Giuda l’Ipocrita: il primo pauperista del cristianesimo.
Che non a caso era (pure) un ladro
“Così parlò Giuda. Non perché avesse a cuore i poveri o perché fosse buono. Ma perché era un ladro…”
Giuda non è solo il primo pauperista della storia cristiana: ne è anche il primo ladro, il primo corrotto, il primo traditore, il primo contestatore. Ma soprattutto, il suo vero peccato, il più inviso a Gesù in ogni pagina del Vangelo, più di ogni ladrocinio, è l’ipocrisia. L’Iscariota non fa la fine che fa perché è un disonesto: il suo è il finale tragico dell’ipocrita. Che, al contrario del ladro, è irredimibile. E starà sempre in piedi nel tempio, da fariseo, a biasimare i pubblicani in ginocchio… Meglio ladri che ipocriti, allora.
A proposito di IOR e moralisti un tanto al kg
di Massimiliano Fiorin
Non è che vogliono davvero una Chiesa povera: ne vogliono una disincarnata
E’ sempre la stessa storia. E’ sempre l’Iscariota che ripete il suo perverso ragionamento. “Perché non si è venduto quell’unguento per trecento denari, per poi darli ai poveri?” (Gv, 12, 5). A leggere i resoconti dei media sui tentativi di riforma della finanza vaticana, faticosamente messi in cantiere da Papa Francesco con ogni santa intenzione, sembra ancor oggi di sentire riecheggiare le parole del traditore. Per non parlare dei commenti del popolo della rete, sempre pronto a indignarsi per tutto ciò che si discosta dall’ideale – inconsapevolmente eretico – di una chiesa tanto povera e essenziale da risultare disincarnata.
Il Papa non c’entra nulla, ovviamente. Si spera anzi che dopo le prime un po’ incaute nomine, le cose inizieranno a ingranare per il meglio. Ma la sensazione di disagio per gli assalti mediatici di chi vuole “riformare” a ogni costo, sta disorientando anche una parte non indifferente del popolo di Dio. Dunque, è più che mai il momento di tornare ai principi. Di ricordarci chi siamo e da dove veniamo.
L’adolescente Giovanni, nel riferire dello scandalo provato da Giuda per l’unzione di Betania, ha aggiunto un’osservazione che negli altri Vangeli mancava. Si può dire che abbia tentato di tracciare un profilo psicologico del traditore: “disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era ladro, e siccome teneva la cassa prendeva quello che vi mettevano dentro”.
Era Giuda a fare il pauperista (derubando i poveri). Cristo di finanza non s’intendeva, ma di realtà sì: “i poveri ci saranno sempre”
L’Iscariota, il “figlio della perdizione”, il primo pauperista della storia del cristianesimo, sarebbe dunque stato pure un malversatore. Uno che si approfittava della situazione. Ma non è stato quello a rovinarlo. Così come, ancora oggi, non sono le operazioni finanziarie poco pulite a mettere in pericolo la santità della Chiesa. Lo stesso Gesù, in quella occasione a Betania, non si soffermò più di tanto sulla questione finanziaria, se non per lanciare il monito che sarebbe stato il più inascoltato da parte dei moralisti di tutte le risme, e di tutti gli eretici dei secoli a venire: “i poveri li avrete sempre con voi, ma non sempre avrete me” (Gv, 12, 8).
L’ipocrisia, più che l’avidità di denaro, è stata dunque il peccato di Giuda. Tutti gli interpreti sono concordi nel dirlo. S. Bernardo di Chiaravalle, uno che non si spaventava di fronte alle questioni di moneta, non si indignò per la disonestà dello zelota, ma scrisse parole di fuoco contro la sua ipocrisia. Fin da quando, durante la cena, egli chiese al Maestro “son forse io?” pur sapendo di essere lui il traditore.
