Una giovane lettrice scrive:
«Leggo i commenti sulla dimissione del Papa e mi viene da sorridere. Ci si affanna a giustificare o a condannare la sua scelta, inneggiando alla modernità o gridando al tradimento della tradizione. Ho una età che non mi permette di ricordare la Chiesa prima del Concilio, ma mi viene da sorridere pensando che forse Dio sta ridendo delle nostre convinzioni su cosa sia giusto per celebrarLo. Mi viene da pensare che i riti che seguiamo sono comunque frutto dell’uomo che si è sforzato di pensare cosa Dio volesse da noi.
La sera del Giovedì Santo Egli nella persona di Gesù ci ha solo detto di spezzare il pane e di condividerlo e che quel pane, dopo quel semplice gesto fatto in Suo nome diventa il Pane di Vita. Tutto ciò che è venuto dopo è stato solo frutto dell’uomo, magari dell’uomo illuminato dalla Verità, ma pur sempre dell’uomo. Non so cosa aspettarmi nei prossimi tempi, credo che arriveranno giorni duri, dove non potremo più parlare di infallibilità del Papa e dove ognuno sarà solo con ciò che ha maturato nella sua fede. Per quel che mi riguarda ho paura che sarà troppo poco, ma prego Dio di farmi ricordare sempre le parole di quel fraticello cappuccino definito santo da Blondet. Un giorno che gli dissi che a volte mi trovavo smarrita davanti ai riti della Messa, non capendone il senso e la necessità mi rispose: «Hai ragione, penso che capiti un po’ a tutti, ma a me basta sapere che lì dentro, e mi indicò il Tabernacolo, c’è Dio e che mi ama». Da allora cerco di farmi bastare questa Verità sperando che mi sostenga nei giorni che devono venire, perché i riti senza il cuore dell’uomo non sono niente.Alessandra»
Certo, cara Alessandra: «i riti senza il cuore dell’uomo non sono niente». Ma dimentichi altre parti della questione.
Una: i riti nascono dalla carità apostolica per i fedeli. Sono fatti per «sostenere» il cuore dell’uomo, cuore sempre in pericolo di distrarsi e di seguire le sue passioni, anziché l’essenziale, che è (secondo il catechismo) «adorare, servire ed amare Dio in questa vita e goderlo eternamente nell’altra». Difficile, per noi creature zoologiche, adorare ed amare l’Invisibile, senza «segni»: e occorre che questi «segni» siano forti, profondamente significativi, risonanti nel profondo dell’anima.
Seconda questione: il rito della Messa è anche un onore a Dio, alla sua Maestà. Gli vogliamo offrire qualcosa di bello, alto e nobile, o invece di sciatto, brutto, senza le dovute forme?
Pensa alle chiese antiche: furono costruite da nostri antenati che erano poveri, ma vollero dare a Dio una casa che fosse bellissima di pitture, vetrate, sculture, organi e interna luce spirituale, tutta roba costosissima. E ancor oggi queste antiche chiese spiccano nella città moderna, ossia imbruttita e disumanizzata, come un silenzioso rimprovero. Che cosa rende belle le antiche chiese? La fede nella Verità di Cristo, ossia del Dio che s’è fatto Uomo, e quello conta più di tutto. Che cosa rende brutte le moderne chiese o – se è per questo – case e città? La perdita generale di quella fede.
L’architettura moderna (anche delle chiese) esprime un vero disprezzo per l’uomo, lo fa «star male» apposta: è un segno anticristico. Il «non serviam» di Lucifero. Uno dei tanti segni satanici di cui abbiamo riempito il mondo credendo di «liberarci», e diventare Dei.
La liturgia, è la stessa cosa. È (era) una forma d’arte sacra, la più eccelsa: e come la grande musica classica, si richiedeva che fosse «eseguita» con rigore e senza variazioni arbitrarie di testa dei musicisti, degli esecutori o degli spettatori. Era un concerto offerto al Cristo che, proprio in quel momento, di nuovo moriva sulla croce per noi; ne sottolineava e commentava il dramma, il dolore e la nostra gratitudine, e il pericolo estremo di «mangiare e bere la propria dannazione» se ci si avvicinava al Sacrificio con l’anima macchiata. Ci portava tutti sul Golgota, e il sacerdote che ci rivolgeva le spalle era «uno di noi» che elevava l’Ostia per tutti noi a quella croce del Golgota. Lo faceva con esatte parole tratte dalla Scrittura: nessuna era inventata dalla «creatività personale», nessuna esprimeva «il mio io» piccino sentimentale e presuntuoso; ci si rivolgeva a Dio con le parole che Dio stesso ci aveva dato. Non vi erano ammesse voci e strumenti musicali profani, del mondo, sporcate dalla profanità.
In una parola: la liturgia è , dev’essere, Bellezza. Non sottovalutare mai il valore della Bellezza nel servizio a Dio.
Per Tommaso d’Aquino, il Vero e il Bello sono la stessa cosa (anche il Bene è Verità e Bellezza). Ne consegue che il dominio del Brutto che ci circonda dovunque, anche in chiesa, segnala un allontanamento dalla Verità, dal dogma.
Tu dici: «Ho una età che non mi permette di ricordare la Chiesa prima del Concilio, ma mi viene da sorridere...». È questo che temo per te e la tua generazione, cara Alessandra: quando non sarà estinta la mia generazione, quella che ha conosciuto la Bellezza liturgica e può giudicare lo scadimento attuale, voi non avrete più termini di paragone, e dunque sarete più indifese preda del Brutto – ossia della non-Verità. Già vedo un sintomo di questo sviarsi della Verità-Bellezza nel tuo dire «credo che arriveranno giorni duri, dove non potremo più parlare di infallibilità del Papa e dove ognuno sarà solo con ciò che ha maturato nella sua fede». Avere questa opinione significa già scantonare nel luteranesimo, e nemmeno te ne accorgi… Non è colpa tua, è che il Concilio ha smesso di proclamare la verità dogmatica.
