
dei santuari antichi?
Nelle basiliche a navate multiple e con
l’àbside orientato, i partecipanti alla messa si disponevano in piedi
lungo le navate laterali e in fondo alla navata centrale. In tal modo
formavano una sorta di semicerchio aperto verso Oriente; il celebrante
si veniva a trovare così nel punto di convergenza di questo semicerchio
(al centro del cerchio virtuale). Invece, nelle basiliche che avevano
l’àbside ad Occidente, il sacerdote, i chierici ed i cantori si venivano
a trovare alla sommità di questo stesso semicerchio. Quando, più tardi,
i fedeli finirono con l’occupare l’intera navata centrale, disponendosi
in colonna, si venne a creare qualcosa di dinamico, che somigliava alla
colonna del popolo di Dio in marcia nel deserto, in direzione della
terra promessa: come se la posizione verso Est indicasse anche la meta
della colonna: il Paradiso perduto che si cercava ad Est (cfr. Genesi 2,
8). Il celebrante e i suoi assistenti formavano la testa della colonna.
La disposizione iniziale, quella che componeva un semicerchio, si
presentava invece come composta secondo un princìpio statico: l’attesa
del Signore che era asceso in cielo verso Oriente (cfr. Salmi 67, 34;
Zaccaria 14, 4) e da lì sarebbe ritornato (cfr. Matteo 24, 27; Atti 1,
11); come quando si riceve una personalità eminente, e si arretra, a
formare un semicerchio, per accogliere in mezzo l’ospite d’onore. San
Giovanni Damasceno scrive: “Al momento della sua Ascensione, egli salì
verso Oriente, è così che l’adorarono gli Apostoli, ed è così che
ritornerà, allo stesso modo in cui lo videro salire in cielo, come ha
detto il Signore stesso: “Come la folgore viene da oriente e brilla fino
a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo” (Matteo 24, 27).
Ecco perché l’attendiamo e l’adoriamo rivolti ad Oriente: è una
tradizione non scritta degli Apostoli” (26). Sulla base di questa
concezione, a partire dal VI secolo circa, in numerose chiese – come si
vede nelle pitture dell’epoca a Bawit, in Egitto – si raffigurava
l’Ascensione del Signore sotto la volta principale dell’àbside: in alto
il Cristo glorioso condotto da due angeli, al di sotto Maria, che
rappresentava la Chiesa, in preghiera con le mani volte al cielo, alla
sua destra ed alla sua sinistra gli Apostoli. Questa raffigurazione
rappresentava sia la glorificazione di Gesù in cielo sia la sua seconda
venuta, secondo le parole rivolte dai due angeli agli Apostoli al
momento dell’Ascensione: “Questo Gesù che è stato di tra voi assunto
fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto
andare in cielo” (Atti 1, 11) (27). Più tardi, nei dipinti delle àbsidi
in Occidente, il Cristo in trono nella mandorla fu tratto da queste
antiche raffigurazioni, e, come Majestas Domini circondata dai simboli
dei quattro evangelisti, divenne il tipico dipinto delle àbsidi
dell’arte romana. Nell’Oriente bizantino il Signore che ascende in cielo
venne dipinto sia sotto la volta principale dell’àbside, come
Pantocrate, sia sotto la cupola che sovrastava l’altare insieme al
complesso dell’Ascensione; in quasi tutti i casi, però, la Madre di Dio
non vi figurava più perché la sua immagine era riservata alla
decorazione dell’àbside (fig. 2). Il posto centrale attribuito a Maria
nell’àbside si deve sicuramente ad un passo dell’Apocalisse: “Allora si
aprì il santuario di Dio nel cielo e apparve nel santuario l’arca
dell’alleanza… Nel cielo apparve poi un segno grandioso: un donna
vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una
corona di dodici stelle” (Apocalisse 11, 19; 12, 1). Si noterà qui la
relazione tra Maria-Ecclesia e Arca dell’Alleanza, ma anche il fatto che
il velo del tempio – e cioè il santuario che questo copriva – si apriva
solo in certi momenti ben precisi. Il mistero, il tremendum, esige
d’esser velato, e così nasce il desiderio di vederlo rivelarsi; cosa che
oggigiorno si dimentica troppo facilmente. L’apostolo Paolo scrive:
“Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo
a faccia a faccia” (I Corinti 13, 12). Guardare ad Est non significa
solo guardare al Signore trasfigurato in cielo e atteso alla fine dei
tempi, ma esprime anche il desiderio della manifestazione ultima, della
rivelazione della gloria futura.
