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lunedì 4 agosto 2014

Padri del modernismo

Bergson e gli errori teologici odierni



Henry Bergson è un filosofo ambivalente. In un certo qual modo si può leggere come il classico “bicchiere”: mezzo pieno o mezzo vuoto; mezzo pieno amplificandone le caratteristiche positive, mezzo vuoto amplificandone quelle negative. In realtà, se proprio si vuole essere precisi (e non necessariamente pignoli) le caratteristiche negative superano quelle positive. Se poi a questo si aggiunge che il suo pensiero è stato non poco valorizzato da certe correnti teologiche neomoderniste, anzi tali correnti hanno trovato anche nel pensiero del Bergson ossigeno su cui alimentarsi, allora vien da sé che il giudizio non può che essere ampiamente negativo.

Henri Bergson nacque a Parigi il 18 ottobre del 1859. Nel 1900 ottenne la cattedra di filosofia al Collegio di Francia e qui mieté successo a non finire; un successo che lo condusse niente-di-meno che a ottenere nel 1927 il premio Nobel per la Letteratura. Morì il 4 maggio del 1941.
Per quanto riguarda le sue opere, ne vanno ricordate almeno tre: Materia e Memoria, del 1886; Evoluzione creatrice, del 1907; le due sorgenti della morale e della religione, del 1932.
Il tempo come durata
Bergson vive in pieno dominio positivista, ovvero di quella filosofia materialista secondo cui esiste solo ciò che si può vedere e si può toccare, cioè solo ciò che è oggetto d’indagine empirica. In questo clima materialista era ovvio che la categoria del tempo non venisse concepita come “durata”, nel senso che il tempo veniva considerato così come si considerava lo spazio. Insomma, un accostamento solo di tipo quantitativo diacronico. Il tempo veniva pensato come una realtà omogenea, divisibile in tante parti a causa del succedersi degli accadimenti: il passato era considerato diverso dal presente e dal futuro solo perché precedente ad entrambi.
Capisco che non sono concetti semplici, ma si possono comprendere. Dal momento che il positivismo afferma che tutto è materia e nient’altro che materia e che quindi anche l’uomo non è altro che il suo corpo, allora tutto ciò di cui l’uomo fa esperienza deve essere misurato come se fosse qualcosa di altrettanto materiale. Se l’uomo è solo il suo corpo, allora tutto ciò che sembra attenere allo spirito (come per esempio i sentimenti) è in realtà altrettanto esito della materia e deve essere misurabile quantitativamente; e così anche l’esperienza che l’uomo ha del tempo.
Ma a Bergson non convince questo modo di concepire il tempo. Qui, ovviamente, Bergson ci prende (è il “bicchiere mezzo pieno” di cui prima). Egli dice giustamente che è proprio la coscienza umana a dimostrare la falsità della posizione positivista. La coscienza, egli dice, sperimentata nella sua immediatezza, non è qualcosa di puntualizzato come la luce intermittente di un semaforo, bensì qualcosa di continuo ed esteso, e le sue dimensioni sono il passato, il presente e il futuro. I dati della coscienza non possono essere omogenei perché si compenetrano. Il tempo non è semplicemente un succedersi di fatti, ma di fatti vissuti dal vissuto (chiedo scusa del gioco di parole) dell’uomo. Non a caso noi ricordiamo i fatti del passato non allo stesso modo, e non perché ciò che è più lontano nel tempo è più difficile ricordare rispetto a ciò che è più vicino. Conta come noi abbiamo vissuto i fatti: ci sono fatti molto remoti che per una serie di motivi sono ancora vivi nella nostra memoria e ci sono fatti più recenti che abbiamo quasi cancellato. D’altronde la stessa psicanalisi (ci riferiamo a quella buona, ovviamente) ci dimostra tutto questo: possono esserci delle esperienze e dei traumi molto remoti che rimangono ancora vivi, come ferite aperte, nel sottofondo della coscienza.
Ed è così che Bergson afferma che il tempo è successione degli stati di coscienza, e quindi è essenzialmente durata e pertanto non può essere ridotto a spazialità. Non è semplice succedersi di momenti, ma un “processo di durata”: il passato è nel presente e il presente è carico di futuro. Mutatis mutandis (come si suol dire) una cosa del genere lo diceva anche un “certo” sant’Agostino … e scusate se è poco.  
L’intuizione come metodo della filosofia
Adesso vengono le dolenti note e il bicchiere da “mezzo pieno” diviene impietosamente “mezzo vuoto” se non addirittura “quasi del tutto vuoto”.
Bergson afferma che la durata caratterizza non solo i dati della coscienza ma l’intera realtà. Da qui il suo rifiuto dei vari metodi delle filosofie precedenti per spiegare la realtà. Il reale non avrebbe come principio costitutivo l’essere o la sostanza, o la materia, o l’idea, bensì la vita, lo slancio vitale, l’evoluzione creatrice.
