ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 16 aprile 2014

La Settimana Santa violata

La Settimana Santa violata dalla Riforma Liturgica Pacelliana oggi presente nel Messale del 1962!

Si avvicina il Triduo Santo e con voi vorrei ancora tenere desta l'attenzione sui cambiamenti operati da Pio XII nel "cuore" del Messale Romano: la Settimana Santa! La santità indiscussa di Pio XII in un certo senso ha permesso di ingoiare una delle riforme liturgiche più audaci, ma forse più incompressibili della Storia della Liturgia romana. Non a caso Paolo VI quando propose il suo Messale fece leva proprio su questa riforma liturgica! Don Stefano Carusi ha avviato recentemente la discussione ora Francesco Tolloi consigliere nazionale di UnaVoce, ripropone una critica serrata della "nuova Settimana Santa" del grande liturgista monsignor Léon Gromier. Critica esposta nella Conferenza tenuta a Parigi nel luglio 1960 e pubblicata col titolo Semaine Sainte Restaurée in «Opus Dei», 1962, 2, pp. 76-90.
Colgo l'occasione per porgere a tutti i miei lettori una Santa Pasqua del Signore!


Introduzione.
Nel luglio del 1960, a Parigi, monsignor Léon Gromier – canonico della basilica vaticana e consultore della Sacra Congregazione dei Riti – teneva una conferenza laddove esponeva con nitore le sue perplessità circa la settimana santa “restaurata”  a un lustro dalla sua entrata in vigore1. Già pochi anni prima Gromier si era fatto conoscere per il suo modo schietto e preciso, per la sua ricerca di principi causa-effetto nelle cerimonie del rito romano, con la pubblicazione della sua opera più corposa dedicata al commento del Caeremoniale episcoporum2. Probabilmente è proprio nell’introduzione di quest’opera che sono da ricercarsi alcuni tratti caratteristici  che riteniamo utili per meglio inquadrare e comprendere la serrata critica dell’Autore alla settimana santa pacelliana:
- L’esistenza di una intensa pressione esercitata da una scuola di pensiero che, sotto il pretesto della comprensione e partecipazione, consente e promuove riforme che trascendono i princìpi;
- La consapevolezza che il rito romano è frutto di un lento processo di stratificazione che ha portato anche la necessaria selezione di quanto “tradito”;
-La ferma sicurezza che vi siano principi logici intrinseci sottesi alle cerimonie del rito romano che vanno a costituire un complicato ingranaggio il quale consente al meccanismo di funzionare, un meccanismo che Gromier cerca sempre di mettere nella dovuta evidenza;
- Le riforme sono spesso tappe di una riforma più incisiva e pegno per riforme ulteriori.