Decima domanda: Tuttavia, il
fatto che nelle più antiche basiliche romane l’altare e l’àbside
potessero trovarsi in tutte le direzioni è in contraddizione con
l’affermazione che alle origini si sarebbe sempre pregato verso Est e
che di conseguenza le chiese fossero “orientate”. Come si spiega?
Il fatto è che in questo caso si tratta
di chiese edificate su del materiale da costruzione risalente
all’Antichità, oppure di chiese che le condizioni locali non
permettevano che venissero perfettamente orientate. Tuttavia, questo non
impediva che il sacerdote ed i fedeli si volgessero insieme verso
l’Oriente per la preghiera e il sacrificio, come voleva l’uso cristiano
abituale. Così, per esempio, la celebre chiesa di San Clemente, a Roma,
che è stata edificata su delle antiche fondazioni, ha l’entrata a
sud-est: ecco perché il celebrante si dispone dietro l’altare;
d’altronde, una celebrazione davanti l’altare non sarebbe assolutamente
possibile, data la disposizione dei luoghi. Per guardare verso Oriente,
al momento del Santo Sacrificio, al sacerdote basta girare leggermente
il corpo; lo stesso dicasi per i fedeli disposti nelle navate laterali
(a San Clemente la navata centrale serve per la schola, in essa si
trovano anche i due amboni per la lettura dell’epistola, del graduale e
del Vangelo). Nel suo libro, Le rite et l’homme, Louis Bouyer scrive:
“L’idea che la basilica romana sarebbe la forma ideale della chiesa
cristiana, perché permetterebbe una celebrazione in cui il prete e i
fedeli si disporrebbero faccia a faccia, è un completo controsenso. È
l’ultima delle cose a cui gli antichi avrebbero pensato” (p. 241). Ad
ogni modo, come abbiamo già visto, il preciso orientamento delle chiese,
come lo si riscontra a partire dal IV-V secolo, non avrebbe avuto senso
se non fosse stato in stretta relazione con l’orientamento nella
preghiera. A sostegno dell’opinione secondo la quale l’altare
propriamente detto (e la croce che lo sovrasta) sarebbe il punto di
riferimento verso il quale si volgono i fedeli e che, idealmente,
dovrebbero attorniare, si ama citare, a mo’ d’esempio, l’espressione del
memento dei vivi, del canone della messa: “… et omnium circumstantium…”
(… e di tutti i circostanti…). Occorre precisare che, nel suo
significato filologico, il termine circumstantes contenuto in questa
espressione designa globalmente “le persone presenti” e non solo “quelli
che si trovano in cerchio intorno a…”; tant’è che, dagli scritti
dell’epoca, non si ha notizia di casi di fedeli che si sarebbero
disposti in cerchio attorno all’altare durante la celebrazione della
messa. D’altronde, non avrebbero potuto farlo, se non altro perché i
laici, come ancora oggi in Oriente, non avevano il diritto di penetrare
nel santuario. Il rispetto si sviluppa quando è incoraggiato dai
comportamenti esteriori e, se è il caso, dalle interdizioni destinate ad
evitare le profanazioni. Quando, per esempio, un sagrestano può
poggiare sull’altare, senza il minimo scrupolo, una sedia o una scala
per sistemare dietro l’altare, in alto, dei candelieri o dei fiori, la
santità di questo altare ne resta rozzamente offesa. Cosa inimmaginabile
in una chiesa d’Oriente! Di contro, possiamo dire che l’espressione “…
et omnium circumstantium…” può far pensare alla buona abitudine che
dovrebbero prendere i fedeli durante l’offerta del Santo Sacrificio: in
piedi, pieni di rispetto (fig. 9). Ma, ai giorni nostri, queste “persone
presenti” si trasformano facilmente in “persone sedute” (in modo
confortevole) su delle sedie, anche a causa della presenza di queste
ultime nelle chiese attuali, le quali invitano a prender posto. Certo,
cambiare il modo di vedere moderno in questo campo non sarebbe cosa
facile; tuttavia non si dovrebbe mai dimenticare che la stazione eretta è
l’attitudine liturgica per eccellenza, che fra l’altro favorisce lo
spirito comunitario.
