ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 4 gennaio 2015

Extra omnes

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Conclave 2013, extra omnes: Spirito Santo compreso!


Estratto del libro “Tempo di misericordia – Vita di Jorge Mario Bergoglio”, scritto da Austen Ivereigh, pubblicato da Mondadori (2014).
Capitolo IX – Il conclave (2013)
[…] A Buenos Aires, il cardinal Bergoglio definì quella decisione [la rinuncia di Benedetto XVI, ndr] un «atto rivoluzionario» che era stato ben meditato al cospetto di Dio. Passò i successivi quindici giorni a organizzarsi per le future tre settimane di assenza, prima di atterrare a Roma con un volo notturno il 27 febbraio, il giorno prima delle dimissioni effettive di Ratzinger. Dal Vaticano gli era stato mandato un biglietto di prima classe, ma lo aveva cambiato con uno di classe economica, chiedendo un posto vicino all’uscita d’emergenza perché la sciatica lo tormentava in occasione dei viaggi lunghi e lì c’era più spazio per le gambe. Non si sarebbe potuta fissare la data del conclave finché i cardinali non avessero cominciato a riunirsi, ma la maggior parte riteneva che sarebbe stato a metà marzo, con la messa di inaugurazione del nuovo pontificato pochi giorni dopo. Aveva fissato il volo di ritorno per il 23 marzo, perché voleva avere il tempo di rileggere bene le omelie che aveva preparato per la liturgia di Pasqua a fine mese, alcune delle quali aveva inviato ai suoi amici evangelici ed ebrei per averne un giudizio. Aveva detto al giornalaio Daniel del Regno, dell’edicola dall’altra parte di Plaza de Mayo, che sarebbe tornato di lì a venti giorni e che nel frattempo avrebbe dovuto continuare a consegnargli La Nación.

Diversamente da quanto era accaduto nel 2005, quando aveva avuto con sé padre Marcó, stavolta viaggiava da solo. All’aeroporto di Fiumicino c’erano le limousine che prelevavano i cardinali appena arrivati, ma dopo avere raccolto la sua valigetta dal nastro trasportatore, Bergoglio prese come sempre il treno per la stazione Termini e da lì un autobus per via della Scrofa, dove alloggiò in una stanza da 85 euro (pasti inclusi) a notte alla casa del clero Domus Internationalis Paulus VI. Mentre lui disfaceva la valigia in quel palazzo del XVII secolo che era stato un tempo un collegio gesuita, sull’altra sponda del Tevere Benedetto XVI stava concedendo la sua ultima udienza generale. Alle decine di migliaia di persone radunate in piazza San Pietro, disse della serenità che la sua decisione gli aveva recato e confessò che vi erano stati momenti, nei suoi otto anni di pontificato, in cui le acque erano state agitate e «il Signore sembrava dormire».
In quei misteriosi giorni di interregno, i media analizzarono gli alti e bassi del pontificato di Benedetto e si chiesero chi avrebbe potuto prendere le redini della Chiesa nell’ora del bisogno. I giornalisti accreditati in Vaticano erano d’accordo sul fatto che la lista dei candidati era ancora vaga: nessuno era chiaramente in pole position. L’elenco dei papabili andava da tre o quattro nomi a più di una decina. Nessuno includeva Bergoglio, anche se i meglio informati lo indicavano come un’eminenza grigia, un rispettato veterano le cui opinioni avrebbero influenzato i suoi colleghi latinoamericani. Ma era fuori del radar dei papabili, in parte a causa dell’età (la maggior parte dei cardinali aveva deciso che il successivo papa dovesse avere poco meno o al massimo poco più di settant’anni), e in parte perché, siccome Bergoglio non era praticamente mai a Roma e quando c’era era invisibile, pochissimi sapevano qualcosa di lui. Quasi nessuno dei quattromila giornalisti che si riversarono a Roma da sessantacinque paesi avrebbe saputo dire molto dell’arcivescovo di Buenos Aires, a parte che aveva fama di persona austera, poco incline a rilasciare interviste. I vaticanisti sapevano che era stato papabile nel 2005, ma erano convinti che il suo momento fosse passato. Nessun secondo arrivato a un conclave era mai stato eletto papa al conclave successivo, e da allora chi aveva mai sentito parlare di lui?
