ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 16 aprile 2014

La nozione errata di “mistero pasquale”

Sacrificio di Cristo
Avvicinandosi la Santa Pasqua, ritengo appropriato affrontare una questione teologica e liturgica di notevole importanza, per quanto sia necessariamente piuttosto complessa. Mi riferisco alla nozione di “mistero pasquale”, tanto in voga quanto poco appropriata. Con la mente rivolta al sacrificio sommo di Nostro Signore Gesù Cristo, leggiamo l’analisi puntuale e chiara che ne fa Paolo Pasqualucci in un suo recente volume, toccando questioni critiche come il significato stesso della Messa e la differenza tra la Consacrazione nel vetus ordo e quella nel novus:
Questa nuova teologia [: della riforma liturgica] ha portato al «progressivo oscuramento della Croce» ([Gnocchi&Palmaro, La Bella Addormentata,] p. 202). Essa esalta “l’amore di Dio, l’iniziativa di Dio e la nuova vita della Resurrezione” facendo passare in secondo piano «la necessità di soddisfare la giustizia divina, la Passione di Gesù e la cooperazione dell’uomo [alla Grazia, per ottenere la salvezza, che si deve volere]» (ivi). Gli autori citano un teologo che partecipò al Consilium per la riforma liturgica, P. Aimon-Marie Roguet, il quale, in un saggio del 1961 sul concetto di “mistero pasquale” negava che la Redenzione così intesa sarebbe stata contraria alla bontà di Dio. Non è concepibile che il Padre «trasferisca la sua collera sul suo Figlio diletto» (pp. 202-203). E allora? Allora bisogna vedere nella Messa il “mistero pasquale” che si conclude con la Resurrezione di Nostro Signore, in modo che «la nostra salvezza appaia operata da un atto vitale e gratuito, una libera iniziativa di Dio, uscita totalmente dal suo amore misericordioso» (p. 203).
Elucubrazioni siffatte, osservo, implicano che la Chiesa si sia sbagliata per quasi duemila anni nell’intendere il significato della Redenzione, il che è assurdo. È comunque evidente che ai teorici del “mistero pasquale”, termine completamente nuovo, inventato dal citato P. Roguet, la Giustizia divina sembra del tutto incompatibile con la Misericordia divina: bisogna allora eliminarla, questa Giustizia che, come rivelato più volte nei Vangeli, e confermato dalla predicazione degli Apostoli, condanna i peccatori impenitenti all’Inferno, dal quale mai più usciranno («Via da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli» Mt 25, 41). Occorreva allora elaborare un nuovo rito della Messa, che mutasse significato alla Passione e alla Croce, staccandole dalla loro intrinseca connessione con l’esigenza della Giustizia divina, esigenza che è a fondamento anche del significato propiziatorio della Messa, in quanto appunto sacrificio della vittima innocente richiesto dalla divina Giustizia per placare la sua ira e concedere misericordia per i nostri peccati[n. 19: L’illustre teologo e liturgista francese P. Louis Bouyer, morto nel 2004 a 91 anni, in un saggio del 1945 aveva già dimostrato che il termine “mistero pasquale, che tutti credono oggi espressione corrente nella Patristica e durante il Medio Evo”, è stato appunto inventato dal suddetto P. Roguet, “dato che il latino cristiano conosceva Paschale Sacramentum ma non Paschale Mysterium, termine che non ha mai avuto equivalente in greco” (dall’articolo commemorativo su Louis Bouyer scritto da GEORGES DAIX, Louis Bouyer, “Catholica”, Hiver 2004-5, n. 86, pp. 74-77; p. 76). Il Padre Bouyer aveva pubblicamente definito “miserabili carnevalate” i riti della “nuova liturgia”, attirandosi l’odio dell’intero episcopato francese (ivi).].