Undicesima domanda: Tutto ciò è
molto bello… Ma non bisogna fare i conti con il fatto che l’uomo moderno
non è più tanto capace di comprendere che per pregare bisogna volgersi
ad Oriente?
Per lui il sol levante non ha più la
forza simbolica che aveva per l’uomo dell’Antichità e che ha ancora oggi
per i paesi mediterranei, battuti dal sole in maniera più intensa che
da noi, “uomini del nord”. Ai cristiani odierni è quanto meno la
comunione della mensa eucaristica che più importa. Anche se l’uomo
moderno non presta più attenzione alla direzione esatta verso cui prega –
anche se i musulmani continuano a volgersi verso la Mecca e i giudei
verso Gerusalemme – tuttavia non dovrebbe avere difficoltà a comprendere
il significato che riveste il fatto che il sacerdote e i fedeli
preghino insieme nella stessa direzione. Ad ogni modo, l’uso che tutti i
presenti siano insieme orientati “verso il Signore” è qualcosa di
atemporale e conserva anche oggi tutto il suo significato. A fianco
dell’aspetto teologico relativo al faccia a faccia tra il sacerdote ed i
fedeli al momento della celebrazione del sacrificio eucaristico, è il
caso di richiamare anche i problemi di ordine sociologico, che
appartengono anch’essi alla messa in risalto della “comunione della
mensa eucaristica”. Il prof. W. Siebel, nel suo piccolo libro intitolato
Liturgie als Angebot (La liturgia all’asta), pensa che il sacerdote
volto verso il popolo può essere considerato come “il più perfetto
simbolo del nuovo spirito della liturgia”, “La posizione in uso fino a
ieri faceva apparire il prete come il capo e il rappresentante della
comunità, che parlava a Dio a nome di quest’ultima, come Mosè sul Sinai:
la comunità indirizza a Dio un messaggio (preghiera, adorazione,
sacrificio), il prete, in quanto capo, trasmette questo messaggio, e Dio
lo riceve”. Con la nuova pratica, continua Siebel, il sacerdote “non
sembra più neanche il rappresentante della comunità, ma piuttosto si
presenta come un attore che – almeno nella parte centrale della messa –
svolge il ruolo di Dio, un po’ come a Oberammergau o in altre
rappresentazioni della Passione”. E conclude: “Ma se, in nome di questa
nuova svolta, il prete diventa un attore incaricato di interpretare il
Cristo sulla scena, ecco che allora, a causa di questa riproposizione
teatrale della Cena, Cristo e il prete finiscono con l’identificarsi in
una maniera a momenti insopportabile”. Siebel spiega anche la buona
volontà con la quale i preti hanno adottato la celebrazione versus
populum: “Il considerevole disorientamento e la solitudine dei preti
hanno fatto sì che essi cercassero dei nuovi punti d’appoggio per il
loro comportamento. Fra questi vi è il sostegno emotivo che procura al
prete la comunità riunita intorno a lui. Ma ecco che nasce
immediatamente una nuova dipendenza: quella dell’attore di fronte al suo
pubblico”. Anche K. G. Rey, nel suo libro Pubertätserscheinungen in der
katholischen Kirche (Manifestazioni pubertarie nella Chiesa cattolica),
dichiara: “Mentre fino a ieri il prete offriva il sacrificio in quanto
intermediario anonimo, in quanto capo della comunità, rivolto a Dio e
non al popolo, in nome di tutti e con tutti; mentre fino a ieri
pronunciava delle preghiere… che gli erano state prescritte, oggi questo
prete ci viene incontro in quanto uomo, con le sue particolarità umane,
col suo stile di vita personale, il viso rivolto a noi. Per molti preti
diviene forte la tentazione di prostituire la propria persona,
tentazione contro la quale non hanno la statura per lottare. Alcuni
molto astutamente, ed altri con meno astuzia, volgono la situazione a
proprio vantaggio. Le loro attitudini, la loro mimica, i loro gesti,
tutto il loro comportamento attira gli sguardi che si fissano su di
loro, per le loro ripetute osservazioni, le loro direttive, le parole
d’accoglienza o d’addio… In tal modo, il successo dei loro suggerimenti
costituisce, in cuor loro, la misura del loro potere e, quindi, la norma
della loro sicurezza” (p. 25). A proposito dell’augurio espresso da
Klauser, e che abbiamo riportato prima, “di veder più chiaramente
espressa la comunione al tavolo eucaristico”, grazie alla celebrazione