Purtroppo, vi vedo già preda, voi giovani, di bruttezze in tutti i campi del «mondo»; e mi addolora che non abbiate più un’idea del Bello, del nobile e del grande con cui contrastare la deriva. Il Bello è la via al Vero; ma è (anche) un rifugio e un giardino di quiete, e voi non avete più rifugio e né quiete dai rumori mondani, o dall’insignificanza del vivere profano. Peggio, a forza di non vedere il Bello, la gente si abitua al brutto, e non sa che questo fa ammalare l’anima, la rende incapace di contemplare la grandezza morale (i cui esempi sono ormai così rari), ossia di vincere se stessi.
Già il fatto che tu ammetta di non aver mai visto una messa gregoriana (pre-conciliare) ma presuma di inserirti nel dibattito, sarà molto democratico, ma non è tanto bello. È come se uno dicesse: «Non ho mai avuto modo di ascoltare il Concerto Brandeburghese di Bach, ma mi fa sorridere che alcuni lo giudichino superiore a Zucchero Fornaciari, che a me piace e basta ai miei gusti musicali».
Un po’ ti invidio, perché sei stata presente all’Ultima Cena. Sei infatti sicura che Cristo, quella sera fatale, abbia fatto «un gesto semplice: spezzare il pane e condividerlo». Invece io, pensa un po’ mi immaginavo che quella frase: «ecco il mio corpo, ecco il mio sangue» avesse un suono terribile, ascetico ed eroico, che abbia annichilito i discepoli. In quella prima Messa, già gli apostoli, come te, probabilmente si trovarono «smarriti, non capendone il senso e la necessità». Il punto è che non c’è niente da capire, ma solo adorare; ed è la presunzione dell’io moderno che pone questa esigenza di «capire» la Messa: è il Mistero dell’Onnipotente che si fa debole e muore, è semplicemente incomprensibile – se non nell’Amore.
Mi concederai almeno questo: che la sera del Giovedì Santo, Cristo non avrà detto: «E adesso scambiatevi il segno di pace». Come mai allora questo s’è inserito nella Messa «semplice e moderna», senza fronzoli , alla buona, che tu preferisci (perché ti manca il confronto)?
Anche questo è un rituale; anzi, è diventato il rituale più vistoso nella messa d’oggi. Sembra proprio che gli uomini non possano fare a meno dei rituali nelle occasioni pubbliche: nei tribunali, si celebrano i rituali del diritto; se si va in visita al presidente della repubblica, ci si deve attenere a un rituale, che è chiamato «il cerimoniale», e non è ammesso sgarrare, e comportarsi in modo diverso da quello prescritto. Solo nell’incontro pubblico con Cristo crocifisso, che è la Messa, oggi i rituali se li inventano, e ne inventano di nuovi di testa loro, canzoncine ed espressioni e preghierine, e ciò rende l’evento squallido, basso e brutto. E irrispettoso.
La questione di «cosa sia giusto per onorarlo» non è così irrilevante da sorriderci. Papi moderni, post-conciliari, l’hanno ritenuta dolorosamente importante. Joseph Ratzinger, nel 1992, ha scritto parole durissime sulle messe come si celebrano oggi in troppi casi:
«La riforma liturgica nella sua forma concreta s’è allontanata sempre più da questa origine (parlava della messa gregoriana). Il risultato è stato (…) una devastazione. Da una parte si ha una liturgia trasformata in show, nella quale si tenta di rendere al religione interessante con l’aiuto della stupidità, della moda e di massime morali provocanti. (...) Dopo il Concilio (...) al posto della liturgia, frutto di uno sviluppo continuo, è stata messa una liturgia fabbricata. Si è usciti dal processo vivente di crescita e di sviluppo per entrare nella fabbricazione. Non si è più voluto il divenire e la maturazione organica di Dio che vive nei secoli e lo si è sostituito a mo’ della produzione tecnica, con una fabbricazione banale del momento».
Paolo VI, il maggio 1964, nella Cappella Sistina, rivolse un’omelia quasi disperata agli artisti che hanno abbandonato l’arte sacra: «Se Noi mancassimo del vostro ausilio, il ministero diverrebbe balbettante e incerto e avrebbe bisogno, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi profetico. Per assurgere alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte» (1).
Sono parole impressionanti, che faremmo bene a meditare tutti. E anche i preti: «Far coincidere il sacerdozio con l’arte», perché no? In un mondo senza più ornamento, dovrebbero sentire l’urgenza di fare della liturgia la loro esecuzione artistica più alta e rigorosa, la «sacra rappresentazione» che è e che fu.
Per fortuna e per grazia, vedo dovunque che il Signore sta suscitando quel culto che la messa brutta, e lo spirito dei tempi, gli negano: si diffonde l’Adorazione Perpetua su richiesta dei fedeli, col suo rito dell’Ostensione veramente regale; milioni di fedeli obbediscono alle apparizioni della Vergine e digiunano e pregano, e credono dogmi che avevano dimenticato. Ciò fa sperare che un giorno, da simile fede rinasceranno chiese belle, e la liturgia di nuovo alta, elevante e nobile come i Concerti Brandeburghesi, e non come Zucchero.
1) Trovo queste due citazioni, con gratitudine, in Enrico Maria Radaelli, «La Bellezza ch ci salva», 2010.
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