[…] E questo cambiamento di prospettiva, che porta in sostanza a escludere la Passione dalla Redenzione, è stato esiziale per la Messa. La Messa del Novus Ordo viene chiamata con il nuovo termine di “mistero pasquale” proprio per mettere l’accento sulla Resurrezione e l’Ascensione: «la Resurrezione non appare più come un epilogo, ma come un termine e il fine del quale si riassume il mistero della salvezza» (p. 205). Non appare più come la conseguenza della Passione, che ne costituisce la conditio sine qua non. Come spiegò Gesù stesso, rivelando il senso delle profezie, solo dopo aver sofferto acerbamente a Gerusalemme «da parte degli Anziani, degli Scribi e dei sommi sacerdoti, ed esser ucciso», il Cristo sarebbe risorto dai morti (Mt 16, 21), ottenendo in tal modo il premio eterno per la sua obbedienza alla volontà del Padre, che voleva il Sacrificio della vittima innocente (Lettera agli Ebrei 2, 5-18; 5, 7-10). La Resurrezione non è più subordinata alla Passione e alla Croce, da Cristo liberamente accettate, concludono i nostri Autori, che richiamano concisamente la dottrina ortodossa, come esposta da Pio XII nell’enciclica Haurietis Aquas(pp. 205-206).
Ciò significa che la Messa ha mutato di significato; ora essa è vissuta soprattutto comememoriale della Resurrezione di Nostro Signore, nel quale il popolo di Dio riunito in assemblea celebra gioiosamente e collettivamente il “mistero pasquale” assieme al “presbitero” che la “presiede” e la “anima”. In senso secondario, la Messa è certamente anche “memoriale”, ma comunque sempre della Passione, non della Resurrezione. È un dato di fatto, annoto, riconosciuto ormai dalla stessa autorità competente: la maggior parte dei fedeli non crede più nel significato di sacrificio propiziatorio ed espiatorio della S. Messa. E di questa mutazione radicale, dobbiamo ritenere innocente il Concilio? In senso diretto, sembrerebbe di sì. Ma la Messa del Novus Ordo, che sarebbe l’attuazione finale della riforma liturgica messa in cantiere dal Concilio, mutando la formula della Consacrazione del vino con il togliere da essa l’espressione “mistero della fede”, per applicarla subito dopo a un contesto di tipo escatologico, non ha contribuito per la sua parte alla mutazione? Nel Canone della Messa di rito romano antico, che, secondo una tradizione costante, risale ai tempi apostolici, il sacerdote dice sottovoce, in modo da non essere udito: «Hic est enim Calix Sanguinis mei, novi et aeterni Testamenti: Mysterium fidei: Qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum». Traduzione: «Poiché questo è il Calice del Sangue mio, della nuova ed eterna Alleanza – mistero della fede – il quale sarà sparso per voi e per molti in remissione dei peccati». Subito dopo, deposto il calice sul corporale, dice sempre in segreto, in latino: «Ogniqualvolta farete questo, lo farete in memoria di me». Poi adora il calice genuflettendosi, si alza e lo mostra al popolo, lo depone, lo ricopre e si genuflette di nuovo. Il ministro suona tre volte il campanello. Dopo di che, l’officiante, sempre in segreto, recita sempre in latino l’anamnesi o ricordo della morte del Cristo. In questa preghiera vengono menzionate anche la Resurrezione e l’Ascensione, ma in posizione secondaria:
Laonde, o Signore, anche noi tuoi servi, come altresì il tuo popolo santo, ricordando la beata passione [la morte] del medesimo Cristo tuo Figliolo, nostro Signore, come anche [nec non] la sua resurrezione dagl’Inferi, ed anche [sed et] la sua gloriosa ascensione in cielo, offriamo all’eccelsa tua maestà, etc.
(Paolo Pasqualucci, Cattolici, in alto i cuori!, pp. 66-71)

 – parte II

priest
Nella Messa del Novus Ordo, invece, la formula della Consacrazione del vino, letta dall’officiante ad alta voce in lingua volgare, recita: «Prendete e bevetene tutti: questo è il Calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per molti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me». E subito dopo il sacerdote dice ad alta voce: “Mistero della fede”. E il popolo risponde: «Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta». Si vede chiaramente che nell’Ordo Antiquus il “mistero della fede” che veniva rinnovato era unicamente quello del Sangue di Cristo sparso “per voi e per molti” per la remissione dei peccati; era il sacrificio della Croce che ci procurava misericordia (propitiatio) per i nostri peccati e che veniva rinnovato in modo incruento per noi nel mistero della Transustanziazione, prodotta dalla Consacrazione del sacerdote officiante.