[…] La Chiesa si trovava adesso in sede vacante, governata, in assenza del papa, dal collegio dei cardinali. Iniziarono a riunirsi il 4 marzo nella sala del sinodo per le quotidiane congregazioni generali, mentre gli operai installavano un falso pavimento e jammer anti-cellulare nella Cappella Sistina in vista del conclave. La maggior parte dei cardinali si presentò all’appuntamento in limousine per sfuggire all’assalto dei media, mentre Bergoglio andò ogni giorno a piedi in Vaticano con il suo impermeabile nero, senza che nessuno lo riconoscesse.
Quando arrivò l’ultimo cardinale, il numero dei porporati fu di centocinquantuno. Di questi, centoquindici avevano meno di ottant’anni e quindi potevano votare, lo stesso numero del 2005; ma il nuovo conclave differiva sotto molti aspetti dal precedente. Non si doveva dedicare tempo alle discussioni sulle disposizioni per il funerale, e i pezzi grossi del collegio cardinalizio – il decano Angelo Sodano e il camerlengo Tarcisio Bertone – erano troppo associati agli scandali vaticani per essere papabili. Inoltre, stavolta i cardinali si conoscevano molto meglio, perché Benedetto XVI li aveva fatti riunire cinque volte negli otto anni del suo pontificato, e aveva incluso un’assemblea lunga un giorno prima di ogni concistoro.
Le congregazioni generali si svolsero a porte chiuse, ma, tra i briefing quotidiani di padre Lombardi, le conferenze stampa dei cardinali statunitensi al Pontificio collegio americano del Nord (chiamato con la sigla NAC) e le indiscrezioni dei traduttori al soldo dei quotidiani italiani, si sapeva bene che il filo comune dei discorsi erano la corruzione e la disfunzione del Vaticano. Tre cardinali, a cui mesi prima papa Benedetto aveva affidato il compito di indagare sugli scandali, stavano per informare i loro confrères delle conclusioni che avevano tratto nel loro rapporto riservato di trecento pagine, che sarebbe stato messo sulla scrivania del futuro papa.
I cardinali americani erano particolarmente ansiosi di discutere della disfunzione, perché avevano avuto il beneficio, nei mesi precedenti, del briefing di un insider. L’arcivescovo Carlo Maria Viganò (nessuna parentela con il direttore del Centro televisivo vaticano), nunzio apostolico a Washington, aveva avvertito Benedetto XVI che la segreteria di Stato gli aveva assegnato quell’incarico nell’ottobre del 2011 per farlo andare via da Roma quando aveva scoperto un giro di corruzione legato all’assegnazione di contratti che era costato alla Santa Sede milioni di euro. Profondamente scioccati da quello che avevano saputo da Viganò, i cardinali americani (la Chiesa americana insieme a quella tedesca svolge un ruolo chiave nel finanziare il Vaticano) volevano a tutti i costi che il prossimo papa portasse con sé una bella scopa. Come disse l’arcivescovo di New York, il cardinale Timothy Dolan, nelle sue memorie del conclave: «Sapevamo che il mondo aspettava l’elezione di un pontefice che introducesse alcune importanti riforme da realizzare al più presto all’interno della Chiesa».4
La disfunzione della curia andava al di là della corruzione finanziaria. Derivava anche da una meschina faziosità, da un sistema di reti clientelari che spingono e promuovono alcune persone ben oltre i limiti a cui le loro capacità le condurrebbero, mentre altre, dotate delle qualifiche giuste, restano tagliate fuori. La cosiddetta lobby gay era una di queste reti: un gruppo di laici e alcuni sacerdoti che usavano il ricatto e la promozione per difendere e favorire i propri interessi. I quattromila laici e i mille preti della curia erano perlopiù competenti e corretti, e molti erano eccezionalmente coscienziosi, ma lottavano contro la cultura di chi ritiene di avere diritto alle cose, la cultura dei burocrati di medio livello che si aspettano un posto di lavoro per tutta la vita, e di chi considera la competenza meno importante delle conoscenze giuste. Occorreva insomma un generale cambiamento culturale, un pontificato che mettesse al primo posto la missione e l’ethos di servizio.
