Controstoria dei Segretari di Stato vaticani da Rampolla a Parolin
Un secolo di segretari di stato, da Leone XIII a papa Francesco. Dalla Segreteria di Stato sottomessa al Sant’Uffizio prima di Pio XII a quella incorporata dal papa con Pio XII ; dalla dittatura del segretario di Stato con Paolo VI alla fine della dittatura con papa Francesco. Il quale rispolvera l’assolutismo più o meno illuminato del pontefice.Una controstoria degli uomini che hanno governato la curia all’ombra dei papi, e spesso sono finiti col governare i papi all’ombra della curia, servendosene invece che servirli. Una storia di uomini in rosso, fra il grigio e il noir.
di Antonio Margheriti Mastino
Ieri mons. Pietro Parolin, nominato da due mesi da papa Francesco, ha trascorso il suo primo giorno da segretario di Stato vaticano . Ed è allora questa l’occasione per fare una panoramica dei segretari di Stato degli ultimi 100 e più anni e di come dal 1900 ad oggi è cambiata la segretaria di Stato (e come cambierà), quanto a importanza, priorità, tendenze politiche, strutture. I segretari di Stato del XX e XXI secolo e i “loro” papi, dunque.
Da Mariano Rampolla del Tindaro, segretario di Stato sotto Leone XIII e primo per il XX secolo a Tarcisio Bertone e Pietro Parolin che continuano l’ufficio nel XXI secolo. Passando per Rafael Merry del Val, Pietro Gasparri, Eugenio Pacelli-PioXII, Luigi Maglione, Giovanni Battista Montini e Domenico Tardini, Angelo Dell’Acqua, Amleto Giovanni Cicognani, Jean Villot (e Giovanni Benelli), Agostino Casaroli e Angelo Sodano.
IL PAPA NON ELETTO: RAMPOLLA
Il primo fu Mariano Rampolla del Tindaro, un aristocratico siciliano, gran signore di censo e di fatto. Servì Leone XIII negli anni della sua estrema vecchiezza, divenendo il vero e solo deus ex machina della politica della Santa Sede. Cosa che gli diede prestigio, certo, considerato e trattato da tutti come il papa in pectore, e si spinse davvero, morto l’ultranovantenne Leone, nel 1903, a un solo gradino dal Soglio. Purtroppo proprio tutto questo sarà anche la sua rovina: in pieno conclave, quando ormai quasi tutti erano decisi a votare Rampolla, si alzò al momento giusto il cardinale di Cracovia Puzyna, e pronunciò il veto dell’Imperato austro-ungarico alla sua elezione: la scusa era per via della sua politica “filofrancese”, la realtà è che di nient’altro che d’un capriccio imperiale si trattò, un giocare al gatto col topo, per svagarsi e dimostrare a se stesso chi era il gatto. Fu la fine per Rampolla. Poco dopo, per grazia di Dio, sarà anche la fine dell’impero Austro-Ungarico.
IL RAGAZZO DI PORPORA E D’ORO: MERRY DEL VAL
In quello stesso drammatico conclave, dopo che i voti erano confluiti sul santo patriarca di Venezia, Giuseppe Sarto (che appena eletto, guarda caso, abolì per sempre l’esecrabile ufficio del “diritto di veto” in conclave dell’infida casa Asburgo), fece un gesto che a suo modo era tradizionale: vestendosi da pontefice, si tolse lo zucchetto purpureo da cardinale e lo impose sulla testa di un giovanissimo e azzimato prete, segretario del conclave, destinato a grandi cose da quel momento: quel gesto significava la promessa della berretta cardinalizia per il fortunato. Era il 38enne Rafael Merry del Val, che di lì a qualche giorno sarà il segretario di Stato del neoeletto Pio X. Aristocratico sino al midollo, nelle sue vene scorreva una mistura di sangue blu elettrico delle più blasonate famiglie iberiche, mitteleuropee e scandinave. Fedele come un mastino al suo Padrone, diventerà l’ammirato e odiato, energico e combattuto, controverso in ogni caso, “braccio armato” del suo papa.
Specialmente nel tentare di sgominare la sediziosa eresia modernista che stava prendendo il sopravvento dentro la Chiesa: purtroppo senza spegnerla davvero; covò come fuoco sotto la cenere e divampò durante il Concilio Vaticano II, e oggi è appitonata su quasi tutte le cattedre degli atenei ecclesiastici, e secondo i suoi criteri deviati ha formato e forma il clero odierno e futuro.
Oggi è aperto il processo di beatificazione per Merry del Val, unico caso fra i segretari di Stato.