Secondo lo stesso San Bernardo, in un famoso sermone scritto contro alcuni eretici del suo tempo (pauperisti a loro volta, come vedremo meglio in seguito): “gli ipocriti sono pecore nel portamento, volpi nell’astuzia, lupi nelle opere e nella ferocia. Il loro primo pensiero è di non essere buoni: ma di parere tali; di essere cattivi, ma di non sembrarlo… temono di apparire cattivi, per non essere cattivi in pochi. Infatti, la malizia manifesta ha sempre arrecato minor danno, né alcun uomo buono è mai stato ingannato se non con la simulazione del bene. Così dunque, costoro cercano di apparire buoni in danno dei buoni, e non vogliono apparire cattivi per poter maggiormente malignare” (Serm. LXVI, in Cant.).
Una descrizione che si attaglia alla perfezione a tanti censori degli sprechi e dei pretesi sfarzi della Curia, che ai nostri giorni imperversano in rete. Del resto, tutto il messaggio evangelico è coerente con il tragico epilogo del tradimento di Betania. Se dovessimo sintetizzare la morale di quella brutta storia, con la successiva disperazione e il suicidio dell’Iscariota, potremmo facilmente concluderne che i ladri si redimono, anche abbastanza facilmente, mentre per gli ipocriti – salvo le solite ovvie eccezioni – sono quasi sempre cavoli amari.
I disonesti nel Vangelo si beccano pure qualche elogio. Ma per gli ipocriti non c’è pietà
Rileggendo in questa chiave il Vangelo, vediamo che coloro che malversano con il denaro, prima o poi, vanno tutti incontro al perdono da parte del Cristo. E’ sempre andata così: Matteo, Zaccheo, i pubblicani, il buon ladrone che si è salvato proprio all’ultimo secondo. Anzi, i ladri talvolta riescono anche a beccarsi qualche lode per la loro scaltrezza, come l’amministratore disonesto (cfr. Lc, 16, 1-13) che per salvarsi la pensione organizzò una specie di cresta all’incontrario sui pagamenti dovuti al suo ex-padrone. Il quale, oltretutto, non si arrabbiò nemmeno, e invece di chiamare i finanzieri sprecò una buona parola per il suo dipendente infedele. Il che, detto per inciso, è pure un ottimo precedente per chi, ai nostri giorni, si trova ad avere a che fare con fatture, ricevute, contributi previdenziali…
Per gli ipocriti, invece, nei Vangeli si rimediano solo guai e disperazione. Non ci arrivano nemmeno vicino alla sorte riservata ai ladri e ai malversatori. Loro rimangono sempre e puntualmente tagliati fuori. Basta rileggersi le parole che sono state riservate ai farisei, agli scribi, ai membri del sinedrio, ecc. Tutta gente che – peraltro – era anche tendenzialmente ricca, ma non certo per il fatto di possedere molti beni è andata incontro all’ira divina.
E’ l’ipocrisia, il farsi scudo della povertà altrui, il voler apparire onesti, che taglia fuori dal Regno di Dio. E talvolta uccide all’istante, come avvenne a Anania e Saffira, che furono fulminati non per aver trattenuto per sé parte del prezzo del loro campo, bensì per essersi accordati per non dirlo a nessuno, e far miglior figura davanti agli apostoli e all’assemblea (At, 5, 1-11).
La perdizione di Giuda non inizia quando ruba i soldi destinati ai poveri. Ma quando dice di averli spesi per loro: per apparire “buono”. Ancora un volta: è l’ipocrisia non il furto il suo peccato
La sentiamo, dunque, questa voce? Papa Francesco queste cose le sa, e c’è da augurarsi che le tenga sempre presenti. Specie quando si tratta dello spinoso dossier dell’Istituto per le Opere di Religione.
Per l’appunto, prendiamo lo Ior. Ai nostri giorni, il bersaglio preferito dei pauperisti di tutte le risme. A ben vedere, nel collegio dei dodici apostoli, quello che amministrò il primo Ior della Chiesa nascente è stato proprio Giuda Iscariota. E la cassa non gli è stata tolta per il fatto di avere male amministrato, o per avere rubato (cosa che, come dicevamo, avrà persino rischiato di guadagnargli una lode: chissà cosa avrà pensato in cuor suo, se era presente, quando Gesù raccontò la parabola dell’amministratore disonesto…).