Si parlò molto della riforma del governo del Vaticano, della necessità di un papa che fosse accessibile, informato e libero di agire, e dell’esigenza di un contatto più fluido tra Roma e la Chiesa locale. La collegialità era stata «un tema costante di queste discussioni» disse padre Lombardi ai giornalisti il 9 marzo. «Eravamo tutti pressoché certi che ci sarebbero stati straordinari cambiamenti e un nuovo modo di guardare alla curia, con una maggiore collegialità», ricorda l’arcivescovo di Boston, cardinale Seán O’Malley.5 La diagnosi del gruppo di San Gallo all’inizio del Duemila era adesso il plat du jour. Tutti convenivano che il malfunzionamento del Vaticano era un grave impedimento all’evangelizzazione e che il centralismo romano e la mancanza di trasparenza riguardo alle responsabilità erano una delle sue cause principali. Alcuni proposero di riformare il sinodo dei vescovi in maniera che potesse gestire modifiche effettive, mentre altri volevano discutere dello IOR e del misterioso licenziamento del suo presidente, Ettore Gotti Tedeschi, che aveva proceduto a riformarlo. Tutti convenivano sulla necessità che la curia vivesse meno per se stessa e servisse meglio la Chiesa locale. Un cardinale ipotizzò che il compito di governare la Chiesa universale fosse semplicemente troppo grande per un uomo solo e che il futuro papa avesse bisogno di essere aiutato da un consiglio di cardinali consulenti che provenissero da fuori Roma.
Tra i più eloquenti su quell’argomento c’era il cardinal Francesco Coccopalmerio, un avvocato esperto in diritto canonico che era stato vescovo ausiliare sotto il cardinal Martini, a Milano. Parlò della necessità di riformare la curia in maniera da assicurare il contatto tra i capi dei dicasteri e il papa e tra le diocesi locali e Roma. L’implosione del Vaticano aveva trasformato perfino i rigoristi in riformisti. Per esempio, un inveterato conservatore come il cardinale George Pell, di Sydney, rimase sgomento quando scoprì che la curia aveva messo in posti importanti persone senza adeguate conoscenze tecniche e che filtravano continuamente notizie su argomenti riservati alla stampa. Nelle congregazioni generali, fu tra i più vigorosi alfieri della riforma della curia e della necessità che il papa consultasse prelati fuori dell’ambito romano. Gli unici difensori dello status quo erano di fatto i cardinali curiali, convinti che essi soli fossero qualificati per curare il malessere vaticano.6
Di norma, con l’aiuto dei cardinali diocesani italiani, i curiali cucinavano il conclave in anticipo, ma stavolta sia la pentola sia il mestolo erano scivolati loro dalle mani. I curiali erano divisi tra le fazioni filo-Bertone e filo-Sodano, anche se entrambe volevano fermare il cardinal Angelo Scola, il brillante ma sulfureo arcivescovo di Milano che era considerato da molti, fuori d’Italia, il successore naturale di Benedetto XVI, a cui però si opponevano i capi delle principali diocesi italiane. Un tentativo di organizzare un’alternativa a Scola venne dalla fazione curiale stretta intorno ad Angelo Sodano, potente ex segretario di Stato e adesso decano del collegio cardinalizio, che era troppo vecchio per votare, ma restava la grande eminenza grigia della curia. Il piano del suo gruppo era di favorire l’arcivescovo di San Paolo, cardinale Odilo Scherer, un ex funzionario vaticano che consideravano malleabile. L’idea era che, da papa, Scherer avrebbe nominato segretario di Stato il candidato curiale argentino Leonardo Sandri, ex numero due di Sodano, garantendo così lo statu quo ante. Introducendo nel governo del Vaticano un esterno, erano convinti di poter far tornare gli interni al potere. Ma il piano fu neutralizzato, perché la stampa ne parlò ancor prima che iniziassero le congregazioni e la notizia accrebbe il generale sentimento anti-italiano del collegio, che si era diffuso perfino tra gli italiani.7
Perduta la loro occasione, l’iniziativa fu presa allora dai riformisti europei che nel 2005 avevano cercato di far eleggere Bergoglio. Alcuni di loro, come il cardinal Cormac Murphy-O’Connor, erano troppo vecchi per votare al conclave, mentre altri, tra cui Walter Kasper (che aveva poco meno di ottant’anni quando il soglio di Pietro diventò vacante), Godfried Danneels e Karl Lehmann, erano elettori. Avevano imparato la lezione nel 2005 e stavolta erano ben organizzati. Prima di tutto si assicurarono il consenso di Bergoglio. Quando gli domandarono se fosse disponibile, rispose che riteneva che in un simile momento di crisi per la Chiesa nessun cardinale, ove glielo si fosse chiesto, potesse rifiutare. (Murphy-O’Connor lo avvertì a bella posta di «stare attento» che stavolta era il suo turno, e l’altro rispose in italiano: «Capisco».) Poi si misero al lavoro e fecero il giro dei tavoli alle cene dei cardinali per promuovere il loro uomo, affermando che la sua età, settantasei anni, non doveva più essere considerata un ostacolo, dato che i papi ormai potevano rassegnare le dimissioni. Avendo compreso, grazie all’esperienza del 2005, la dinamica del conclave, sapevano che i voti andavano a coloro che fin dall’inizio avevano un’ottima prestazione. Il loro obiettivo era assicurare almeno venticinque voti a Bergoglio alla prima votazione. Un anziano cardinale italiano tenne il conto di quanti fossero i voti su cui potevano contare prima che il conclave iniziasse.