IL “PECORARO”: GASPARRI
A questi due squisiti diplomatici aristocraticissimi, successe il “Pecoraro”: di nome, di fatto e di modi; a ricordare che la Cattolica se non può essere una democrazia, al contempo è, naturaliter, l’istituzione più democratica del mondo, dove un contadino, un figlio di pecorari marchigiani può diventare, al pari degli altri con natali nobilissimi e perfetti, un “re”, un “principe” e un “primo ministro”… cose che, proprio in quegli anni, nello Stato savoiardo dei notabili liberali, laicista e massone, che non conoscevano il popolo e ne provavano intimamente ribrezzo, sarebbe stata a dir poco inimmaginabile.
E davvero figlio di pecorari e contadini marchiciani era il brusco, linguacciuto, sgarbato, trasandato, talora persino maleducato cardinalePietro Gasparri: cambiò status, ma non spirito, né dentro né fuori, rimanendo il “pecoraro” di sempre, come dicevano i suoi detrattori, ma anche gli ammiratori dallo stomaco forte che al momento opportuno si tappavano le orecchie, gli occhi anche. “Con gli abiti eternamente spiegazzati e la berretta cardinalizia sudata, unta e bisunta” lo ricordava ancora decenni dopo un suo allora giovane allievo diventato ormai segretario di Stato: Domenico Tardini. Ma il cervello era sopraffino, da far impallidire fior fiore di diplomatici ecclesiastici dai natali rivestiti di pezze onorevoli e triplice cognome, che egli guardò sempre, a sfida, dall’alto in basso, e ove possibile maltrattò – il complesso del pecoraro gli faceva tenere in gran dispitto i signoroni in talare.
Marchigiano, certo. Ma noterete spesso che è definito “abruzzese”: forse gli si dava dell’”abruzzese” perché, essendo nato in prossimità del confine con l’umbria, i suoi modi erano simili a quelli dei pastori umbri che erano a propria volta simili a quelli dei pastori montani abruzzesi: rudi, con una pronuncia chiusa e dura, arrogante, che suscita immediata antipatia in chiunque l’ascolti. Quando entrò nell’aristocratica casa del giovane e promettente studente dell’Accademia Ecclesiastica, Eugenio Pacelli, vide che questi stava dilettandosi a suonare un violino seduto davanti al caminetto. Si aspettava forse un complimento dal cardinale Gasparri, il quale invece lo interruppe bruscamente con un “non mi piace quel che vedo, ancora meno quel che sento”: non si riferiva alla musica in sé, si riferiva al “musicista”: non gli sembravano virili certi passatempi… e di certo non lo erano come galoppare, la sua passione. Un pecoraro, non v’è dubbio!
Scarpe grosse e cervello fino, dunque: non è un caso che restò ininterrottamente segretario di Stato di due papi, Benedetto XV e Pio XI (altro carattere spinoso e più ancora iracondo: famigerati i suoi pugni sul tavolo che mandavano in frantumi parecchie cose, e le urla da scaricatore di porto, non esenti da qualche parolaccia); neppure per caso sarà lui il vero regista dei Patti Lateranensi.
Dopo che fu morto, furono ritrovati e illecitamente pubblicati i suoi diari privati: dove ne aveva per tutti, con giudizi ed epiteti a dir poco, in taluni casi, vergognosi. È stato il più pratico, efficiente, caparbio e politico dei segretari di Stato. Il più fuori le righe anche.
L’ERA DELL’AUTOCRATE: PIO XII, SEGRETERIO DI STATO FAI DA TE
Quindi a succedergli ritornò un aristocratico, un altro diplomatico, fine finissimo anche stavolta, ma senza scarpe grosse: raffinato, anche nei modi, al contrario del suo maestro Gasparri. Gli succede nel periodo più procelloso della storia, all’affermarsi delle grandi dittature, quella hitleriana compresa, e dalla nunziatura tedesca veniva Eugenio Pacelli, che tenne la segreteria di Stato per tutto il pontificato di Pio XII, venendo eletto egli stesso pontefice. E restando comunque, psicologicamente ma direi anche di fatto, il segretario di Stato di sempre, il diplomatico di sempre anche nell’avvelenata politica internazionale di quegli anni. Non staccò mai da quella funzione di “primo ministro “ del papa, neppure quand’era egli stesso il papa, essendo tagliata su misura per lui – specie sotto un pontefice iracondo e turbolento come Pio XI, tendente pericolosamente ad agire d’impulso.
Prova ne sia che appena eletto nominò sì un segretario di Stato, il napoletano Luigi Maglione: fu quasi solo un breve interregno nominale fra una segreteria di Stato Pacelli e l’altra. E infatti vedi che appena questi fu morto, pochi anni dopo, Pio XII non ne nominò alcun altro. Divenendo segretario di Stato di se stesso sino alla fine. Del resto, solo Pacelli corrispondeva all’ideale di “primo ministro del papa” che aveva in testa Pio XII, nel suo mirabile efficiente autocratico cesarismo. E finché ebbe fiducia solo di se stesso, molti guai gli furono risparmiati, in effetti.
