ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 6 marzo 2013

Gli obamidi, non sazi di aver rovinato l'america ora cannibalizzano la Chiesa?

Paolo Mastrolilli per "La Stampa.it"
Francis GeorgeCARDINALE SEAN PATRICK O MALLEY
Scuote la testa e sorride, l'arcivescovo di Chicago Francis George: «Non è un problema di regole: se anche tutti i cardinali elettori fossero già a Roma, io non vorrei entrare in Conclave ora. Per una ragione molto semplice: non siamo ancora pronti». 


Sta calando il sole sul Gianicolo, che ospita il Collegio Nordamericano, dove alloggia la potente delegazione degli Stati Uniti.

Il cardinale di New York Dolan torna dal Vaticano e saluta con una battuta il collega di Chicago, suo predecessore alla guida della Conferenza episcopale Usa. Poco distante l'arcivescovo di Boston O'Malley, avvolto nella sua «uniforme» da frate cappuccino, si prepara a fare una passeggiata verso la città: «Ci sono ancora troppe questioni da discutere - dice il porporato che guida la lista dei papabili a stelle e strisce - e molte persone da conoscere. E' presto per entrare in Conclave: è vero che per Pasqua vorremmo essere nelle nostre diocesi, ma stiamo facendo una scelta storica e dobbiamo prenderci tutto il tempo necessario». Anche per capire bene cosa è successo dietro le quinte, negli ultimi tempi: «Non dico che Vatileaks sarà determinante, però mi aspetto di conoscere tutti gli aspetti pertinenti al lavoro che facciamo».

I vaticanisti più esperti raccontavano questo retroscena: la Curia, e i suoi membri italiani in particolare, vogliono affrettare il voto perché questo favorirebbe un loro candidato. Così si spiega anche l'interpretazione delle regole secondo cui si può votare la data d'inizio del Conclave anche se non tutti gli elettori sono a Roma. I cardinali stranieri, invece, vogliono più tempo per capire, conoscere i risvolti dell'inchiesta su «Vatileaks» e magari costruire il consenso su uno di loro: un pastore, una sorpresa.

Ora il retroscena diventa esplicito, nelle parole di O'Malley: «E' vero, esistono due scuole di pensiero. La prima sostiene che siccome i problemi attuali della Chiesa nascono dalla Curia, dobbiamo puntare su un leader esterno; la seconda, invece, risponde che bisogna cercarlo dentro la Curia, proprio perché il primo compito del nuovo papa sarà riformarla». Il frate di Boston è in cima ai desideri della prima scuola di pensiero, anche perché è stato molto efficace nella riforma dell'arcidiocesi al centro dello scandalo pedofilia negli Stati Uniti. Lui, però, si schernisce: «Sono quarant'anni che indosso questa uniforme da cappuccino, e penso di continuare a farlo fino alla fine». Suggerisce di guardare vicino, però: «L'America Latina ha una Chiesa molto vitale. Avrà un forte peso».

Fino a qualche anno fa, quando uno immaginava l'ipotesi improbabile di un papa americano, il primo nome che veniva in mente era quello di George: un intellettuale molto preparato, ma anche un uomo affabile. Un leader, che ha l'abitudine di parlare chiaro: «Senza violare il segreto sulle discussioni a cui siamo tutti tenuti - spiega il cardinale della città del presidente Obama -, vi posso dire che la lista dei papabili si sta allargando, invece di restringersi. I nomi che avete visto sui giornali hanno senso, ma stiamo parlando pure di candidati di cui finora non aveva discusso nessuno».

L'arcivescovo di Chicago è schietto anche nel descrivere l'andamento dei lavori: «Tutto procede secondo i piani, nel senso che non c'è un piano: le discussioni sono molto libere. Le congregazioni però hanno regole precise, e quindi i veri contatti avvengono a margine. Un collega si avvicina e ti chiede cosa pensi di un potenziale candidato: intende dire che lui lo appoggia, insieme al gruppo a cui fa capo. Quindi tu rifletti su quel nome, sapendo che ha dietro un certo consenso.

Ma questo consenso diventerà misurabile solo quando cominceremo a votare». Senza fretta, però. Meglio avere una discussione lunga prima e un conclave breve poi, che il contrario: «La mia percezione non è mai stata quella che avremmo cominciato il 10 o l'11 marzo».

Anche perché George, finora, non ha saputo tutto quello che voleva su «Vatileaks»: «Chiediamo le informazioni necessarie per una buona scelta. Cosa è andato male, creando questa rottura della fiducia nel governo della Santa Sede? È una preoccupazione, su cui non abbiamo ancora ricevuto un rapporto formale».
CARDINALE TARCISIO BERTONE PAOLO GABRIELE E IL PAPAombre big jpeg



Incontri segreti, pranzi a Borgo Pio. Così i porporati a stelle e strisce ignorano la consegna del silenzio

«Un Pontefice statunitense, proveniente dalla superpotenza americana, incontrerebbe molti ostacoli nel presentare un messaggio spirituale al resto del mondo». Sono state queste parole, pronunciate qualche giorno fa dall’arcivescovo di Washington Donald Wuerl, a liberare definitivamente i cardinali statunitensi da ogni paura e timidezza.