La squadra Bergoglio contava su tutti e diciannove i cardinali latinoamericani, che dall’epoca di Aparecida consideravano il cardinale argentino il loro leader, ma aveva bisogno di un congruo numero di europei, che costituivano oltre la metà degli elettori. Oltre che sui riformisti stessi, che comprendevano diversi tedeschi, francesi e centroeuropei, potevano fare assegnamento su alcuni cardinali spagnoli che ricordavano con affetto il ritiro spirituale di Bergoglio del 2006. Il cardinale spagnolo Santos Abril y Castelló, arciprete di Santa Maria Maggiore, a Roma, ed ex nunzio in America latina, fu energico nel sollecitare voti per Bergoglio tra i porporati iberici. Il sostegno europeo fu fornito anche dal cardinal Christoph Schönborn di Vienna, uno dei principali sostenitori di Ratzinger nel 2005, e dal cardinal André Vingt-Trois di Parigi, che furono entrambi a favore di Bergoglio durante il conclave, anche se forse non prima.
C’erano undici cardinali africani e dieci asiatici. Quelli che provenivano da nazioni storicamente anglofone trovarono nel cardinale britannico Murphy-O’Connor un punto di riferimento che si rivelò essenziale nel portarli dalla propria parte. Bergoglio a un certo punto fu avvicinato dall’eminenza grigia che si lavorava gli elettori africani, il cardinale congolese Laurent Monsengwo Pasinya, di Kinshasa, il quale gli chiese notizie del suo polmone malato. Bergoglio gli disse che era stato operato negli anni Cinquanta e che da allora stava molto bene.8
I nordamericani, undici cardinali degli Stati Uniti e tre del Canada, erano il gruppo più grande al di fuori dell’Europa e dell’America latina, e sarebbero stati cruciali per la vittoria. Cominciarono a prendere in considerazione Bergoglio solo dopo il 5 marzo, alla fine del secondo giorno di congregazioni, quando fu tenuta una grande cena nella Sala rossa del Pontificio collegio americano del Nord, con il britannico Murphy-O’Connor e l’australiano Pell tra gli ospiti.