versus populum, lo stesso Siebel, nel suo libro citato, dichiara:
“L’augurata riunione dell’assemblea attorno al tavolo della Cena, non
può certo contribuire al rafforzamento della coscienza comunitaria. In
effetti, solo il prete sta vicino al tavolo, e per di più in piedi; gli
altri partecipanti al pasto sono seduti più o meno lontani, nella sala
del teatro”. E aggiunge: “In genere, il tavolo è posto lontano dai
fedeli, su un palco, così che non è possibile far rivivere gli intimi
rapporti che esistevano nella sala in cui si svolse la Cena. Il prete
che svolge il suo ruolo girato verso il popolo, difficilmente può
evitare di dare l’impressione di rappresentare un personaggio che, pieno
di gentilezza, viene a proporci qualcosa. Per limitare questa
impressione si è provato a piazzare l’altare in mezzo all’assemblea; ed
allora non si è più obbligati a guardare solo il prete, l’occhio può
spaziare anche sugli assistenti che gli stanno a fianco; ma così facendo
si fa sparire il distacco esistente fra la spazio sacro e l’assemblea:
l’emozione un tempo suscitata dalla presenza di Dio nella chiesa, si
muta in un pallido sentimento che a mala pena si distingue dalla
ordinaria quotidianità”. Ed allora, possiamo dire che il sacerdote posto
dietro l’altare, con lo sguardo rivolto al popolo, diviene, dal punto
di vista sociologico, sia un attore interamente dipendente dal suo
pubblico, sia un venditore che ha qualcosa da proporre. Nel suo libro,
che abbiamo già citato, Das Konzil der Buchhalter, Alfred Lorenzer
richiama ancora altri punti di vista, in particolare d’ordine estetico:
“Non solo il microfono rivela ogni respiro, ogni rumore occasionale, ma
la scena che si svolge assomiglia molto più alla presentazione
televisiva di certe ricette di cucina, che alle forme liturgiche delle
Chiese riformate. Mentre in queste ultime l’azione sacra è stata
emarginata – ridotta al massimo di semplicità e brevità – nella riforma
liturgica cattolica essa conserva il suo posto principale: privata dei
suoi ornamenti gestuali essa conserva minuziosamente tutta la
complessità del suo svolgimento, ed è ormai presentata agli occhi di
tutti in una pseduo-trasparenza che confonde la percezione sensibile
delle manipolazioni con la trasparenza del mito, manipolazioni che sono
eseguite in maniera tale che ogni dettaglio di questo rituale alimentare
finisce con l’essere esibito sempre con poca discrezione; si vede un
uomo rompere con difficoltà un’ostia che resiste, si vede com’egli se la
ficca in bocca, si diviene testimoni di abitudini masticatorie
personali, non sempre molto belle, di modi con cui ingoiare del pane
secco, di tecniche usate per far girare il calice da purificare e di
sistemi più o meno abili per asciugarlo” (p. 192). Queste sono le
conseguenze sociologiche della posizione del celebrante di fronte
all’assemblea. Certo, le cose stanno diversamente al momento della
proclamazione della parola di Dio. Questa presuppone proprio il faccia a
faccia tra il prete e il popolo, come è stato sempre scontato che il
predicatore si volgesse verso i fedeli, al pari del diacono che cantava
il Vangelo. Ma, come abbiamo ripetuto, è cosa diversa la celebrazione
del vero e proprio sacrificio eucaristico: in questo caso la liturgia
non si concretizza in una “offerta” ai fedeli, come nel caso della
liturgia della Parola, si tratta bensì di un avvenimento sacro nel corso
del quale il cielo e la terra si uniscono e il Dio della grazia si
inclina verso di noi. Solo al momento della comunione, del pasto
eucaristico vero e proprio, si ritorna al faccia a faccia tra il prete e
i comunicandi. E questi cambiamenti di posizione del celebrante nei
confronti dell’altare hanno un preciso significato simbolico e
sociologico: quando il celebrante prega e sacrifica ha, al pari dei
fedeli, gli occhi rivolti a Dio, mentre quando proclama la parola di Dio
e distribuisce l’eucaristia si volge verso il popolo. Come abbiamo
visto, il volgersi verso l’Est è così antico che la Chiesa ha fatto di
questa attitudine un uso che non può essere modificato. “Si cerca”
costantemente “con gli occhi il luogo ove è posto il Signore” (J.