Si limitò a nominare solo due sostituti della segreteria di Stato, nelle persone dei monsignori Giovanni Battista Montini, bresciano, eDomenico Tardini, romano de Roma e trasteverino ruspante: una diarchia di personaggi decisamente diversi tra loro, uniti da poche cose e separati da troppe, che dovevano semplicemente rispondere al suo imperativo “non ho bisogno di collaboratori ma di esecutori”, senza fare comunella tra loro.
Tuttavia, invecchiando Pio XII, complicandosi la situazione internazionale, aumentando gli impegni del papa, aumentò anche la rilevanza e il ruolo del duo Tardini-Montini. E anche una certa autonomia del Montini, le cui azioni “riservate” (ossia non comunicate al papa) spesso non coincidevano affatto con le intenzioni del pontefice. Quando Pio XII s’accorse di questi margini d’autonomia che s’era ritagliato il sostituto Montini (futuro Paolo VI), che nel frattempo erano sforati in un pericoloso arbitrio, e che costui senza avvisare il papa aveva avviato una sua trattativa diplomatica con i comunisti sovietici (che non pochi danni e vittime avrebbe fatto), affranto e addolorato per questa sorta di “tradimento”, Pio XII si trovò nella spiacevole situazione di doverlo allontanare dalla segreteria di Stato e dal Vaticano: con un promoveatur ut amoveatur che fece scalpore, lo spedì arcivescovo a Milano nel 1954.
Non indisse da allora alcun concistoro, osserva qualche maligno – nonostante ce ne fosse bisogno, perché il Sacro Collegio era ridotto a una sempre più sparuta pattuglia di cardinali superstiti che languivano nella loro estrema senescenza –, non indisse mai più concistori, dicevo, per non dover dare la berretta cardinalizia all’arcivescovo di Milano. E ridurre così al minimo il rischio di vederselo succedere al Soglio. Nel frattempo, Montini era stato rimpiazzato dal devotissimo papolatra mons. Angelo Dell’Acqua: un rurale del milanese di modestissime origini, che tanta era la sua venerazione per il pontefice Pio XII che quando questi lo chiamava al telefono per le faccende d’ufficio, Dell’Acqua non solo balzava in piedi davanti la cornetta e si segnava, ma subito dopo ascoltava tutta la telefonata stando in ginocchio, chiunque ci fosse, suscitando non poche ilarità nei corridoi di curia. Ce ne fossero ancora di preti così in Vaticano… Per la verità non ci sono manco più papi così. E forse, qualcuno celia, non ci sono manco più papi.
IL ROMANACCIO E IL DIPLOMATICO: TARDINI E CICOGNANI
Morto che era, nel 1958, Pio XII, il nuovo papa, non appena che fu eletto elevò immediatamente al rango di segretario di Stato l’antico sostituto, uno del Duo,mons. Domenico Tardini. Che con la sua prosaica assennatezza, la trasandata compostezza, l’alacre pigrizia che per lo più era romanesco scetticismo, la simpatica vena trasteverina palpabile anche nella cadenza, mantenne sino alla morte l’incarico, avvenuta all’improvviso nel 1961.
Papa Giovanni lo sostituì con un antico diplomatico a tutto tondo, uno dei due fratelli Cicognani, entrambi nunzi e cardinali, il vecchio Amleto Giovanni Cicognani, che senza infamia e senza lode, con rigoroso spirito burocratico mantenne quell’ufficio per tutto il restante pontificato di Roncalli e per parte di quello di Montini, passando per tutto un Concilio Ecumenico, mantenendo dritta la barra o inclinandola secondo i voleri del papa, nonostante i venti contrari, le fronde e i veri e propri deliri all’interno di quella controversa Assise.
Sì, perché nel frattempo l’antico ex sostituto Montini era diventato papa Paolo VI, con il compito di portare a termine un Concilio che avrebbe scosso (e purtroppo anche trasfigurato… quando non proprio sfigurato) la Chiesa fin dalle fondamenta. Con Cicognani alle costole, ereditato dal precedente papa, ma da buon diplomatico malleabile al punto giusto chiunque fosse stato il padrone, pronto ad attaccare l’asino ove questi l’avesse desiderato.
Ma da questo punto di vista, papa Montini che nella curia ci aveva vissuto, era un po’ come Pio XII, a suo perfetto agio all’interno, come un feto nel suo liquido amniotico, tanto da considerarla nient’altro che il prolungamento della sua stessa persona, di modo che, qualsiasi terzo incomodo avrebbe avuto un ruolo importante ma tutto sommato decorativo, foss’anche un segretario di Stato come Cicognani: Montini – come Pacelli – era la curia! La segreteria di Stato nient’altro che la sua longa manus!
Sotto la segreteria di Stato Cicognani avvenne dunque il cambiamento più grosso, epocale se vogliamo, all’interno della Curia; cambiamento che, col senno di poi, alla luce dei fatti anche odierni, sarà all’origine di molti guai a venire. Per la Curia e la Chiesa tutta.
