Il vinto vittorioso: Mindszenty. Cardinale crocifisso 2 volte: dal comunismo e dall’ostpolitik
Il campione della Chiesa del Silenzio. La sua lotta contro l’Ostpolitik vaticana: perse, ma fu comunque vincitore. E due volte martire: di Mosca e del Vaticano (e se la prima fu la sua croce, il secondo fu il suo Golgota). Che in quegli anni sembrarono più complici che nemici.
Joszef Mindszenty
cardinale, martire, testimone intrepido della fede della Croce, imitatore di Cristo, santo. Perciò sgradito in ogni luogo, in esilio ovunque, imbarazzante per qualsiasi potente, pietra d’inciampo per tutti gli ipocriti
di Michele M. Ippolito
“Devictus Vincit”. Vinto ma vittorioso. Queste poche lettere erano scritte in calce ad una immagine del Cristo coronato di spine che il principe primate d’Ungheria Joszef Mindszenty portò con sé nella sua lunga prigionia nelle carceri comuniste e che usava, quando gli concedevano di celebrare la messa, come quadro d’altare. “Devictus Vincit”, vinto ma vittorioso, come un “alter Christus” anche il cardinale Mindszenty, uno dei tanti martiri del ventesimo secolo, che ha servito Dio e la Chiesa fino alla sua morte, avvenuta in esilio, lontano dalla sua amatissima Ungheria. Vinto dagli uomini, vittorioso comunque perché la sua “buona battaglia” alla fine era vinta: terminata la sua corsa, aveva conservato la fede, come San Paolo. Oggi il servo di Dio Mindszenty, eroe tragico dei suoi tempi, perseguitato da nazisti e comunisti, esiliato dalla sua Ungheria per volontà del Vaticano è una delle figure più venerate dagli ungheresi, in una terra in storicamente consacrata alla Madonna, in cui sei persone su dieci sono cattoliche.Vinto ma vittorioso
Mindszenty per anni è stato uno dei maggiori esponenti della Chiesa del silenzio, la Chiesa sotterranea a cui i regimi comunisti
C’era voluto il sacrificio di tanti uomini e donne per arrivare a quella dichiarazione di un Papa. Tra questi, anche Joszef Mindszenty, una figura la cui tragica storia è un esempio luminoso di fede, rettitudine ed amor patrio. Mario Cervi, nella sua rubrica sul Corriere della Sera del 21 novembre 2010, raccontava in maniera chiara che “Mindszenty ha avuto la sorte di essere coinvolto – come credente, come prete, come vescovo – in alcune tra le più drammatiche vicende del secolo scorso. Ha conosciuto e sofferto l’orrore hitleriano, ha conosciuto e sofferto l’orrore staliniano: sempre dimostrando, di fronte ai persecutori, il suo grande coraggio. Lo animava il temperamento di un crociato. Gli uomini di carattere sono il più delle volte anche uomini di cattivo carattere.”
Oppositore di socialisti, nazisti, comunisti
Il processo farsa del regime dei comunisti ungheresi contro il primate d’Ungheria. Emblematica l’espressione del cardinale.
Finita la Guerra, Mindzenty torna alla sua missione di vescovo e Pio XII decide di nominarlo, nel settembre 1945, arcivescovo
Il primo compito che Mindszenty si dà è quello di promuovere la ricostruzione dopo la devastazione della guerra. La situazione, però, precipita velocemente. Dal primo gennaio 1946 l’Ungheria diventava una repubblica, contro il parere della Chiesa cattolica. Nel giro di due anni i comunisti, con il supporto di Mosca e la totale indifferenza dei governi occidentali, che avevano già diviso il mondo in blocchi ed ora si disinteressavano dei Paesi dell’Europa centrale, fanno piazza pulita di tutti gli altri partiti costituzionali e, di fatto, governano l’Ungheria con pugno di ferro. Per avere campo libero il Partito Comunista Ungherese aveva creato scandali ad arte ed i suoi avversari erano stati arrestati, esiliati, esposti alla pubblica gogna. L’Urss faceva sentire in maniera forte le sue minacce e molti esponenti politici di primo piano, semplicemente, avevano preferito ritirarsi.Si oppone alla persecuzione anticattolica in Ungheria
I comunisti sferrano l’attacco ai cattolici proponendo una serie di misure che
Mindszenty non si piega ed impegna tutti i sacerdoti cattolici in una dura lotta contro le politiche comuniste. Il primate di Ungheria, infatti, sa perfettamente che un qualsiasi accordo con i comunisti porterebbe al totale annientamento della Chiesa nella nazione magiara, proprio come era già successo in Unione Sovietica. I dirigenti del partito lanciano allora una campagna pubblica durissima e velenosissima condotta sulla base dello slogan “Annientiamo il mindszentismo! Da questo dipendono il bene del popolo ungherese e la pace tra la Chiesa e lo Stato!”. Mindzenty, ben consapevole del fatto che l’Ungheria è storicamente una terra sotto la protezione della Santa Vergine, indice per il 1948 un anno mariano che mobilita milioni di ungheresi, i quali partecipano a centinaia di cerimonie liturgiche e processioni in tutto il Paese.