Kunstmann) o, come dice Origène nel suo libro sulla preghiera (cap. 32),
il volgersi ad Oriente è “un simbolo, quello dell’anima che guarda
verso il sorgere della vera luce”, nell’attesa della beata speranza e
della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore Gesù
Cristo” (Tito 2, 13).
Dodicesima domanda: Perché, come
si sostiene, il carattere sacrificale della messa sarebbe meno
chiaramente espresso quando il prete è girato verso il popolo?
La domanda può essere ribaltata: dal
momento che gli specialisti sanno molto bene che esaltare “l’altare
rivolto al popolo” non significa richiamarsi ad una pratica della Chiesa
delle origini, perché non ne traggono le inevitabili conseguenze?
Perché non sopprimono i “tavoli da pranzo” eretti con una sorprendente
coralità nel mondo intero?Molto probabilmente perché questa nuova
posizione dell’altare corrisponde, meglio dell’antica, alla nuova
concezione della messa e dell’eucaristia. È molto chiaro che oggigiorno
si vorrebbe evitare di dare l’impressione che la “tavola santa” (come
viene chiamato l’altare in Oriente) sia un altare per il sacrificio.
Senza dubbio è la stessa ragione per la quale, quasi dappertutto, si
pone sull’altare un mazzo di fiori (uno solo), come sulla tavola da
pranzo di una famiglia in un giorno di festa, insieme a due o tre ceri:
questi quasi sempre a sinistra, il vaso dal lato opposto. L’assenza di
simmetria è voluta: non bisogna creare dei punti di riferimento
centrali, come quando si mettevano i candelieri alla destra ed alla
sinistra della croce che stava in mezzo; qui si tratta solo di una
tavola da pranzo. Non ci si mette dietro l’altare del sacrificio, ci si
mette davanti; già il sacrificatore pagano faceva così, il suo sguardo
era diretto verso la raffigurazione della divinità a cui si offriva il
sacrificio; anche nel Tempio di Gerusalemme si faceva così: il sacerdote
incaricato di offrire la vittima stava davanti alla “tavola del
Signore”, come si chiamava il grande altare dell’olocausto nel cuore del
Tempio (cfr. Malachia 1, 12), e questa “tavola del Signore” era
collocata di fronte al tempio interno ov’era custodita l’Arca
dell’Alleanza, il Santo dei Santi, il luogo in cui dimorava l’Altissimo
(cfr. Salmi 16, 15). Un pranzo si consuma con il padre di famiglia che
presiede, in seno alla cerchia famigliare; mentre invece, in tutte le
religioni, esiste una apposita liturgia per il compimento del
sacrificio, liturgia che prevede che il sacrificio si compia all’interno
o davanti ad un santuario (che può essere anche un albero sacro): il
liturgo è separato dalla folla, sta davanti ai presenti, di fronte
all’altare, rivolto alla divinità. In tutti i tempi, gli uomini che
hanno offerto un sacrificio si sono sempre rivolti verso colui al quale
il sacrificio era diretto e non verso i partecipanti alla cerimonia. Nel
suo commento al libro dei Numeri (10, 27), Origène si fa interprete
della concezione della Chiesa delle origini: “Colui che si pone dinanzi
all’altare dimostra con ciò di svolgere le funzioni sacerdotali. Ora, la
funzione del prete consiste nell’intercedere per i peccati del popolo”.
Ai giorni nostri, in cui il senso del peccato sparisce sempre più, la
concezione espressa da Origéne sembra essersi largamente perduta.
Lutero, lo si sa, ha negato il carattere sacrificale della messa: egli
non vi vedeva altro che la proclamazione della parola di Dio, seguita da
una celebrazione della Cena; da qui la sua preoccupazione di vedere il
liturgo rivolto verso l’assemblea. Certi teologi cattolici moderni non
negano direttamente il carattere sacrificale della messa, ma
preferirebbero che questo passasse in secondo piano al fine di poter
meglio sottolineare il carattere di pasto della celebrazione; questo, il
più delle volte, a causa di considerazioni ecumeniche a favore dei
protestanti, dimenticando però che per le Chiese orientali ortodosse il
carattere sacrificale della divina liturgia è un fatto indiscutibile.