Fino a quel momento lì, infatti, e da secoli la supremazia e quasi l’egemonia all’interno della Curia Romana l’aveva detenuta il Sant’Uffizio, del quale prefetto era il papa, coadiuvato da un cardinale segretario. Segno di una Chiesa che, specie dopo il concilio tridentino, aveva al centro delle sue preoccupazioni prima ancora che le questioni geopolitiche e la bassa cucina politica di casa propria, la salvaguardia del Deposito della Fede, la verità cristiana da preservare con decisione da qualsiasi inquinamento, interno prima che esterno, e questa era la priorità della curia.
Papa Montini, invece, aveva altre priorità, la sua indole era squisitamente politica; dirà infatti di lui Cossiga: «Montini si considerava il segretario naturale della Democrazia Cristiana; da papa si avvertì sempre come il mancato segretario della DC; spesso volle agire come fosse il segretario ombra del Partito». La politica prima di tutto.
L’EMINENZA GRIGIA: VILLOT(Riforma della curia e dittatura della segreteria di Stato)
Da qui la nefasta riforma montiniana della Curia, che relegava a un ruolo puramente tecnico e di secondo piano il Sant’Uffizio (del quale muterà financo il nome, per reciderne la storia portentosa e controversa, edulcorandolo in – proprio a sottolinearne la burocratizzazione castrante – Congregazione per la Dottrina della Fede), di fatto subordinandolo alla segreteria di Stato.
Segreteria di Stato che da questo momento assumerà una supremazia praticamente assoluta su tutta la Santa Sede. Sottomessa solo al papa… e non sempre… e col tempo, sempre meno: certe volte, talora riuscendoci, in qualche modo ha tentato di sottomettere gli stessi papi alle sue esigenze. Di fatto, quindi, Paolo VI fa della segreteria di Stato una potere dispotico e onnisciente all’interno del Vaticano, che tutto voleva vedere, sapere, autorizzare, decidere. Che tutti gli altri organismi vaticani esige carponi alle sue calcagna, cedevoli alle sue inderogabili esigenze, politiche specialmente. A cominciare dall’Ex Sant’Uffizio.
A capo di tutto questo, nel 1969, Paolo VI mise un’eminenza grigia (nel senso più letterale del termine) francese, Jean Villot: un personaggio strano, insipido, spento, indecifrabile, freddo… anzi: glaciale. Forse era del tutto privo di passioni umane, di emozioni persino, con quell’aria eternamente scettica e annoiata: un pigro senza rimedio e senza il minimo zelo apostolico, recuperato dall’arcidiocesi di Lione, da dove chiese di essere trasferito nella Curia Romana, perché “non capace di guidare una diocesi”, ovverosia perché non gli interessava farlo e s’annoiava. Ma del resto in Vaticano poi passò buona parte della giornata lavorativa tra il letto, la poltrona e la tavola.
Siamo alla dittatura delle segreteria di Stato, quindi. Ma era qualcosa che Montini e solo Montini poteva permettersi: ogni organigramma della nuova curia era un pezzo di una formidabile macchina montata su misura di Paolo VI, e ai suoi soli voleri e comandi rispondeva. Ogni esponente di spicco della segreteria di Stato e di ogni ulteriore ufficio, altro non era che alter ego di Montini.
Tale era anche il vero dominus della curia montiniana, ossia il sostituto della segreteria di Stato, il brusco e tirannico toscanaccio mons. Giovanni Benelli, “il Fanfani del Vaticano” (almeno così lo chiamo io), versione cattiva di Montini. Era lui e non Villot il vero signore della segreteria di Stato, e a sua volta era Paolo VI e non Benelli il vero padrone: la segreteria di Stato era il corpo mistico di Montini, lui che a guardarlo, pura essenza apostolica come appariva, non sembrava neppure averne uno di corpo… che non fosse politico o spirituale.
Proprio questa osmosi quasi mistica fra il corpo politico della Santa Sede e il corpo di Montini, questa sorta di luigino “le Secrétariat… d’Etat c’est moi!”, renderà questo ambiente impervio e disseminato di trappole per i suoi successori al Soglio; in ogni caso un abito tagliato su misura del precedente proprietario e adesso o troppo largo o troppo stretto per gli eredi. Talora – ad esempio sotto il pontificato di Benedetto XVI – così stretto da rasentare una camicia di forza… che si è strappata solo dopo aver stritolato il papa su cui era stata indossata come una cappa di piombo.