E a spingerli là dove nessun’altra compagine presente al conclave ha mai osato andare: il quotidiano affronto dei media per dire senza paura il proprio punto di vista sulla Chiesa che verrà, messaggi lanciati in libertà non soltanto al mondo ma anche e soprattutto a una curia romana abituata ad altri ritmi e costumi.
Il modo di porsi degli statunitensi sta scompaginando il tempo della sede vacante. Mentre i cardinali d’ogni colore e paese escono dall’Aula del Sinodo, dove hanno luogo i summit pre conclave, schivi e parecchio intimiditi, gli statunitensi giocano all’attacco. Dicono ciò che pensano, senza temere di mettere in piazza paure e sentimenti.
Sean O’Malley, ad esempio, cappuccino arcivescovo di Boston, ammette d’essere «terrorizzato» all’idea d’essere eletto. Mentre Timothy Dolan, arcivescovo di New York, capo dei vescovi del paese, e insieme blogger appassionato di baseball, confessa che col “collega” di Houston Daniel DiNardo, si documenta su Google per trovare informazioni sui porporati che incontrerà in conclave. Anche O’Malley, per la verità, dice d’aver usato la medesima tattica: ha scaricato una pagina web con i nomi e i volti di tutti: «Molti li conosco e altri no, soprattutto quelli dell’Europa orientale e un paio degli africani».
La foto che meglio di altre testimonia questo nuovo protagonismo statunitense è stata scattata ieri, all’ora di pranzo. Padre Federico Lombardi, portavoce vaticano, non aveva ancora terminato la sua conferenza stampa in via della Conciliazione che già poche centinaia di metri più in là, all’inizio della salita del Gianicolo, nonostante la richiesta di limitare al minimo gli interventi pubblici i cardinali statunitensi iniziavano la loro “press conference” per dire a chiare lettere: «Ci sono tanti temi sui quali discutere prima del conclave. Non abbiamo nessuna fretta. Le congregazioni generali prenderanno molto tempo». E ancora: «Il futuro Papa dovrà ancora affrontare la questione pedofilia, anche se la linea della “tolleranza zero” è ormai acquisita e non si sono più verificati abusi, perché le vittime sono ancora in vita e la Chiesa deve prendersi cura di loro».
È da due settimane che sister Mary Ann Walsh, portavoce della Conferenza episcopale statunitense, organizza quasi ogni giorno una conferenza stampa – oggi sarà la volta dei cardinali Sean O’Malley e Daniel DiNardo – al Collegio nordamericano. Insieme, Walsh accompagna a turno un cardinale sopra il braccio di Carlo Magno, o sull’impalcatura riservata ai media all’entrata di piazza San Pietro, per interviste poi rilanciate in tutto il mondo dai principali canali televisivi statunitensi. L’idea è di giocare d’anticipo, far sentire la propria voce nel modo ma soprattutto a Roma. Vatileaks? «Quanto allo stato della Chiesa – dice non a caso il cardinale Francis George, arcivescovo di Chicago – porremo questioni ai cardinali coinvolti nel governo della curia, e in questo contesto ogni cosa potrà emergere».
Ieri, alla prima Congregazione generale, gli statunitensi sono arrivati tutti assieme, su un pulmino Mercedes preso a noleggio. Non solo una dimostrazione di forza, la loro. Ma anche la volontà di fare squadra. Dietro hanno diverse lobby a spingerli. A cominciare da quei Cavalieri di Colombo – gestiscono un immenso patrimonio assicurativo negli Stati Uniti che ha ricevuto nel 2011, per il diciannovesimo anno consecutivo, la tripla AAA dall’agenzia di rating Standard & Poor’s – che hanno in Carl Anderson, membro del board dello Ior e principale fautore del licenziamento di Ettore Gotti Tedeschi dalla presidenza, il primo consigliere entro le Mura Leonine. Fu Anderson, anni fa già nello staff di Ronald Reagan, a portare il capo dei vescovi Timothy Dolan alla convention pre-elettorale dei Repubblicani lo scorso autunno, a sottolineare nel modo più pubblico possibile la linea anti-Obama delle gerarchie. Ma Anderson non è la sola entratura vaticana. Potente e influente è anche l’assessore per le questioni interne della segreteria di Stato, Peter Brian Wells.
Con entrambi i cardinali si ritrovano in punti fissi della capitale: la chiesa di Santa Susanna nel rione Trevi per le cerimonie ufficiali, un distaccamento del collegio nordamericano in via dell’Umiltà per gli incontri riservati, il ristorante Al Passetto di Borgo nel quartiere Borgo Pio per gli incontri più conviviali. Dolan, durante il concistoro del febbraio 2012 che lo creò cardinale, ammise: «Prima di venire a Roma ero a dieta. Ma qui non ho saputo resistere».