Mindszenty sa bene di essere ormai un bersaglio facile. Sul principale giornale cattolico del Paese, il Magyar Kurir, fa pubblicare, alla fine dell’anno, un articolo in cui si rivolge direttamente al popolo ungherese e che si conclude con queste parole: “Sto qui per Dio, per la Chiesa e per la patria, poiché questo è il dovere che mi ha imposto il servizio storico verso il mio popolo abbandonato nel vasto mondo. Di fronte alle sofferenze della mia gente il mi destino è cosa insignificante. Non getto la colpa sui miei accusatori. Quando qua e là sono costretto a far luce sulla situazione, sono soltanto le grida di dolore, le lacrime e la voce soffocata del mio popolo a parlare. Prego perché venga un mondo di verità e di amore; prego anche per coloro che, secondo le parole del mio Maestro, non sanno quello che si fanno, e perdono loro di tutto cuore.” Il giorno dopo il Natale del 1948 viene arrestato dai comunisti e portato nel famigerato stabile di via Andrassy 60 a Budapest, dove i comunisti avevano imparato dai nazisti della Gestapo a torturare i loro prigionieri. E lì ne torturarono a migliaia.
Mindszenty capisce subito a cosa andrà incontro e che per lui sarebbe stato imbastito un“Percuoterò il pastore, disperderò il gregge”
I giorni successivi sono un susseguirsi di umiliazioni, torture, interrogatori. “Mi tolsero la talare e, fra le risa sguaiate dei presenti, anche la biancheria intima. – raccontò il cardinale nelle sue memorie – Poi mi porsero un vestito di foggia orientale, variopinto e molto largo, che mi dava l’aspetto di un burattino”. Gli chiedono di confessare il suo crimine, lui rifiuta. Sprezzante, l’ufficiale che lo interroga gli dice: “Badi bene, qui gli accusati devono fare la confessione che desideriamo noi”. Calci, pugni, colpi sulle piante dei piedi con un manganello, poi sul corpo. Divieto di dormire. Discorsi osceni, urla, grida schiamazzi in sua presenza. Lo costringono a correre nudo sotto i colpi di una frusta. Lo drogano. Continuano a porgergli testi con false confessioni. Mindzenty non cede.
Nella sua prima prigione solo una volta gli consentono di reindossare la sua talare ed è per esporlo al ludibrio. Ciò avviene in occasione della visita del senatore del Partito Comunista Italiano Ottavio Pastore, a Budapest per incontrare Mindszenty e poter poi testimoniare al mondo che il cardinale è ancora vivo. Il 6 febbraio 1949, due giorni dopo la fine del processo contro Mindszenty, l’Unità, organo ufficiale del Pci, pubblica un articolo sprezzante a firma di Pastore, accompagnato da un articolo di fondo a firma di Giancarlo Pajetta, intitolato “Un vinto”, in cui Mindszenty viene pesantemente insultato e preso in giro.
Alla fine, non avendo trovato altro contro di lui, lo accusano di “traffico internazionale di valuta”. I comunisti si comportano
proprio come i federali statunitensi, che riuscirono ad accusare Al Capone solo di evasione fiscale. L’accusa è risibile: il cardinale avrebbe dato il suo benestare a non cambiare secondo il corso ufficiale i soldi per i poveri ungheresi inviati dai cattolici statunitensi per non far convertire cifre enormi in pochi spiccioli, vista la spaventosa inflazione ungherese. Ovviamente nessuno si era sognato di far notare che quei soldi erano necessari ad acquistare cibi, medicine, coperte per i poveri e che questi servizi li forniva solo la Chiesa cattolica, perché il governo ungherese aveva le casse vuote e l’Unione Sovietica non mandava alcun aiuto. Dopo 39 giorni, infine, Mindzenty firma la sua confessione. Non era più in grado di reggere le botte e viveva spesso in uno stato di confusione e depressione.“Evidentemente ero già diventato in maniera radicale un altro uomo” scrisse poi. Perché, ex post, si potesse capire che aveva firmato perché sotto costrizione, aggiunge alla sua firma “C.F.”. Spiega ai suoi carcerieri che quelle due lettere stavano per “cardinalis foraneus”. Invece il senso vero è “coactus feci”: ho firmato perché costretto.