L’UOMO DEI CINISMI ARRENDEVOLI DELLA DIPLOMAZIA VATICANA: CASAROLI
Nei primi mesi del papa polacco, Giovanni Paolo II, siccome quasi subito, all’inizio del 1979, morì d’infarto il segretario di Stato Jean Villot ereditato da Montini e Luciani, in un momento delicatissimo di rapporti di forza tra chiesa polacca e regime comunista, fu chiamato alla segreteria di Stato un diplomatico di carriera, un dottor sottile con tutti i cinismi arrendevoli della diplomazia montiniana che navigava da decenni nelle procellose acque dell’oceano rosso dei paesi dell’Est: mons. Agostino Casaroli. Chiamato ad assecondare i voleri del suo padrone polacco, a sfidare senza sfidarlo davvero, giocando sulla forza dell’inerzia apparente, sulla diplomazia e il mercimonio sotterraneo, il putrescente e impopolare comunismo polacco e di riflesso in tutti i paesi satelliti dell’ancora più marcia URSS.
Proprio lui, quel Casaroli che, fin pochi anni prima, nunzio nei paesi dell’Est comunista, era stato l’architetto della desolante Ostpolitik, ossia della rinuncia della Santa Sede a denunciare il comunismo e spesso anche a difenderne le vittime, fossero anche preti e cardinali: in nome di un presunto male minore che presto si rivelerà una crudele ipocrisia ai danni del clero e dei cattolici che sperimentavano sotto le tirannidi rosse il loro martirio quotidiano.
Si arrivò sino alla vergogna di accondiscendere da parte della segreteria di Stato alla nomina di arcivescovi che erano palesemente agenti del Kgb e della Stasi, degli infiltrati nel clero, i quali poi denunciavano al regime preti e fedeli in odor di anticomunismo, facendoli arrestare, torturare e giustiziare. Lui, il Casaroli che insieme alla segreteria di Stato di Paolo VI che poi era Paolo VI stesso, aveva propinato la consegna del “silenzio” a tutti gli eroici vescovi dell’Est che alzavano la voce contro il lupo rosso che faceva strazio delle loro greggi; la stessa consegna del “silenzio” che era stata data a tutti i giornali cattolici, per cui in tutto il periodo montiniano gli fu vietato finanche solo scrivere la parola “comunista”, specie se era per dirne male o denunciare qualcosa.
Prima ancora che, proprio negli anni di Casaroli (ma già da prima), un vasto strato della cloaca pretesca, vescovi, cattedratici, religiosi, preti e laici impegnati, fuori tempo massimo, col solito risibile anacronismo clericale, si schierassero apertis verbis col comunismo stesso, ovunque morente ma che immaginavano come il sole nascente dell’avvenire, non solo secolare ma anche chiesastico. Ed è anche la ragione, il movente per il quale i vari Montini, Villot, Benelli e soprattutto Casaroli in quegli anni si erano mossi in modo tanto passivo, quando non complice, verso i regimi comunisti: erano davvero convinti, anche loro al pari degli intellettuali a cottimo marxisti, che il comunismo “scientifico” avesse vinto, ed era prossimo al trionfo definitivo, e tanto valeva adeguarsi.
Fossero stati meno quegl’uomini di poca fede di evangelica memoria quali erano – come quel Pietro che sulla barca di Gesù nella tempesta pensa al peggio, non fidandosi delle rassicurazioni di Gesù – avrebbero non solo ricordato il “non praevalebunt” di Cristo, ma gli sarebbero giunti all’orecchio anche le prime circolari riservate dei servizi segreti di quei regimi, del Kgb e della Stasi – quelli che davvero avevano il polso della situazione e dei regimi comunisti erano il sistema nervoso –, che avvisavano i vari Breznev che la situazione era per niente buona per il comunismo internazionale e il suo futuro era incerto, e anzi man mano sempre più “segnato”, e forse era meglio prepararsi in anticipo al “peggio”, e studiare una probabile “smobilitazione e cambio della guardia”, in previsione di un collasso imminente del regime sovietico.
Ma da quell’orecchio lì, Casaroli e tutti i suoi padroni e servi non ci sentivano. Più tardi, quando tutto fu compiuto, e la storia non diede affatto “ragione” alla Ostpolitik, che semmai collassava insieme al comunismo, vollero millantare, caduto il muro, una “profezia silenziosa” quale sarebbe stata, a loro dire, la Ostpolitik, mentre fu solo un cedimento vile e orbo, quando non una complicità piena di ipocrisie che chiamarono “diplomazia”: unilaterale, in cambio di una captatio benevolentiae da parte dei despoti comunisti, la quale fu limitata solo ai titoli dei giornali e a quella parte del clero che si era disarmata della sua missione e magari pure era passata al servizio, lautamente ricompensato, del nemico.
Questo, tutto questo, solo più tardi, alla fine della sua vita, Casaroli lo volle chiamare “martirio della pazienza”. La sua. Mentre invece fu solo il martirio della solitudine e della disperazione di quei cattolici che la Roma della dittatura della segreteria di Stato aveva abbandonato al loro destino, in nome di una diplomazia che era soltanto resa incondizionata. Se la Segreteria di Stato non combatté allora la sua buona battaglia, quei poveri cristi ovunque dispersi nell’oceano rosso dell’Est mantennero almeno la fede. Certa diplomazia, forse, neppure quella: anche perché per perderla la fede prima bisognava almeno averne avuta una.