Nel Novus Ordo, invece, il “mistero della fede”, che viene proclamato dopo aver annunciato la Morte del Signore per la remissione dei nostri peccati, appare collegato soprattutto alla sua Resurrezione e alla sua venuta, non meglio specificata. Dovrebbe essere la Parusìa, il ritorno di Cristo nella Gloria alla fine dei tempi, l’Avvento che concluderà la vicenda di questo mondo con il Giudizio universale. Dico “dovrebbe” perché dal Vaticano II in poi l’idea del Giudizio Universale, con la susseguente divisione eterna dell’umanità in eletti e reprobi, sembra praticamente scomparsa dalla pastorale della Chiesa, unitamente a quella del giudizio individuale che attende l’anima singola subito dopo la morte (i due giudizi sono ricordati con chiarezza nell’art. 48.4 della Lumen Gentium, anche se si tratta di un’affermazione che resta isolata, mentre nell’art. 3 della Dichiarazione Nostra Aetate si considera la fede dei mussulmani nel loro giudizio finale addirittura come identica alla nostra, quando la loro escatologia contempla il ritorno di Gesù, “profeta dell’islam”, per giudicare, dal minareto della grande moschea di Damasco, tutti i cristiani, colpevoli di averlo adorato come Figlio di Dio, mandandoli tutti all’Inferno!). La modificazione della formula della Consacrazione del vino, pur mantenendo essa la dizione corretta (nell’Institutio in latino del Novus Ordo) del Sangue “versato per voi e per molti in remissione dei peccati”, non introduce tuttavia nella Consacrazione stessa e quindi nella Messa la novità inaudita di un ottimismo escatologico, che fatalmente ha finito con il prevalere sul significato propiziatorio della Messa? Tra l’altro, l’aver aggiunto «Fate questo in memoria di me» nella formula della consacrazione del vino, mentre prima era detto in segreto dall’officiante dopo la formula stessa, introduce direttamente nella Consacrazione il motivo della Messa come “memoriale”, cosa che pure è, come si è detto, ma subordinatamente alla sua natura di Sacrificio propiziatorio, rinnovato in modo incruento dal sacerdote che agisce in persona Christi. E che l’ottimismo escatologico sia sin dall’inizio prevalso non lo dimostra anche l’arbitrario mutamento del “molti” in “tutti”, attuatosi in quasi tutte le traduzioni in volgare, con la tolleranza attiva della Santa Sede, sino al giusto ripristino del “per molti” ordinato dal Pontefice Joseph Ratzinger, S. S. Benedetto XVI, non si sa però con quanta prontezza eseguito dai sempre “creativi” artefici della presente liturgia in vernacolo.
Anche la formula della consacrazione del pane è stata variata. Il Novus Ordo, infatti, recita: «Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi». Il rito romano antico invece: «Hoc est enim Corpus meum», «Poiché questo è il mio corpo». Il mutamento non sembra a prima vista significativo. È comunque parallelo al “Prendete e bevetene tutti” aggiunto alla consacrazione del Calice.
Bisogna chiedersi, di fronte a queste variazioni del nostro bimillenario rito se la Messa del Novus rispecchi in toto la dottrina cattolica? La domanda può sembrare scandalosa eppure mi sembra del tutto legittima perché, come sottolineano gli Autori, la conseguenza di questa nuova teologia della Messa è stata appunto «l’oscuramento dell’aspetto sacrificale nel messale promulgato da papa Paolo VI»; aspetto «vieppiù smarrito nel corso del tempo a causa della creatività dei celebranti» (p. 207).
Così, mentre nella Messa preconciliare centrata sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario, l’uomo è chiamato a partecipare alla Passione di Cristo per meritare, anche se indegno, di essere glorificato con Lui, in quella postconciliare diviene commensale di Dio al Banchetto in cui celebra la propria gloria fondata sulla libertà [ma questa non è la concezione protestante, della Messa come “cena”, “banchetto” gioioso nel quale il cristiano celebra la propria “libertà”?]. Nel primo caso il cristiano è chiamato a compatire con Cristo, nel secondo è invitato a collaborare con Dio. Se prima adorava, chiedeva perdono e offriva il proprio nulla davanti al Figlio di Dio sacrificato, ora si limita a rendere grazie della libertà che lo rende somigliante a Dio (p. 208).