«I cardinali americani erano assai divisi riguardo all’obiettivo», ricorda Murphy-O’Connor. La loro eminenza grigia era l’arcivescovo di Chicago Francis George, che stava cercando di scegliere tra Scola e l’altro papabile di grosso calibro, il cardinale canadese Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i vescovi. Murphy-O’Connor fece entrare in lizza il nome di Bergoglio, ma quella sera l’idea non suscitò entusiasmo. Il cardinal O’Malley, di Boston (a cui Bergoglio aveva dato un CD della messa argentina, la Misa criolla, quando, nel 2012, avevano trascorso del tempo insieme a Buenos Aires), era favorevole, ma per gli altri americani Bergoglio era un’incognita. In particolare, il cardinal George era preoccupato della sua età. «Il problema è: ha ancora vigore?» si chiese.9
Il giorno dopo, mercoledì 6 marzo, O’Malley, di Boston, e Daniel DiNardo, di Galveston-Houston, dissero al briefing per la stampa del NAC che i cardinali non erano pronti a stabilire una data per il conclave e avevano bisogno di più tempo per discernere di chi e che cosa avesse bisogno la Chiesa. Quello fu il loro ultimo briefing fino a dopo il conclave: alle congregazioni, quel pomeriggio, si convenne che i cardinali americani sospendessero le loro conferenze stampa quotidiane per consentire una discussione privata. Erano stati scrupolosi nel rispettare la riservatezza delle discussioni e sentivano di essere stati scelti come capri espiatori dai curiali, che avevano attribuito a loro la colpa delle indiscrezioni dei cardinali (o dei traduttori) italiani. Il risultato dell’interdizione fu che le indiscrezioni, prezzolate e parziali, che dalle congregazioni arrivavano ai vaticanisti italiani finirono per dominare il dibattito mediatico pre-conclave, producendo un cancan che esagerò l’importanza delle tensioni intracuriali e intraitaliane. Dipendendo ormai dalla stampa italiana per la copertura pre-conclave, i media mondiali riferirono che tutto faceva pensare che sarebbe stata una contesa bizantina tra distinte fazioni italiane e vaticane. Per questo motivo, e perché gli organizzatori della sua campagna restavano al di sotto del radar, il carro della banda di Bergoglio, messosi in moto durante la settimana delle congregazioni, in genere non fu individuato dai media e ancora oggi la maggior parte dei vaticanisti è convinta di come non ci sia stata nessuna orchestrata manovra pre-conclave per far eleggere Bergoglio. Non per la prima volta, l’Argentina sarebbe parsa spuntare dal nulla, come un gaucho che arriva al galoppo dalla pampa alle prime luci dell’alba.10
Bergoglio aveva due qualità che difficilmente si abbinano: il genio politico di un leader carismatico e la sacralità profetica di un santo del deserto. Quando si alzò per parlare alla congregazione, la mattina del 7 marzo, le usò entrambe. Nel suo breve ma forte intervento, egli riuscì a riassumere efficacemente la situazione critica in cui si trovava la Chiesa, e a offrire sia la diagnosi sia la cura.
Parlò per soli tre minuti e mezzo, e fu l’unica volta, quella settimana, in cui un cardinale usasse meno dei cinque minuti concessigli. Non molto più lungo del discorso di Gettysburg (363 parole in spagnolo, contro le 271 di Lincoln in inglese), e a quello paragonabile per semplicità e qualità lirica, fece considerazioni che ricordarono ai suoi ascoltatori per quale motivo si trovavano lì e, in senso più ampio, chi erano. Il discorso creò una nuova «narrazione» o ne recuperò una che era stata sepolta. In mezzo alla nebbia degli interminabili discorsi di quei giorni che teorizzavano e cavillavano, quello di Bergoglio suonò chiaro e forte come la campana di un monastero in un campo.
Non sarebbe rimasta traccia di questo discorso papale di Gettysburg se il cardinale Jaime Ortega, dell’Avana, non ne avesse chiesta una copia a Bergoglio. L’argentino la copia non l’aveva, perché aveva parlato a braccio in italiano partendo da appunti, ma in seguito lo scrisse in spagnolo con una penna stilografica e, la mattina dopo, lo diede a Ortega. Dopo che Bergoglio fu divenuto papa Francesco, Ortega caricò il PDF del discorso sul sito web della diocesi dell’Avana, e fu così che il mondo lo scoprì.11
Se hizo referencia a la evangelización. «Si è fatto riferimento all’evangelizzazione» esordì Bergoglio. «È la ragion d’essere della Chiesa: papa Paolo VI parla della “dolce e confortante gioia di evangelizzare”. È lo stesso Gesù Cristo che, da dentro, ci spinge.»
E proseguiva:
Evangelizzare implica zelo apostolico. Evangelizzare presuppone nella Chiesa la «parresia» di uscire da se stessa. La Chiesa è chiamata a uscire da se stessa e ad andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali, quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria.