Come dirà il santo ed eroico cardinale ucraino Josyp Slipyj, prima perseguitato da Mosca e poi “esiliato” e condannato al “silenzio” in Vaticano: «In ogni momento penso agli anni della persecuzione che ho subito da parte dei comunisti, ricordo il carcere e le torture, sento ancora addosso la fatica e il freddo dei lavori forzati in Siberia, la mia condanna a morte l’ho sempre davanti agli occhi. Ma, credetemi, dietro le Mura Vaticane ho passato momenti peggiori».
LA DIPLOMAZIA VATICANA “LEBBRA DELLA CHIESA” E IL SUO SATRAPO: SODANO
Il secondo segretario di Stato di Giovanni Paolo II sarà Angelo Sodano. Una carriera tutta interna alle nunziature dell’America Latina, nei momenti politicamente più difficili di quel continente, tra spinte marxisteggianti che calavano da Mosca e contraccolpi golpistici di militari antimarxisti, foraggiati da Washington. Uomo d’apparato con tutti i cinismi e le amoralità degli uomini d’establishment vaticano, moltiplicatore di ectoplasmi suoi consimili e portati più alla mondanità spirituale che allo zelo apostolico e, in una parola, a funzionari in carriera che han scambiato la Chiesa per un ministero: scarsi di cultura ecclesiale, abbondanti di clericalismo, digiuni di scrupoli, prepotenti sul versante politico, impotenti e sostanzialmente indifferenti su quello spirituale.
Sodano gestirà con pugno d’acciaio tutta la lunghissima fase calante del pontificato polacco, con un papa sempre più reso impotente dalla malattia degenerativa. Potente per istinto e prepotente per abitudine, sarebbe stato anche onnipotente non fosse che dovette condividere con malumore e a costo di continui scornamenti la sua monocrazia istintiva con una corte di pretoriani, che moltiplicava e fortificava il suo ascendente man mano che si rimpiccioliva e depotenziava il romano pontefice infermo. Il traffichino segretario del papa mons. Dziwisz, la suora cattiva card. Giovanni Battista Re, il benemerito Camillo Ruini vicario di Roma e presidente della Cei. Quest’ultimo soprattutto, fornito di una sottigliezza politica che al rubicondo, rude segretario di Stato Sodano mancava.
Una segreteria di Stato la sua che da quegli anni di decadenza (inversamente proporzionale alla sua influenza) diventerà onnipotente gestore di ogni traffico, moltiplicatore di pani e pesci carrierizi, affaristici, da sottobosco politico e familistico. Santa Patrona di ogni mediocrità e demerito come trampolino di lancio verso magnifiche sorti e personalistiche; Protettrice di ogni nefandezza, Custode del silenzio colpevole su ogni scandalo, come panacea di ogni male, nell’illusione che basti tacerne e possibilmente ignorarlo, magari assecondarlo, per limitarne i danni. Difficile stabilire in questa gara di amoralità e ipocrisie chi vincesse la partita fra la corte della segreteria di Stato montiniana e questa. Probabilmente questa: perché all’amoralità aveva aggiunto anche la mediocrità, quell’aurea mediocritas che, almeno questa, non può essere imputata ai Casaroli e ai Benelli. I quali eccellevano comunque. Anche nell’indecenza. Se i i primi erano intelligenti e ambiziosi, questi ultimi erano semplicemente ambiziosi. Semmai furbi e ambiziosi.
Quando nel 2005 fu morto Giovanni Paolo II, si sostenne che la diplomazia vaticana era diventata la “lebbra della Chiesa”. E nel conclave che elesse Benedetto XVI si disse che andava “estirpata”. Più facile a dirsi che a farsi. Benedetto attese due anni, che trascorsero senza scosse. Poi decise di cominciare a esautorare la corte sodaniana: da quel momento partirono gli “scandali” e svolazzarono i “corvi” sul papa direttamente telecomandati dalle Sacre Stanze. Le stesse dove da decenni avevano fatto il nido le cucciolate di Sodano, sotto le sue ali di chioccia. Chi ha vinto quella partita ora lo sappiamo: Benedetto XVI ha lasciato, i sodaniani sono tornati ai posti di comando. E Sodano sta sempre lì, a bearsi del suo capolavoro, dopo che l’ha “fatta vedere” al papa che aveva osato pensare di essere più forte di lui.