Nel febbraio del 1949 si tiene, per quattro giorni, un processo farsa, in cui il primate di Ungheria viene accusato di essere a capo di una organizzazione che aveva in mente il rovesciamento dello Stato, di aver svolto spionaggio contro l’Ungheria, di aver maneggiato in maniera illegale la valuta estera. Dopo un finto dibattimento senza alcuna garanzia processuale per l’imputato, il cardinale è condannato all’ergastolo. “Lo scopo principale di tutto il giudizio – spiegò poi – è stato quello di sconvolgere la Chiesa cattolica in Ungheria, nella speranza di ottenere ciò a cui accenna la Sacra Scrittura: Percutiam pastorem et dispergentur oves gregis.” Percuoterò il pastore e disperderò il suo gregge.
Con il primate in carcere la persecuzione anticattolica viene accentuata. Nel 1950 vengono“Buon per me, che ero nell’afflizione”
Le armi del cardinale. “Spuntate”, a viste umane. Furono la sua compagnia nella tristezza e nella solitudine del suo Getzemani
Negli otto anni seguenti Mindszenty viene spostato in varie prigioni, con differenti livelli di sicurezza. Per lunghissimi periodi non gli è consentito di celebrare la messa e non gli vengono messi a disposizione testi sacri. Tra le vessazioni che subisce, il divieto di inginocchiarsi in cella o le continue interruzioni delle sue preghiere. Gli viene portata carne il venerdì, in modo da non farlo mangiare. Quando, finalmente gli è consentito di tenere in cella con sé l’Eucarestia, passa ore ed ore prostrato in adorazioni e le sue meditazioni sul sacrificio di Cristo durano dalle due ore e mezza alle tre e mezza. Gli danno solo un breviario. “Per molto tempo – raccontò - esso è stato la mia Bibbia, la mia dogmatica, la mia mistica, il mio direttore spirituale”. Anche nel male riuscì a trovare il bene. “In carcere – scrisse – ci avviciniamo di più anche alla grazia redentrice, nel senso della gratia liberans illustrata da Sant’Agostino: buon per me che ero nell’afflizione (SAL 118, 71)”.
Il capo del governo Imre Nagy, intanto, prova a lanciare qualche riforma economica per salvare il Paese dalla miseria, ma i tentativi non funzionano. Il 24 ottobre 1956 un Paese ormai allo stremo si ribella ai sovietici. I comunisti si recano in fretta e furia da Mindszenty, chiedendogli di seguirli “per salvarlo dalla plebaglia che avrebbe potuto assaltare la prigione”. Il primate rifiuta ed i comunisti, senza molto discutere, fuggono. Il 30 ottobre decine di persone entrano nella casa in cui è recluso il cardinale e restano sbigottiti nel vedere che il cardinale è ancora vivo e che sta abbastanza bene. Viene tenuto in fretta e furia un consiglio rivoluzionario che sentenzia che la detenzione del primate è illegale. Un gruppo di militari raggiunge Mindszenty e lo preleva dalla sua prigione, liberandolo.
Nel frattempo, la situazione dei cattolici ungheresi era precipitata. I comunisti avevano preteso di nominare tutte le cariche
Quindici anni di esilio nell’ambasciata USA a Budapest
Il nuovo regime rafforza il controllo sui cattolici attraverso un uso più largo dei “preti
pacifisti”, così chiamati perché avevano sposato la battaglia “per la pace mondiale” lanciata dal governo ufficiale ungherese. I fedeli, invece, li chiamano con disprezzo “vescovi e preti con la barba”. Il loro principale strumento di azione sul territorio è la Fondazione Opus Pacis, parte integrante del consiglio pacifista nazionale. Uno dei primi atti dei vescovi ungheresi dopo la restaurazione del governo comunista è quello di diffondere una nota in cui si afferma che loro “seguono con fiducia gli sforzi del governo rivolti a eliminare gli errori del passato e a riparare le ingiustizie e appoggiano il governo nel suo tentativo di migliorare il benessere del popolo ungherese e di promuovere la pace mondiale.”
La Santa Sede reagisce duramente, minacciando la scomunica per vescovi e sacerdoti che avessero scelto di esercitare il mandato parlamentare in Ungheria e mette all’indice il giornale ungherese dei “preti pacifisti” chiamato “La parola cattolica”, come precedentemente aveva messo all’indice il giornale “La croce”. Il presidente della conferenza episcopale, Jozsef Grosz, che era stato torturato dai comunisti, spera di difendere la popolazione cattolica, già profondamente vessata, ma con il suo atteggiamento di acquiescenza non fa altro che rafforzare il disegno comunista di rendere l’Ungheria uno Stato ateista.