Si tratta di un rito, quello nuovo, che (annoto) sembra fatto apposta per alimentare l’antropocentrismo ovvero la superbia dell’uomo. È questa superbia a produrre l’«indifferenza alla Croce, all’eucaristia e alla presenza reale di Cristo sotto la specie del pane e del vino», giustamente lamentata da Gnocchi e Palmaro, testimoniata da numerosi episodi. […]
Ma tutta questa deriva liturgica non chiama in causa anche il Concilio? Secondo gli Autori, che si richiamano espressamente a monsignor Gherardini, è impossibile considerare innocente la riforma liturgica promossa dal Concilio con la costituzione Sacrosanctum Concilium. Essa ha sì riaffermato concetti tradizionali, tuttavia «i neomodernisti disseminarono il testo di passaggi che permettevano di leggerlo e applicarlo in chiave eversiva» (p. 213). E ricordano (pp. 212-219) come essa, pur riaffermando la centralità dell’uso liturgico del latino, abbia nello stesso tempo ammesso la possibilità di numerose eccezioni a favore della lingua volgare (Sacrosanctum Concilium 36 §2); e come il principio stesso dell’innovazione liturgica vi sia in realtà ammesso in modo abbastanza facile, all’art. 21.
Da parte mia, ricordo di nuovo che proprio a Sacrosanctum Concilium 22 § 2 e 40 si deve l’introduzione dell’infausto principio della “creatività” in liturgia, sotto forma iniziale di “esperimenti” da approvarsi con la dovuta cautela, si capisce, e sotto il controllo formale della Santa Sede (controllo ridottosi spesso nei fatti alla semplice presa d’atto). Ma laSacrosanctum Concilium, a ragione (e non bisognerebbe dimenticarlo) decisamente avversata in Concilio dal cardinale Ottaviani e da tutti i migliori esperti della Curia, ha insistito a più riprese sulla necessità di “semplificare” i riti (artt. 35, 50.2, 117-2) e di renderli “più facili”, “più comprensibili”, “più chiari” all’uomo del nostro tempo (artt. 21.2, 34, 59.2, 72, 77.1, 79.1, 90.2, 92), necessità giustamente mai ammessa in passato dal Magistero, custode dell’immutabilità del rito, inevitabile riflesso dell’immutabilità del dogma. Inoltre, pur auspicando il mantenimento del latino, essa ha aperto numerosi varchi all’uso del volgare, in applicazione del principio della sperimentazione (artt. 63, 65, 76, 77 e 78, 101, 113). E che dire della seguente delucidazione del significato della Domenica, giorno nel quale si celebra il “mistero pasquale”?
In questo giorno, infatti, i fedeli devono riunirsi in assemblea per ascoltare la parola di Dio e partecipare alla eucaristia e così far memoria della passione, della risurrezione e della gloria del Signore Gesù e render grazie a Dio, che li “ha rigenerati nella speranza viva per mezzo della risurrezione di Gesù Cristo dai morti” (1Pt 1, 3) (ivi, 106).
L’Eucaristia, ossia la S. Messa, in quanto “mistero pasquale”, qui è semplicemente un “far memoria della passione, della risurrezione e della gloria del Signore”! E il termine “transustanziazione” si trova nella Sacrosanctum Concilium o in qualsiasi altro testo del Concilio? La sua assenza dalla definizione giansenista della Messa provocò la condanna solenne di quest’ultima da parte di Pio VI nel 1794, in quanto definizione «perniciosa, infedele all’esposizione della verità cattolica sul dogma della transustanziazione, favorevole agli eretici», nella Costituzione Apostolica Auctorem fidei, che condannava in modo solenne gli errori dei giansenisti[n. 20: DS 1529/2629.].
(Paolo Pasqualucci, Cattolici, in alto i cuori!, pp. 71-77)

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