PASTICCIONE E CAPRO ESPIATORIO: BERTONE
Poi, asceso al soglio Benedetto XVI, dopo un po’ fu la volta del salesiano Tarcisio Bertone, che al contrario di quanto si crede non era affatto digiuno di esperienze curiali, avendo già passato diversi anni in segreteria di Stato. Non aveva però la necessaria abilità manovriera né l’acume politico per gestire i rimasugli curiali imbastarditi ereditati dal precedente lunghissimo pontificato e a quello, di fatto, funzionali; mentre mano a mano andavano sclerotizzandosi e perdevano il contatto e il controllo della realtà.
Bertone è partito con le migliori intenzioni, ma ha presto capito di dover fare i conti con quella realtà torva che lo aveva preceduto e che non aveva alcuna intenzione né di sloggiare né di fargliela passare liscia, sentendosi usurpata. Questo pover’uomo si è così trovato a dover gestire questo coacervo di poteri resi anarchici e anche arroganti, autoreferenziali, dalla lunga permanenza al potere, un potere che a troppi cominciò a sembrare al di là del bene e del male: il primo a doverne pagare le conseguenze sarebbe stato proprio il papa, sino all’atto scioccante dell’abdicazione; vittima in un certo senso sarà anche Bertone, quantunque a molti fuochi aveva egli stesso dato alimento facendoli divampare, anzitutto selezionando un personale che definire equivoco è poco. Ma su tutto e tutti si estendeva ancora l’ombra sinistra di Sodano, mentre si respirava permanente aria di regolamento di conti e di torbidi: emblematico di ciò che stava per avvenire al cambio della guardia, fu il fatto di Sodano segretario uscente che per lunghissimo tempo si rifiuta di cedere le sue stanze al segretario entrante, Bertone. Quasi a dire “ti faccio vedere io chi è che comanda!”.
Ma forse il giudizio più equanime su Bertone me lo diede il giornalista cattolico Renato Farina, che mi disse: «E’ facile essere ingiusti, ma Benedetto, eletto già anziano, aveva deciso sin dal primo momento di concentrarsi sull’essenziale e rinunciare alla gestione pratica della curia e della sua politica, delegando tutti questi affari mondani al suo segretario di Stato. E Bertone, dunque, ha avuto sulle spalle un carico pesantissimo che a nessun altro predecessore era toccato».
Sbagliare, cozzare contro i torbidi altrui era quanto mai facile. Il bilancio di quella segreteria di Stato, da tutti i punti di vista, resta il più grande fallimento della storia di quell’istituto. Sebbene, come il papa stesso ebbe modo di dire, quella cancrena non riguardasse solo la segreteria di Stato, ma anche la curia; ma questo a sua volta era il riflesso condizionato di un male che attanagliava tutta la Chiesa. E il mondo. Era un problema prima ancora che umano o di strutture, un problema di fede. Il male stava alla radice; tutto il resto altro non era che la moltiplicazione dei frutti marci.
LA FINE DELLA DITTATURA DEL SEGRETARIO DI STATO: PAROLIN
Appena fu data notizia della nominadel nuovo Segretario di Stato vaticano scrissi qualcosa, così… all’acqua di rose… nella giusta misura ossequiosa e codina, sul nuovo venuto, l’“uomo di papa Francesco” come qualcuno pateticamente volle definirlo; persino l’“uomo nuovo”. Ma per piacere!
Diciamoci la verità: Pietro Parolin non è affatto “uomo” di papa Francesco, essendo che per sua stessa ammissione il papa lo ha incontrato per pochi minuti “solo una volta”. Men che meno è un uomo “nuovo”. È in realtà un prodotto purissimo delle inveterate dinamiche interne alla diplomazia vaticana e alla Segreteria di Stato, all’interno della quale, fin da giovanissimo, ha passato venti anni, tutti vissuti comodamente in quell’ambiente al quale ha imparato a somigliare. Anzitutto diffidando di tutti.
Esponente di punta della cucciolata sodaniana, quella che – come dicevamo e apposta ribadiamo – l’ha “fatta pagare” a Benedetto XVI per essere stata a suo tempo esautorata, e ha così cesellato il contesto per la Gran Rinuncia neutralizzando con un cordone sanitario l’azione di Ratzinger; ha poi coltivato l’humus perfetto per l’elezione del “Sudamericano”… e dunque, come da disegno, è ritornata in pista, in tutte le postazioni di comando. A prescindere dalla sua amoralità, dalle amicizie particolari, dalle protezioni infami, dall’essere la regista di ogni scandalo vero (insabbiato) o artificiale (gonfiato) da almeno venti anni a questa parte. Ed è così che la cordata sodaniana “vincente” che in un mese ha favorito il doppio colpaccio, la Rinuncia di Benedetto e l’elezione di Francesco (per motivi che nulla c’entrano con questioni teologiche o religiose… tutt’altro!), l’ha al momento opportuno tirato fuori dalla nidiata. Il Parolin.