Quando la Chiesa non fa questo, avvertiva, «diviene autoreferenziale e allora si ammala (si pensi alla donna curva su se stessa del Vangelo) [Lc 13-11]». Poi aggiunse la sua diagnosi di ciò che non era andato per il verso giusto nella Chiesa, usando lo stesso discernimento cui era ricorso appena due mesi prima al ritiro della Caritas di Buenos Aires.
I mali che, nel trascorrere del tempo, affliggono le istituzioni ecclesiastiche hanno una radice nell’autoreferenzialità, in una sorta di narcisismo teologico. Nell’Apocalisse, Gesù dice che Lui sta sulla soglia e chiama. Evidentemente il testo si riferisce al fatto che Lui sta fuori della porta e bussa per entrare. Però a volte penso che Gesù bussi da dentro, perché lo lasciamo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende di tenere Gesù Cristo dentro di sé e non lo lascia uscire.
Senza rendersene conto, proseguiva, la Chiesa diventa autoreferenziale quando crede di avere luce propria e smette di essere il mysterium lunae, il «mistero della luna». Questa espressione era usata dai Padri della Chiesa primitiva: come la luna, dicevano, è poco brillante perché manca di luce propria, ma di notte brilla vividamente riflettendo la luce del sole, così la Chiesa non ha altro scopo che di riflettere Cristo. Quando smette di farlo e cerca di vivere della propria luce, proseguiva Bergoglio, «dà luogo a quel male così grave che è la mondanità spirituale», definita dal teologo Henri de Lubac «il male peggiore in cui può incorrere la Chiesa».
Proseguì quindi spiegando che alla Chiesa non restava che scegliere tra due possibilità: da un lato «la Chiesa evangelizzatrice che esce da se stessa» e che «religiosamente ascolta e fedelmente proclama la Parola di Dio», dall’altro «la Chiesa mondana che vive in sé, da sé, per sé». Questo, disse, «deve illuminare i possibili cambiamenti e riforme da realizzare per la salvezza delle anime».
Concludeva infine:
Pensando al prossimo papa: un uomo che, attraverso la contemplazione di Gesù Cristo e l’adorazione di Gesù Cristo, aiuti la Chiesa a uscire da se stessa verso le periferie esistenziali, che la aiuti a essere la madre feconda che vive «della dolce e confortante gioia dell’evangelizzare».
Non era di prammatica applaudire, ma il silenzio che seguì al discorso di Bergoglio fu più sonoro di un applauso. Il cardinale Schönborn si girò verso il suo vicino e disse: «Ecco di che cosa abbiamo bisogno». Il cardinal Ortega lo definì un discorso «magistrale, illuminante, accorato e vero». Sufficiente a far vacillare il cardinal George, il quale disse al cardinal Murphy-O’Connor che adesso c’era arrivato, adesso aveva capito che cos’avevano inteso quando avevano proposto il suo nome. Bergoglio aveva aperto ai porporati una strada: una riforma che andasse più in profondità del semplice processo di ripulire la curia dalla corruzione o di migliorare il governo del Vaticano, una riforma che inducesse la Chiesa a ritornare al suo scopo e alla sorgente della sua vita. Quel pomeriggio, i cardinali decisero tramite voto di entrare in conclave il martedì seguente, l’11 marzo. Lasciando la sala del sinodo, l’espressione raggiante del cardinal George era molto eloquente. «Siamo pronti», disse ai giornalisti.
Nel weekend, Bergoglio indossò il mantello dell’invisibilità. Mentre i principali papabili – Scola, Scherer e Ouellet – celebravano la messa della domenica nelle chiese a loro assegnate, lui se ne stette alla larga dalla «sua» chiesa di San Roberto Bellarmino e preferì fare un pranzo tranquillo con la novantaduenne sorella di un arcivescovo suo vecchio amico, l’ex nunzio in Argentina Ubaldo Calabresi, morto nel 2004. A un certo punto, davanti a un caffè, si imbatté nell’arcivescovo emerito di San Francisco, John R. Quinn, il cui famoso appello alla collegialità in Per una riforma del papato era stato un testo fondamentale per i riformisti e per Bergoglio stesso. «Ho letto il tuo libro e spero che quello che proponi si realizzi», gli disse Jorge.12
Sapeva di essere stavolta molto papabile e ne sentiva il peso. Quando, in piazza Navona, si imbatté nel prete e produttore televisivo Tom Rosica, lo afferrò per le mani e gli chiese di pregare per lui. «È nervoso?» gli chiese Rosica. «Un pochino» rispose. Ma quando Gianni Valente e Stefania Falasca, due giornalisti cattolici suoi amici di vecchia data, passarono quella sera dalla Domus, lo trovarono sereno e disteso. «La notte dormo come un bambino» disse loro.13
La mattina dopo, martedì 12 marzo, i cardinali si trasferirono all’albergo di centoventi stanze per religiosi Casa di Santa Marta, preparandosi all’apertura del conclave nel pomeriggio. Dovettero depositare cellulari e computer portatili e farsi esaminare le borse ai raggi X. Le finestre furono chiuse e i segnali radio mobili bloccati.