Che la settimana santa del 1955 muova da criteri squisitamente pastorali è dichiarato nel lo stesso decreto generale Maxima Redemptionis del 19553 che promulga il nuovo Ordo, e – ancora con maggiore enfasi e conseguente nitore – nell’istruzione per la sua attuazione pratica4. Eminenti commentatori, come il cardinale Giacomo Lercaro confermano detta impostazione, affermando – senza mezzi termini – che “La preoccupazione pastorale determinò dunque la riforma e ne fu il criterio fondamentale […]”5 ciò in modo da rendere i riti, in cui si commemorano e si celebrano le più importanti verità della fede, più fruibili (orario) e partecipabili (semplicità). Purtroppo un atteggiamento autoreferenziale comportò, senza dubbio, una certa indifferente trascuratezza verso i principi e la coerenza, attentando (come vedremo) anche a usi antichissimi e venerabili, formulando in modo malfermo, impreciso e talvolta contraddittorio le rubriche, spesso riformando per il mero gusto di riformare e porre premesse per riforme a venire. Questa è la “pastorale” che Gromier stigmatizza, una pastorale che inverte il principio per la quale essa deriva e si impernia sui principi della liturgia e non pretende piuttosto di formarli6. Vedremo come, il prelato francese, non manchi di chiamare in causa gli autori di queste riforme – che chiama i “pastoraux”7– evidenziando le loro lacune e mostrando come spesso si sono posti in imbarazzanti situazioni di autocontraddizione. Tale situazione si inquadra una precisa fase del “movimento liturgico” che -  formalizzata la sua costituzione nel 1909 al congresso di Malines – passa dall’anelito a favorire la “pietà liturgica” imperniando la devozione alla liturgia, al voler prendere le redini e porsi alla testa di un moto riformistico8.
   La settimana santa nella sua forma “tradizionale” è senza dubbio uno scrigno che serba i tratti più arcaici – e se vogliamo caratteristici – del rito romano, che mostra, a chi si sofferma con sguardo attento, rispettoso e scevro di pregiudizio, testimonianze di un’antichità particolarmente remota e il lento stratificarsi dei secoli. Questo è il portato della Tradizione; i pastorali, secondo Gromier, non hanno prestato il dovuto ossequio a questa realtà finendo per ritenerla sacrificabile. La tradizione aveva portato inevitabilmente allo stratificarsi e contestualmente a una selezione e conseguente decadimento di determinati usi; nella riforma si denota, invece, uno zelo connotato da filologismo archeologicizzante votato al recupero di elementi il più possibile arcaici il tutto teso a una elaborazione astratta che supporti l’indirizzo pastoralistico della liturgia.
   I riti nella loro vulgata che qui abbiamo già chiamato “tradizionale” hanno dei procedimenti logici interni. Questa logica costituisce un paradigma che è sotteso al  funzionamento globale e ne costituisce la garanzia. A un’azione corrisponde un’altra: ad esempio se il giovedì santo – una volta terminata la messa – si reca con una solenne processione il Santissimo Sacramento all’altare della reposizione, una criteriata logica così strutturata vorrebbe che il venerdì fosse riportato con altrettanta solennità all’altare maggiore e non con un breve tragitto, percorso quasi alla chetichella dal diacono come vedremo.
   Parecchi dettagli della settimana santa restaurata cozzano con l’impianto rubricale del messale in vigore all’epoca della sua promulgazione9. Questi dettagli confliggenti spesso sono appunto premessa di riforme successive. Sempre a titolo di esempio non potremo fare a meno di notare – a questo proposito – la proibizione, rivolta al celebrante, di leggere le parti proclamate dai ministri; esso confligge con la prassi normata per il resto dell’anno liturgico dal messale: la conflittualità viene risolta solo dalle rubriche delMissale Romanum nella sua edizione (VII typica) promulgata dal beato Giovanni XXIII10). Proprio per fare maggiore chiarezza abbiamo ritenuto di segnalare tali differenze in nota.
  Gromier, seguendo un principio enunciato sempre nel suo Commentaire, non correda di proposito i suoi scritti con note: con una disinvoltura figlia di una robusta e rigorosa formazione alla “scienza liturgica” egli si destreggia tra norme e usi romani, autori, costumi della cappella papale restituendo, ai suoi lettori, riflessioni a tutto tondo e decisamente fuori dal comune; chi vorrà confutarlo dovrà adoperarsi da par suo a raccogliere argomentazione scientifica di segno contrario11. Lungi dal voler confutare questo erudito, brillante e facondo prelato, abbiamo cercato di corredare il suo commento di note e riferimenti bibliografici: un tanto – oltre la comodità per il lettore di avere i riferimenti agevolmente sott’occhio -  al precipuo scopo di stimolare ulteriori approfondite  ricerche di cui mai si dirà abbastanza circa l’utilità.