Piuttosto, è stata l’ipocrisia, lo zelo da rivoluzionario che si preoccupava dei poveri a portare l’Iscariota sulla strada della perdizione. Le sue ultime parole da apostolo, prima del tradimento e del bacio, sono state di scandalo per la ricchezza male amministrata, per l’unguento sprecato che appariva come uno schiaffo in faccia alla miseria. Un pensiero ipocrita, da parte di chi, nel corso dei tre anni passati col Nazareno, finse costantemente di preoccuparsi di quei poveri che – stando sempre al racconto di Giovanni – più volte era stato incaricato di gratificare con l’elemosina. Al punto che, quando uscì dal cenacolo, molti pensarono che Gesù gli avesse appunto chiesto di andare a dar qualcosa a essi (cfr. Gv, 13, 29).
Come il primo clericale “ideologizzato”: fra Dolcino
Una storia che si è ripetuta più volte, nel corso delle secolari vicende della Chiesa, prima di arrivare all’odierno entusiasmo per la nuova riforma finanziaria preannunciata dai laudatores di papa Francesco. Quando papa Silvestro, nel IV secolo, iniziò a organizzare le strutture temporali della Chiesa, grazie all’egida dell’imperatore Costantino, anche allora ci furono quasi subito quelli che gridarono allo scandalo. Tanto che, quando nell’alto Medioevo cominciarono a organizzarsi i primi movimenti ereticali, dai Bogumili ai Catari, dai Valdesi ai Dolciniani, la condanna delle ricchezze del clero e il desiderio prorompente di una Chiesa povera per i poveri (absit iniuria verbis) furono la vera, e incontrastata, nota costante.
Non risulta peraltro che questi eretici medioevali siano stati mai veramente poveri. Nessuno sa che fine abbia fatto il cosiddetto tesoro dei Catari, sul quale oggi si favoleggia, ma di certo il loro rigoroso disprezzo per le realtà materiali è stato un ottimo paravento per l’organizzazione di saccheggi e eccidi. Tanto, dicevano i Catari, tutto ciò che esiste nel creato merita di andare alla distruzione, e quindi loro non si tirarono di certo indietro per dare una mano. Lo stesso Dolcino, oggi sappiamo, il primo vero clericale “ideologizzato” della storia cristiana, l’ennesimo pauperista, prima partì col proposito di uccidere i ricchi per distruggerne l’esecrata ricchezza, poi pensò (o meglio: si vantò) anche di darla ai poveri come un Robin Hood, alla fine ritenne più pratico e conveniente trattenerla per sé, tutta: uccidere diventò un mezzo per arricchirsi oltre. E darsi alle orge e a ogni sorta di piacere e lusso. Un altro che non aveva capito che la scelta della povertà non la si deve imporre agli altri, ma, “se proprio vuoi essere perfetto” come dice Gesù nei Vangeli, a sé stessi. Ma proprio a se stesso Dolcino non la impose mai, anzi…
Quei popolani moralisti del web, tal quali gli eretici medievali. Stessa ipocrisia. Papa Francesco non è come loro
In fondo, chi erano gli eretici del medioevo? Gioacchino Volpe, storico e pensatore di livello, aveva le idee chiare al riguardo: “sono fabbri, sarti, tessitori, scardassieri, contadini; gente illetterata e idiota, come gli avversari la proclamano, e come se stessa, a volte, ama chiamarsi; ignorante cioè e sprezzante di quella cultura della Chiesa e degli alti ceti a cui il popolo minuto si sentiva estraneo…” (Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medioevale italiana, secoli XI-XIV, Vallecchi, ed. 1961, pag. 247). Un quadretto che si potrebbe applicare ancora oggi ai popolani del web che – almeno prima delle attese suscitate da papa Francesco – gridavano di continuo contro gli “sfarzi” della Curia romana, le “scarpe rosse” e i cerimoniali a loro dire “troppo fastosi”.