Ora, se è la vita ciò che costituisce il reale, il metodo più appropriato per l’indagine filosofica non può essere quello positivistico di schematizzare e quantizzare le cose, bensì quello che possa cogliere il dinamismo del reale. Questo metodo non può che  essere l’intuizione.
Da qui conseguenze pericolosissime, perché il criterio di giudizio della realtà e della vita non è più la ragione, ma l’intuizione; non è più il giudizio critico ma il sentimento.  
Le differenti direzioni dell’evoluzione creatrice
La logica di Bergson è consequenziale, anche se sbagliata perché le premesse sono sbagliate. Se la realtà non è nel suo essere ma nella sua energia, ne scaturisce che essa (la realtà) è evoluzione creatrice, è slancio vitale, è solamente divenire. Un divenire, però, che secondo il filosofo francese prenderebbe non una ma tre direzioni concretizzandosi nella materia inorganica, nella vita vegetativa e nella vita intellettiva. Qui Bergson, rispetto ad un concetto classico di evoluzionismo, cambia qualcosa: vita vegetativa, sensitiva ed intellettiva non sono tre tappe successive di un unico sforzo, bensì tre vie differenti di un unico slancio.
Dov’è la novità? È che Bergson ci tiene a precisare che proprio perché tutto deriva da un unico slancio non c’è intelligenza ove non ci siano tracce di istinto e non c’è istinto ove non ci siano tracce d’intelligenza. Insomma, vita vegetativa, sensitiva ed intellettiva sono equivalenti e tutte e tre nobili. E qui – diciamolo chiaramente – il tutto sa di gnosi e del vecchio panpsichismo di stampo rinascimentale: la natura ha un’anima e tutto è espressione di un Uno impersonale. Anche la materia ha una dimensione spirituale. Ora un conto è dire che la realtà è costituita da materia e spirito, altro è dire che tutto è materia o che tutto è spirito. Queste ultime affermazioni costituiscono due pericolosi errori: il materialismo e lo spiritualismo. Ma è errore anche dire che lo spirito è anche materiale o che la materia è anche spirituale. Questo è l’errore che fa Bergson, ma non solo lui.
Poi, ovviamente, il filosofo francese cerca di dare anche una spiegazione per motivare come ciò sia possibile e dice: tra vita e materia non c’è frattura; la vita, con la sua interruzione, crea la materia, la quale, simile alla condensazione ed alla caduta di gocce di vapore, rappresenta sempre la perdita di qualche cosa.
Dunque, per Bergson, il divenire è la categoria suprema delle cose, è l’essere stesso della realtà. Al di là del divenire non c’è nulla… altro che essere e sostanza della metafisica classica!
Morale chiusa e morale aperta
Ma Bergson non si limita a questo e applica i suoi princìpi alla morale. Il dominio della ragione produrrebbe la cosiddetta morale chiusa, il dominio dell’intuizione la cosiddetta morale aperta. La morale chiusa sarebbe la morale della ragione ispirata all’idea della sanzione temporale (premio e castigo), la morale aperta sarebbe invece la morale di chi si determina all’azione; insomma la morale fondata sull’amore.
Penso, cari lettori, che abbiate già capito molto. Quando oggi sentiamo tanti moralisti, sedicenti tali e sedicenti cattolici, che parlano di amore che giustificherebbe tutto prescindendo dalla verità, di coscienza che giudicherebbe tutto prescindendo dal riconoscimento della verità, di amore sganciato totalmente dalla legge… c’è lo zampino anche della filosofia di Bergson.   
La mistica 
E Bergson entra proprio nel vivo della questione religiosa. Infatti, alla distinzione fra morale chiusa e morale aperta corrisponderebbe religiosamente la distinzione fra religione statica e religione dinamica.
La religione statica è la religione che si esprime nelle religioni positive, cioè quelle importanti, con dottrina, precetti, istituzioni, ecc… La religione dinamica è invece la religione che si basa sull’intuizione dell’Assoluto e sull’unione mistica con esso. Ma che mistica ci può essere senza dottrina e riconoscimento della verità? Siamo nel più completo sincretismo. D’altronde anche negli ambienti cattolici adesso si pensa che personaggi come Lutero e come Maometto sarebbero stati grandi mistici. Anche qui c’è l’influenza della filosofia di Bergson.
Basando poi tutto sulla dimensione mistica, che per Bergson vuol dire sentimentalizzazione completa della religione e sua riduzione esclusiva ad esperienza, il filosofo francese arriva a dire che per essere sicuri dell’esistenza di Dio bisogna andare dai mistici. Anche qui vi è un grosso errore: per capire che Dio esiste basta il semplice e corretto ragionamento, la mistica (ma quella corretta, quella dell’esperienza del vero Dio, e non qualsiasi mistica) serve per capire non che Dio esiste ma che solo in Dio ci si può umanamente realizzare.
Insomma, quanto Bergson troviamo in tante sciocchezze che oggi si diffondono.

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