ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 29 novembre 2012

Il vuoto "pneumatico"



Lunedì 19 novembre 2011, a distanza di un anno e mezzo dalla sua realizzazione, la statua del beato Carol Wojtyla è tornata in piazza Cinquecento, alla stazione Termini di Roma, in seguito ad un intervento di restauro e restyling.

Inaugurata il 18 maggio 2011, dono della Fondazione Silvana Paolini Angelucci al Comune dell'Urbe, la statua “Conversazioni”, opera dell'artista pescarese Oliviero Rainaldi, aveva riscosso reazioni forti e contrastanti, nella cui diatriba aveva avuto la meglio il provvedimento di modifica poiché, a detta di gran parte della popolazione romana e della Chiesa, tale opera non rispettava la somiglianza fisiognomica del pontefice, risultava “povera” e non rispecchiava il bozzetto presentato e approvato precedentemente: scarsa riconoscibilità, espressione triste, troppa durezza nella linea, mancanza di movimento e somiglianza nel volto ad un uomo politico del passato che, seppur non nominato, è chiaramente identificabile; queste sono solo alcune delle impressioni che hanno portato alla decisione di mettere mano alla statua, modificandone in parte l'estetica e cogliendo l'occasione di apportare un cambiamento al basamento che presentava un problema di staticità. La struttura a “campana” della statua è stata mantenuta, correggendo la parte di mantello del beato polacco, ora leggermente piegato su se stesso e ridimensionato nel tentativo di evitare l'effetto “garitta”; il volto invece è stato fuso e rimodellato allungando il collo e tentando di esprimere, rispetto a prima, le fattezze del pontefice e la bontà che l'ha sempre contraddistinto.

Questa volta sarà un successo? Forse è troppo presto per dirlo, e sicuramente non lo scopriremo ispirandoci all'idea del sindaco Alemanno, un ipotetico referendum online. Poco sembra essere cambiato nell'opera ma una cosa è certa: l'arte contemporanea fa nuovamente parlare di sé e se spesso non sappiamo come interpretare ciò che ci troviamo di fronte agli occhi, in questo caso dobbiamo reputarci fortunati: nell'intervista rilasciata da Rainaldi a “Il Giornale dell'Arte” è possibile seguire l'ideologia che sta alla base delle opere dell'artista, solito lavorare sia su soggetti religiosi sia su quelli laici. Il linguaggio dello scultore è essenziale e metafisico, e proprio metafisico è definito il corpo scolpito del papa: il corpo manca di fisicità e materia per lasciare il posto ad un vuoto, contenuto all'interno del mantello, che rimanda ad un episodio specifico della vita del Santo Padre, quando egli coprì con il proprio mantello un bambino che gli si era avvicinato, e all'importanza che l'aspetto spirituale ricopre in questa figura.
Lo spirito è una brezza, quel vento che fa muovere il manto creando così questa apertura che simboleggia l'accoglienza del papa verso i credenti e non. Ma come è santo Wojtyla al tempo stesso lo siamo pure noi, come riportato nella frase vecchio testamentaria “siate santi perché io sono santo” (Lev 19,2). Da ciò la volontà dell'artista di non caratterizzare eccessivamente il volto raffigurato per consentire ad ogni osservatore di identificarsi nell'uomo di fede che è o che potrebbe essere, e di cui Giovanni Paolo II è stato un grande esempio. Forse alla luce di tutto ciò potrebbe risultare più facile apprendere ed apprezzare quest'opera, ma i problemi comunicativi dell'arte di oggi non tarderebbero a tornare; a breve arriverà un altro artista in grado di mandare in crisi nuovamente il nostro gusto e il nostro giudizio estetico. Ma in questo caso è solo una questione estetica? Le opinioni riguardo al futuro dell'opera sono molteplici: dal gradimento e dalla stima espressi da Gianni Alemanno, si passa alla volontà di distruggerla, manifestata dal senatore dell'Idv Stefano Pedica; ma c'è anche chi, come il consigliere Pdl di Roma Capitale, Francesco de Micheli, si sofferma sulla becera polemica che tale opera comporta, tralasciando così l'aspetto estetico e artistico, solo per visibilità. Anche nel campo della critica d'arte non mancano posizioni diverse: Philippe Daverio era a sfavore di qualsiasi intervento, ritenendo che il giudizio negativo degli italiani sia dovuto alla loro indole di misoneisti e che “la massa non è mai in grado di esprimere un giudizio”, osservando come la capacità dell'indirizzamento di un gusto comune sia nelle mani di un'élite specializzata nel campo. Di veduta diversa è Vittorio Sgarbi che, sottolineando come l'obiettivo di tale opera non sia stato centrato, vedrebbe bene la scultura esposta in qualche museo o alla Biennale di Venezia.
Tra tutte queste espressioni nasce spontanea una riflessione: se un'opera viene posta in un luogo pubblico a ricordo di una figura mediatica e comunicativa come Giovanni Paolo II, non si può pensare che essa possa essere capita da pochi. La freddezza dell'impersonalità non può sovrastare il senso di accoglienza che dovrebbe rappresentare. Non è un ritorno a canoni classici quello che viene richiesto dalla gente, ma la possibilità di riconoscere nell'opera d'arte il valore e lo spessore insito nella persona rappresentata; aspetto che riconosciamo costante, e che ricordiamo con un po' di nostalgia, forse, nell'arte religiosa dei secoli passati, dove l'opera realizzata era a servizio della conoscenza, dell'elevazione verso Dio, a disposizione di tutti e nella quale tutti potevano ritrovarsi.
di Valentina "Vittoria" Arduini

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