Di fronte alla stanza di Bergoglio, la numero 207, c’era quella del cardinal Kasper. Di recente il teologo tedesco aveva ricevuto copie della traduzione spagnola di Barmherzigkeit,14 il suo ultimo libro di teologia incentrato sul tema della misericordia, e poiché ne aveva un paio con sé ne diede una a Bergoglio. «Ah, la misericordia», disse Bergoglio quando vide il titolo spagnolo. «È il nome del nostro Dio.» […]
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Dopo la messa pro eligendo pontifice il giorno seguente in San Pietro, i centoquindici cardinali tornarono alla Casa di Santa Marta per il pranzo e un riposino, prima di entrare, il pomeriggio, nella Cappella Sistina e fare il giuramento solenne. Poi le porte si chiusero e procedettero alla prima votazione, isolati dal mondo esterno che stava in attesa.
Nonostante la tensione, il conclave è silenzioso e solenne come un ritiro spirituale; i cardinali indossano la veste rossa, come se partecipassero a un rito liturgico. Lo scrutinio, a fine votazione, è lento. Nessuno si gingilla, ma si procede tutt’altro che in fretta. I conclavisti si spostano dal loro tavolo (ci sono quattro lunghe file di tavoli, due su ciascun lato della cappella, l’una di fronte all’altra) a uno a uno, in ordine di precedenza, per votare. Inginocchiato davanti all’altare, con gli occhi alzati a guardare il Giudizio universale di Michelangelo, ciascun cardinale, chiamando Cristo a testimone, dichiara che il suo voto è dato a «colui che, secondo Dio», ritiene «debba essere eletto». Poi si alza, mette la scheda piegata, su cui si legge il preambolo Eligo in Summum Pontificem («Scelgo come sommo pontefice») e nella quale ha scritto il relativo nome, sul piatto d’argento – la patena – posto sull’altare, con quello la introduce nell’urna e torna al suo posto. Tutto questo avviene centoquindici volte, finché i tre scrutatori, scelti per sorteggio tra gli elettori, prendono l’enorme urna d’argento e contano le schede, scandendo a voce alta ciascun nome. Siccome l’acustica è cattiva, in questo conclave gli scrutatori arruolarono un cardinale messicano dalla voce forte perché ripetesse i nomi di ciascun cardinale votato.
I negoziati e le discussioni necessari a condurre un candidato alla maggioranza di due terzi si svolgono alla Casa di Santa Marta. Diversamente che nel 2005 nessun porporato si è fatto avanti con un «diario segreto» con il racconto della conta dei voti, costringendo i vaticanisti a mettere insieme frammenti di notizie tratti dai commenti post-conclave degli elettori. Ci sono significative varianti nella ricostruzione dei fatti. L’obiettivo dei sostenitori di Bergoglio di raggiungere venticinque voti nella prima fase fu ottenuto senza problemi, ma se quei voti gli abbiano permesso di guadagnare il primo posto alla prima votazione non è chiaro. Anche Scola, Scherer e Ouellet presero dei voti, come avevano previsto i media italiani. Ma su una cosa tutti sono d’accordo: l’indomani l’argentino fece grossi passi avanti, ottenendo oltre cinquanta voti alla seconda votazione del mattino, la terza del conclave.