Solo l’eliminazione della tavola da pranzo e il ritorno alla
celebrazione all’”altar maggiore” potranno condurre ad un cambiamento
nella concezione della messa e dell’eucaristia, e cioè alla messa intesa
come atto d’adorazione e di venerazione di Dio, come atto d’azione di
grazia per i suoi benefici, per la nostra salvezza e la nostra vocazione
al regno celeste, e come rappresentazione mistica del sacrificio della
croce del Signore. Questo, tuttavia, non esclude, come abbiamo visto,
che la liturgia della Parola sia celebrata non all’altare, ma dal seggio
o dall’ambone, com’era un tempo durante la messa episcopale. Ma le
preghiere devono essere tutte recitate in direzione dell’Oriente, e cioè
in direzione dell’immagine di Cristo nell’àbside e della croce
sull’altare. Visto che durante il nostro pellegrinaggio terreno non ci è
possibile contemplare tutta la grandezza del mistero celebrato, e ancor
meno lo stesso Cristo, né l’”assemblea celeste”, non basta parlare
ininterrottamente di ciò che il sacrificio della messa ha di sublime,
bisogna invece fare di tutto per mettere in evidenza, agli occhi degli
uomini, la grandezza di questo sacrificio, per mezzo della stessa
celebrazione e della sistemazione artistica della casa del Signore, in
particolar modo dell’altare. Allo svolgimento della liturgia e alle
immagini, si può applicare ciò che dice dei “veli sacri” lo Pseudo
Dionigi l’Areopagita, nella sua opera Sui nomi divini (1, 4): questi
veli “che [ancora adesso] nascondono lo spirituale nell’universo
sensibile, e il sovra terreno nel terreno, che conferiscono forma e
immagine a ciò che non ha né forma né immagine… Ma il giorno verrà che,
essendo divenuti incorruttibili e immortali e avendo raggiunto la pace
beata accanto a Cristo, saremo, come dice la Scrittura, presso il
Signore (cfr. I Tessalonicesi 4, 17) tutti pieni di contemplazione per
la sua apparizione visibile”. @ missagregoriana.it
Tratto da Klaus Gamber, “Tournés vers le Seigneur!”, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux, France, pp. 19-55.
NOTE:
(9) – Cfr. K. Gamber, Das Patriarchat Aquileja und die bairische Kirche (Il Patriarcato di Aquileia e la Chiesa bavarese), pp. 22-55(10) – II, 57, 2-58, 6 (Paderborn, 1906), ed. Funk.
(11) – Migne, PG 62, 29.
(12) – Rational, I, 3, n° 35.
(13) – Sull’argomento cfr. l’articolo di K. Gamber in Das Münster, 1985.
(14) – Das Konzil der Buchhalter (Il concilio dei contabili), p. 200.
(15) – Cfr. K. Gamber, Ecclesia Reginensis, pp. 49-66.
(16) – Cfr. Entretiens sur la foi, Fayard, 1975, p. 158.
(17) – Migne, PL, 34, 1277.
(18) – Cap. 57, 14, ed. Funk, p. 165.
(19) – Cap. 12, 2, ed. Funk, p. 494.
(20) – I, libro 4, cap. 5, ed. E. Tardieu et A. Cousin fils, p. 173.
(21) – Cfr. E. C. Conte Corti, Vie, mort et résurrection d’Herculanum et de Pompéi, fig. 29.
(22) – Ep. 32, 13 (Migne, PL 61, 337).
(23) – Cfr. K. Gamber, Liturgie und kirchenbau (Liturgia e costruzione delle chiese), pp. 16-18.
(24) – Migne, PG 62, 204.
(25) – Cfr. K. Gamber, Liturgie und kirchenbau (Liturgia e costruzione delle chiese), pp. 132-136.
(26) – Migne, PG 94, 1136.
(27) – Cfr. K. Gamber, Sancta sanctorum, pp. 31-34.
http://www.rinascimentosacro.org/quaestiogamber-laltare-di-quaggiu-e-larchetipo-celeste/
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.