Non ci stresseremo qui a ricostruire una biografia comunque “grigia”, tutta da addetto ai lavori com’è quella di Pietro Parolin: tutti ne sanno assai poco, e del resto c’è poco da sapere. Ma quel poco, più o meno ricamato, quando non inventato di sana pianta per eccesso di zelo codino, lo possiamo trovare su ogni giornale. Certe volte troveremo sui giornali anche il suo “futuro” e quello che “farà”: tutto pattume che ha la stessa credibilità del Nobel per la pace preventivo ad Obama. Cazzate, in pratica. La verità è questa: che nessuno sa una beata mazza di mons. Pietro Parolin, e il primo che inventa qualcosa fa opinione, e passa di bocca in bocca diventando leggenda metropolitana, per i laici; legenda aurea per i baciapile. Patetica nell’uno e nell’altro caso.
A noi interessa, in due parole, rispondere alla domanda: perché il papa Francesco ha nominato proprio Pietro Parolin alla carica di segretaria di Stato che, mutatis mutandis, corrisponderebbe a quella di primo ministro del Vaticano? Che sta a significare la sua nomina? Saremo brevi.
Un’ulteriore trasformazione della segreteria di Stato e della curia tutta, questo significa, e un’ennesima ridistribuzione dei poteri e dei rapporti di forza. Un avvicendamento di supremazie, anche se, come un po’ tutto in questo pontificato, non è chiaro con cosa si sostituisce cosa.
Una sola cosa appare sicura, ma già ce n’era sentore non appena il papa annunciò si sarebbe stabilito a Santa Marta. E lo fece non per le ragioni demenziali addotte dai giornali (“umiltà”… “povertà” e bla bla bla: anche perché occupa l’intera lussuosa suite del secondo piano), ma proprio per sfuggire al controllo, alle prassi e anche alle trappole della Curia che nei Sacri Palazzi ha fatto il nido, e il predecessore ancora ne portava le ecchimosi sulla pelle: lo ha fatto per scampare alla dittatura de facto della segreteria di Stato, e ai suoi famigerati “filtri” che frapponeva fra il papa e le comunicazioni che gli giungevano dall’esterno e soprattutto dall’interno; per sottrarsi all’autoreferenzialità di una istituzione che aveva smesso di essere al servizio dei papi, per ormai servirsene.
Ed è questa la cosa sicura: il papa vuole mettere la parola fine agli equilibri di potere vigenti da mezzo secolo e nati dalla riforma montiniana della Curia, che diede da allora il via alla dittatura della segreteria di Stato sulla Curia e su ogni suo organigramma, e alla veloce, nevrotica, incontenibile e infine sclerotica burocratizzazione della Santa Sede, imbrigliando così anche l’attività apostolica.
La figura del segretario di Stato, dunque, non sarà più quella del dittatore del Vaticano, ma una figura fra le tante delle congregazioni curiali, non necessariamente la più importante ma neanche la più insignificante. Semplicemente, nominando un nunzio giovane e tutto sommato “periferico” si vuol ridurre la segreteria di Stato all’ufficio suo proprio: né più né meno che occuparsi della politica estera delle Santa Sede, ossia governare i nunzi apostolici; sbrigare le faccende più strettamente politico-istituzionali interne.
Nell’uno e nell’altro caso, di quelle parti delle quali il Santo Padre non si vorrà occupare direttamente, e già ha fatto intendere che i nunzi apostolici li vuol ricevere, ascoltare, interrogare e comandare direttamente lui.
Anche nei compiti specifici del proprio ufficio, dunque, la segreteria di Stato si vede ridotto all’osso il suo ruolo, stante la tendenza accentratrice e monocratica del papa Francesco. Quindi, il segretario di Stato cessa la sua lunga attività extra-ordinaria ed è ricondotto all’ordinaria amministrazione del suo officio.
Tutto questo lo abbiamo capito. Come abbiamo capito che il papa vuole essere il nuovo despota più o meno illuminato del Vaticano. Ma a parte questo, oltre al papa, ci sarà qualche altro a comandare nella Curia? Ci sarà un corpo intermedio che si frappone fra il papa e il popolo fedele? Tra il papa e il clero e l’episcopato tutto? Tra il papa e Dio? Ecco, questo è quello che nessuno ha ancora capito.
Avendo qui a che fare con un gesuita, è probabile che no, che nel suo dispotismo neppure troppo illuminato, tanto da rasentare l’assolutismo non abbia bisogno né voglia “primi ministri del re” tra i piedi. Che, come Pio XII, cesaristicamente non senta il bisogno di collaboratori “ma di esecutori”. E qui nasce l’altro dubbio, la domanda senza risposta: “eseguire” cosa di preciso? Perché fin qui neppure il suo programma di “governo” è chiaro. Ammesso e non concesso ce ne sia uno preciso, oltre al ridimensionamento di segreteria e segretario di Stato.
Ad ogni modo, per tutto e per tutti, in ogni tempo e luogo valga quel detto per cui non si governa un impero col pelo sullo stomaco. Tantomeno solo “colli paternostri”.
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