   Quasi cinquant’anni sono trascorsi dall’introduzione della settimana santa “restaurata”: grazie a Gromier sarà più facile capire la reale portata di queste riforme i cui esiti successivi sono sotto gli occhi di tutti, lo spirito sotteso ci viene svelato e con esso una chiave di lettura saggia ed aderente alla realtà ci viene fornita: indubbiamente – avendo sotto gli occhi lo stato finale della riforma – non si potrà fare a meno di provare ammirazione per lo sguardo lungimirante, lucido e profondamente realistico di questo prelato che verga i suoi scritti in un periodo storico in cui già si intravedono le ombre proiettate dal tramonto di un’epoca. Forse grazie a scritti come questo si potrà scongiurare quella semplicistica ed estremamente fuorviante tentazione per cui si ravvisa uno status quo liturgico successivo il Concilio Ecumenico Vaticano II opposto a una situazione precedente sovente idealizzata: la riforma veniva da lontano come Gromier aveva ben compreso; la struttura portante di un complesso edificio era stata compromessa ed esso iniziava a vacillare. Non è questa sicuramente la sede per trattare esaustivamente la riforma della settimana santa degli anni Cinquanta dello scorso secolo e questo non è nelle nostre intenzioni; ci limitiamo, piuttosto, a individuare cronologicamente e schematizzare tre momenti “istituzionali“  che stimiamo essenziali, collocati prossimamente alla riforma della settimana santa, mentre collochiamo questa in una fase della storia liturgica di riforma che ha avuto inizio nel 1948 e si è compiuta nel 1975. In questo non ci discostiamo dal pensiero di monsignor Annibale Bugnini che sicuramente giocò un ruolo di primo piano nella pianificazione e attuazione delle riforme12e che proprio quelle della settimana santa ebbe a presentare,  sotto il profilo storico assieme a p. Carlo Braga13.
- 1948. È l’anno dell’insediamento della commissione per la riforma liturgica affiancata alla storica Sacra Congregazione dei Riti.
- 1951. Introduzione facultative et ad experimentum del nuovo Ordo del sabato santo14. Si fa strada il principio della veritas horarum; la veglia pasquale viene ridotta e rimaneggiata introducendo elementi che saranno poi estesi al resto della settimana santa e quindi all’intero anno liturgico.
- 1953. Promulgazione della Costituzione Apostolica Christus Dominus15. Essa sancisce l’introduzione delle messe vespertine, con conseguente modifica della legge sul digiuno eucaristico dalla mezzanotte. È la modificazione di un costume millenario che accomunava oriente ed occidente.
   Durante il pontificato di papa Benedetto XVI, per volontà diretta ed esplicita del pontefice (in linea con il suo predecessore), si è inteso ridare cittadinanza all’antica liturgia; certo il motu proprio parla dell’edizione del 1962 del Missale romanum e degli altri libri liturgici (es. il breviario) allora in vigore. È evidente trattarsi di una norma all’insegna del miglior favore e liberalità; è sostenibile vi sia nella mensdel legislatore l’intento di consentire libertà ed agio alla liturgia tradizionale. Sarebbe auspicabile un fecondo dibattito mondato da logiche pregiudiziali e fortemente limitate alla liceità o meno delle celebrazioni tradizionali o peggio ancora gravate da ragioni estrinseche quali l’ “opportunità politico-diplomatica” delle stesse.
   Se è vero che l’interesse per quella che spesso si denomina “liturgia tridentina” ha avuto in questi anni un certo incremento, è proprio alla luce di questo che la riflessione deve  assumere contorni seri e ci si deve interrogare su quale sia il “rito tradizionale”; il problema non sono tanto le riforme ma la logica sottesa alle riforme  e sicuramente quelle promosse dalla Commissione insediata nel 1948 non rispondono a logiche “tradizionali”, laddove qui con l’aggettivo “tradizionali” intendiamo fedeli al portato dei secoli e sviluppatosi attraverso uno sviluppo organico e coerente e non piegato, indirizzato e persino plasmato da istanze estrinseche (pastoralismo)16. Gromier ampiamente ci dimostra che la settimana santa restaurata è figlia di una nuova concezione della liturgia, una concezione appunto pastorale: anche e soprattutto per questo non è “tradizionale”. Davvero difficile poter dimostrare il contrario. La settimana santa restaurata va quindi letta per quello che vuole essere, ossia una tappa verso una riforma generale, una riforma nella quale essa si presenta come sperimentale proprio perché superata da riforme successive nelle quali non si può mancare di vedere passi indietro, riforme che ne evidenziano determinati aspetti allora appena annunciati. È indiscutibile che essa fu il laboratorio laddove si determinarono i criteri della riforma generale, o – se vogliamo – una vera e propria palestra laddove ci si esercitava in vista di uno sforzo più grande e totalizzante.
   Un sano dibattito dovrebbe essere naturale latore di approfondimenti: questo non potrebbe che essere positivo per tutti coloro i quali, chierici e laici, si sentono legati all’antica liturgia romana. Questo amore, che si traduce in un così forte legame che è riuscito persino a muovere provvedimenti di favore da parte della sede apostolica, non deve e non può limitarsi a una semplice concezione estetica caricata dalla emozionalità derivante dall’opzione linguistica o da suggestione che muove da una certa foggia di paramenti e scelte musicali: ciò comporterebbe la fissazione di un canone estetico da contrapporre alla modernità, sarebbe davvero poco. Questo amore deve tradursi in piena consapevolezza che non può che raggiungersi se non attraverso un cammino di ricerca e progressiva conoscenza, un cammino che certamente muove su sentieri irti, ripidi e tortuosi, un cammino difficile, quindi, e non privo di ostacoli ma nel quale il lungimirante Gromier può aiutarci come guida esperta e sicura tenendoci robustamente per mano e suggerendoci gli stimoli migliori.

Francesco G. Tolloi

(cliccare l'immagine per il collegamento)
http://www.collegiumdivimarci.org/mons-leon-gromier-la-settimana-santa-restaurata-traduzione-italiana-introduzione-note-di-francesco-tolloi

Traduzione italiana, introduzione e note di Francesco G. Tolloi in Collegium Divi Marci.


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