Strappo "yankee": “Non siamo pronti a entrare in Conclave”

Il cardinale Francis George
IL CARDINALE FRANCIS GEORGE

L’arcivescovo di Chicago George afferma che i cardinali degli Stati Uniti conoscono poco di Vatileaks

PAOLO MASTROLILLIROMA
Scuote la testa e sorride, l’arcivescovo di Chicago Francis George: «Non è un problema di regole: se anche tutti i cardinali elettori fossero già a Roma, io non vorrei entrare in Conclave ora. Per una ragione molto semplice: non siamo ancora pronti». 

Sta calando il sole sul Gianicolo, che ospita il Collegio Nordamericano, dove alloggia la potente delegazione degli Stati Uniti.  

Il cardinale di New York Dolan torna dal Vaticano e saluta con una battuta il collega di Chicago, suo predecessore alla guida della Conferenza episcopale Usa. Poco distante l’arcivescovo di Boston O’Malley, avvolto nella sua «uniforme» da frate cappuccino, si prepara a fare una passeggiata verso la città: «Ci sono ancora troppe questioni da discutere – dice il porporato che guida la lista dei papabili a stelle e strisce – e molte persone da conoscere. E’ presto per entrare in Conclave: è vero che per Pasqua vorremmo essere nelle nostre diocesi, ma stiamo facendo una scelta storica e dobbiamo prenderci tutto il tempo necessario». Anche per capire bene cosa è successo dietro le quinte, negli ultimi tempi: «Non dico che Vatileaks sarà determinante, però mi aspetto di conoscere tutti gli aspetti pertinenti al lavoro che facciamo».  

I vaticanisti più esperti raccontavano questo retroscena: la Curia, e i suoi membri italiani in particolare, vogliono affrettare il voto perché questo favorirebbe un loro candidato. Così si spiega anche l’interpretazione delle regole secondo cui si può votare la data d’inizio del Conclave anche se non tutti gli elettori sono a Roma. I cardinali stranieri, invece, vogliono più tempo per capire, conoscere i risvolti dell’inchiesta su «Vatileaks» e magari costruire il consenso su uno di loro: un pastore, una sorpresa. 

Ora il retroscena diventa esplicito, nelle parole di O’Malley: «E’ vero, esistono due scuole di pensiero. La prima sostiene che siccome i problemi attuali della Chiesa nascono dalla Curia, dobbiamo puntare su un leader esterno; la seconda, invece, risponde che bisogna cercarlo dentro la Curia, proprio perché il primo compito del nuovo papa sarà riformarla». Il frate di Boston è in cima ai desideri della prima scuola di pensiero, anche perché è stato molto efficace nella riforma dell’arcidiocesi al centro dello scandalo pedofilia negli Stati Uniti. Lui, però, si schernisce: «Sono quarant’anni che indosso questa uniforme da cappuccino, e penso di continuare a farlo fino alla fine». Suggerisce di guardare vicino, però: «L’America Latina ha una Chiesa molto vitale. Avrà un forte peso».  

Fino a qualche anno fa, quando uno immaginava l’ipotesi improbabile di un papa americano, il primo nome che veniva in mente era quello di George: un intellettuale molto preparato, ma anche un uomo affabile. Un leader, che ha l’abitudine di parlare chiaro: «Senza violare il segreto sulle discussioni a cui siamo tutti tenuti – spiega il cardinale della città del presidente Obama -, vi posso dire che la lista dei papabili si sta allargando, invece di restringersi. I nomi che avete visto sui giornali hanno senso, ma stiamo parlando pure di candidati di cui finora non aveva discusso nessuno». 

L’arcivescovo di Chicago è schietto anche nel descrivere l’andamento dei lavori: «Tutto procede secondo i piani, nel senso che non c’è un piano: le discussioni sono molto libere. Le congregazioni però hanno regole precise, e quindi i veri contatti avvengono a margine. Un collega si avvicina e ti chiede cosa pensi di un potenziale candidato: intende dire che lui lo appoggia, insieme al gruppo a cui fa capo. Quindi tu rifletti su quel nome, sapendo che ha dietro un certo consenso.  

Ma questo consenso diventerà misurabile solo quando cominceremo a votare». Senza fretta, però. Meglio avere una discussione lunga prima e un conclave breve poi, che il contrario: «La mia percezione non è mai stata quella che avremmo cominciato il 10 o l’11 marzo». 

Anche perché George, finora, non ha saputo tutto quello che voleva su «Vatileaks»: «Chiediamo le informazioni necessarie per una buona scelta. Cosa è andato male, creando questa rottura della fiducia nel governo della Santa Sede? È una preoccupazione, su cui non abbiamo ancora ricevuto un rapporto formale».


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