“Carità nel rapporto con le Chiese”. Il Papa al Laterano
cambia il rito e tende la mano agli ortodossi
Parole nuove in un rito antico. Questo pomeriggio Papa
Francesco entra per la prima volta nella basilica di San Giovanni in Laterano
per insediarsi come vescovo dell’Urbe sulla Cathedra romana. Nel rito, previsto
dalla “Universi Dominici Gregis” di Giovanni Paolo II e modificato recentemente
da Benedetto XVI, un’ulteriore novità significativa approvata questa volta da
Papa Francesco: il testo, ispirato a una tradizione patristico-liturgica
antica, col quale il cardinale vicario di Roma lo saluta appena prima che egli
si sieda sulla Cathedra recita parole completamente inedite.
Prima, infatti, il cardinale di Roma diceva al nuovo Papa:
«Come il vignaiolo che sorveglia dall’alto la vigna, sei posto in posizione
elevata per governare e custodire il popolo che ti è affidato». Oggi, invece,
il cardinale Agostino Vallini dovrà dire, leggendo un testo del tutto nuovo,
che il Papa da questo «luogo eletto presiede nella carità tutte le Chiese e con
ferma dolcezza tutti guida sulle vie della santità».
Parole nelle quali vi è l’eco di nuovi canali: da una parte
la volontà di Francesco di sottolineare che il vescovo di Roma è sì primate ma
nella carità. Dall’altra, la spinta per un governo della Chiesa cattolica più
collegiale, una nuova orizzontalità interna.
Come era nel primo millennio, Francesco, che dall’inizio del
suo pontificato predilige chiamarsi «vescovo» più che «Papa», secondo
l’insegnamento dei padri Ireneo di Lione e Ignazio di Antiochia indica il
ritorno a un primato di Pietro nella fede e nella carità, che si esprime come
servizio e non come potere di giurisdizione universale.
Certo, è una strada già aperta precedentemente, a suo modo
da Ratzinger, seppure questo ennesimo gesto la avvalori ulteriormente. Vallini
reciterà anche l’auspicio che «da un confine all’altro della terra si formi un
solo gregge sotto il solo Pastore». Parole che spingono verso ciò che già la
“Ut unum sint” di Giovanni Paolo II auspicava: il superamento della frattura
con la Chiesa di Oriente sorta dalle reciproche scomuniche del 1054. Un primo
passo verso la piena comunione era stato compiuto nel 1965 quando Paolo VI e il
patriarca Athenagoras I avevano «tolto dalla memoria e dal mezzo della Chiesa»
il ricordo della scomunica. Ma ora con Francesco frutti ecumenici insperati
potrebbero maturare.
Anche il problema della collegialità è sentito da tempo. Le
relazioni tra il potere pontificio e quello dei vescovi era stato il centro dei
concili del quattrocento. A Costanza (1414-1419) prevalse la tesi conciliare; a
Firenze (1439) si affermò il primato del Papa. A Trento la questione non venne
trattata tanto che la tensione fra forze centripete e centrifughe nella Chiesa
continuò fino a Pio IX, quando si sviluppò il modello di potere pontificio
ancora in vigore. Pio IX isolò i vescovi gallicani, promosse gli interventi
delle Congregazioni romane negli affari delle diocesi, impose la liturgia
romana, eliminò i testi di diritto canonico non conformi alle tesi romane,
promosse l’immagine di un episcopato raccolto attorno a Roma. Il Vaticano I
(1870) affermò l’infallibilità pontificia nelle affermazioni fatte ex Cathedra
riguardo la fede e la morale. E definì il potere del Papa e dei vescovi come
«ordinario» (cioè non delegato), «immediato» (viene direttamente da Dio) ed
episcopale. La giurisdizione del Papa fu su tutta la Chiesa, quella dei vescovi
sulla propria diocesi. Si aprì così il problema della coesistenza di questi due
poteri.
Il Vaticano II (1963-’65) affermò invece la collegialità, la
corresponsabilità dell’episcopato con il Papa e bilanciò la sottolineatura del
potere del Papa del Vaticano I. Ma il modello del potere pontificio rimase
quello sviluppato con Pio IX, in particolare durante il regno di Wojtyla. Ora
molto potrebbe cambiare. E il fatto che la prima nomina curiale di Francesco si
stata (ieri) quella di un religioso francescano – padre José Rodriguez Carballo
è divenuto segretario dei Religiosi – è un segnale che dice tanto.
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