Il denaro altrui è sempre motivo di scandalo per gli ipocriti. Che si tratti dell’unguento da trecento denari, o dei capitali dello Ior. Ovvero, delle tasse da pagare. Eppure, a chi gli chiedeva se si devono o no pagare i tributi, Gesù rispose nello stesso modo. Non eluse la questione, e pure non invitò nessuno alla sobrietà né all’onestà fiscale, ma rivolse ai farisei il noto ammonimento “conoscendo la loro ipocrisia”: perché mi tentate? Portatemi un denaro perché lo veda (Mt, 22, 15-22).
La sentiamo questa voce? Ma a questo punto sembra già di sentirsi rispondere che papa Francesco non la pensa certamente così, che è solo per evitare gli scandali – terreno di coltura delle peggiori ipocrisie – che sente l’esigenza di riformare la struttura finanziaria della Chiesa cattolica, e via discorrendo. In realtà, sarebbe necessario che ci dessimo tutti una calmata. Soprattutto riguardo a questo discorso sulle riforme. Papa Francesco sa meglio degli altri che le strutture, le regole, i comitati di controllo, e così via, non servono a nulla se non si riesce a riportare a Cristo il cuore degli uomini di Chiesa.
Distinguere tra carità e opere di carità. O si corrompe il Vangelo
Il mai abbastanza lodato Ugo Borghello, nel suo ultimo libro “Saper d’Amore”(Ares, 2013), chiede a tutti i fedeli di distinguere tra carità e opere di carità. E anziché di carità, potremmo anche dire opere di religione. Ior, appunto.
Se si confondono i due piani, quello della carità con quello delle opere di bene, secondo Borghello “si finisce per misurare l’amore con le opere, favorendo l’azione del demonio che ama i paragoni, le lotte di potere, il giudizio della persona attraverso le sue opere, le invidie per le opere altrui, la presunzione per le proprie opere di bene, le accuse, gli scoraggiamenti per i limiti delle nostre opere, o le false sicurezze umane”.
Fin troppo facile ribaltare questo giudizio sui prelati e sui banchieri che hanno diretto le finanze della Chiesa. Non solo negli ultimi decenni, ma – se vogliamo – dalla donazione di Costantino in poi. Tuttavia la differenza consiste proprio nel metro di giudizio. Se si accetta il criterio del mondo, sempre pronto a scandalizzarsi per gli sprechi, per i fasti, per gli eccessi, per tutto ciò che può fomentare l’invidia, allora l’avversario l’avrà vinta in partenza. “Non c’è agenzia di male superiore a quella dei cristiani praticanti che confondono la carità con le opere di carità” – continua Borghello – “perché solo loro possono corrompere il Vangelo”.
La perversità della falsa umiltà
Ci abbiamo messo ampiamente del nostro, quindi, come cattolici, nell’accettare il criterio del mondo, per giudicare la moralità della Chiesa. Non serviranno dunque nuovi esperti di comunicazione e di pubbliche relazioni, per rendere più conforme al Vangelo l’amministrazione finanziaria del Vaticano. Tanto meno, c’è bisogno di scelte glamour, giovanilistiche e in linea con le aspettative mediatiche (sì, stiamo anche parlando di Francesca Immacolata Chaouqui). Piuttosto, c’è bisogno di andare controcorrente. Evangelicamente.
Sentiamo pertanto, di nuovo, cosa scrisse San Bernardo di Chiaravalle: “Il desiderare dall’umiltà la lode dell’umiltà, non è virtù, ma pervertimento. Vi è cosa più indegna e più perversa che quella di voler comparire migliore appunto in quello in cui si è peggiore? Costoro non praticano la virtù, ma nascondono il vizio sotto il mantello della virtù” (Serm. XVIII, in Cant.). Concetto ostico ai professionisti della morale, ma ben più chiaro di tanti tweet più o meno polemici, o al contrario entusiastici.
http://www.papalepapale.com/develop/giuda-lipocrita-il-primo-pauperista-del-cristianesimo-che-non-a-caso-era-pure-un-ladro/
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