Dopo la persecuzione comunista quella vaticana: la Ostpolitik di Casaroli
Il dottor sottile (e cinico) della ostpolitik: il futuro segretario di stato Casaroli. Ma eseguì la volontà di Paolo. Una cappa di silenzio forzoso cadde sui testimoni della fede. Ai giornali cattolici fu proibito citare il comunismo e le sue dittature e i crimini contro i cattolici. Se non è complicità questa…
Le trattative riguardano anche la possibilità che Mindszenty possa lasciare da uomo libero l’ambasciata statunitense di
La sacra indignazione del Primate per la sorte del suo gregge… condannato all’immolazione silenziosa
Giulio Andreotti, in un articolo pubblicato nel 2007 su Trenta Giorni, chiariva che “esigenze politiche e diplomatiche spinsero alla ricerca di una soluzione possibile di questo e di altri casi. I contatti con l’Est, tessuti per conto della Segreteria di Stato da monsignor Agostino Casaroli, compresero anche sondaggi con il governo di Budapest alla ricerca di una soluzione del “caso” che anche agli americani creava delicati problemi. Si lavorò inizialmente all’ipotesi di un trasferimento all’estero del cardinale, a lungo respinta dall’interessato. Solo dopo “fraterne insistenze” di Paolo VI, piegò il capo ritenendo di dover «ubbidire con umiltà, rinunciando al desiderio di finire la vita su suolo ungherese».”
Il primate ungherese giunge in aereo a Roma il 28 settembre 1971 ed entra in Vaticano per incontrare Paolo VI accompagnato da un solenne corteo. “Mi abbracciò, si tolse la croce pettorale, me la mise al collo, mi porse il braccio e mi introdusse nel palazzo”ricordò poi il primate. Mindszenty prende parte un sinodo dei vescovi e qualche giorno dopo gli viene concesso di concelebrare messa alla destra di Paolo VI. Il Papa gli invia doni e lo invita a mangiare con lui più volte. Mindszenty rimane molto colpito da quanto avviene un giorno nella basilica di San Paolo: “Mi si avvicinò un sacerdote, mi prese la mano, la baciò, mi ringraziò per le sofferenze che avevo sopportato per la Chiesa e alla fine mi disse “Sono il cardinale Siri”.Esilio a Roma. La carezza e il bavaglio di Paolo VI
Non mancarono, però, le amarezze, dovute al comportamento dell’apparato
Il giorno prima Paolo gli disse “Lei sarà sempre il Primate d’Ungheria”. Il giorno dopo lo dimise da Primate
“La storia è maestra di vita. È quindi giusto contribuire a far conoscere alle nuove generazioni una pagina dolorosa nella vita dei popoli dell’Europa Orientale, privati dalla loro libertà religiosa e condannati a vivere oltre una cortina che impediva loro ogni contatto con gli altri fratelli del mondo intero”. Queste le parole utilizzate all’inizio del dicembre 2013 dal cardinale Angelo Sodano, decano del collegio cardinalizio, in occasione di un convegno sul tema “La Chiesa nell’Europa dell’Est durante il comunismo: tra i martiri e la resistenza silenziosa”. Sodano si è augurato che “emerga la storia di quei martiri che non sono solo sacerdoti o monaci ma un popolo cristiano che ha sofferto e si continui ad approfondire tale pagine della storia recente, senza timore di dire la verità perché la verità non offende”. Se veramente si cercherà la verità, allora dovrà emergere in maniera forte che la Chiesa cattolica, in tanti casi, come in quello del cardinale Mindszenty, abbandonò o addirittura osteggiò, attraverso l’Ostpolitik vaticana, i suoi campioni della fede. Se ciò è avvenuto in buona fede oppure no, dovrà essere la storia a dirlo.Riuscirà mai la Chiesa ad ammettere errori e orrori dell’Ostpolitik?
“Così, tra quanti esaltano la fierezza indomita di Jozsef Mindszenty e coloro che ne criticano sia l’ostinazione, sia, viceversa,
l’acquiescenza al compromesso dell’esilio, credo debba rivolgersi l’invito a non indugiare nelle polemiche. Preghiamo non per il cardinale Mindszenty, ma il cardinale simbolo della Chiesa perseguitata.” Oggi più che mai è indispensabile seguire l’invito di Giulio Andreotti ed onorare un cardinale vinto, ma alla fine vittorioso.
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