A quel punto, a parte Bergoglio, rimaneva come possibilità soltanto Scola. Il pranzo a Santa Marta fu teso. Il cardinal O’Malley sedeva vicino a Bergoglio e lo trovò così triste da non toccare quasi cibo. «Pareva molto depresso per quello che stava succedendo» avrebbe detto in seguito O’Malley. Qualunque cosa sia accaduta durante quel pranzo (secondo qualcuno, Scola avrebbe chiesto ai suoi sostenitori di appoggiare Bergoglio, facendo eco al gesto dell’argentino nel 2005), si era praticamente conclusa alla prima votazione di mercoledì pomeriggio, la quarta del conclave, perché Bergoglio arrivò vicino ai settantasette voti necessari. Quel pomeriggio, disse il cardinal Dolan, «il cardinal Bergoglio aveva un’aria straordinariamente calma e serena. Egli evidentemente sentiva che quella era la volontà di Dio».16
Poi arrivò una sorpresa. La seconda votazione del pomeriggio, la quinta del conclave, fu annullata quando lo scrutatore trovò una scheda in più rispetto al numero dei cardinali. La scheda sbagliata era un foglio bianco che si era attaccato per sbaglio a una scheda che recava un nome. Anche se non poteva influenzare il risultato, le regole erano chiare e i cardinali dovettero votare tutti di nuovo. Poiché le carte non sono bruciate se non alla fine della votazione della mattina o del pomeriggio, fuori si sapeva solo che le due votazioni dovevano essersi ormai svolte e che verso le sei del pomeriggio sarebbe dovuta apparire la fumata nera o bianca. Il ritardo, dunque, significava che c’era qualche problema, magari un’emergenza medica o un cattivo funzionamento della macchina del fumo.17
Nell’angolo della Cappella Sistina vicino all’entrata, c’era l’unico mezzo che i cardinali avevano per comunicare i risultati di ciascuna votazione al mondo: due enormi stufe color bronzo, simili ai dalek del Doctor Who, che sembravano provenire direttamente da un film di fantascienza di serie B.
[…]
Martedì sera e mercoledì all’ora di pranzo il fumo nero proveniente dai candelotti che esplodevano fu risucchiato dalla stufa ausiliaria nello stretto tubo di scarico che, fissato alla parete della cappella, saliva fino al soffitto a volta prima di uscire dal piccolo comignolo d’acciaio sul tetto che metà mondo stava guardando. Le grandi nuvole di fumo durarono ben sette minuti, formando volute così grandi che ci si aspettava di sentire da un momento all’altro l’urlo di una sirena dei pompieri.
Mentre gli occhi dei media di tutto il mondo erano fissi su quel camino, la tensione data dall’incertezza, la sera di mercoledì, fece molto spettacolo, dal punto di vista televisivo. Dalle piattaforme che davano sulla piazza, i commentatori cercavano di trovare una spiegazione per il ritardo, mentre gli anchormen parlavano lentamente, introducendo piccole pause in stile «qui si fa la storia», che servivano ad accrescere la suspense. Era un sistema medievale, il conclave, ma era come se fosse stato concepito per l’era delle notizie ventiquattr’ore su ventiquattro. Quale altra organizzazione internazionale avrebbe annunciato il proprio capo in quel modo, per mezzo di segnali di fumo e dando la notizia a tutti, princìpi e poveri, esattamente nello stesso momento?
All’interno, mentre si preparava per quello che in seguito avrebbe definito il suo «cambio di diocesi», Bergoglio era sereno. «Sono il tipo che si preoccupa, che diventa ansioso», avrebbe detto in seguito ai membri degli ordini religiosi latinoamericani, «ma ero sereno, e questo mi confermava che era la volontà di Dio.»19
Quando lo scrutatore disse «Eminentissimo Bergoglio» per la settantasettesima volta, i cardinali scaricarono la tensione con un ansito collettivo, un suono simile a quello dell’aria che esce da un pallone che si sgonfia. Poi tutti si alzarono e applaudirono. «Credo non ci sia stato un solo occhio asciutto nella Cappella» rammenta il cardinal Dolan. Fu allora che il brasiliano Claudio Hummes, membro dell’ordine fondato da san Francesco d’Assisi, abbracciò Bergoglio, lo baciò e gli disse: «Non dimenticare i poveri».
I porporati tornarono a sedersi. Gli avrebbero chiesto se accettava non prima che fossero scrutinate tutte e centoquindici le schede. Aveva qualche minuto di tempo. Non dimenticare i poveri. La parola poveri gli turbinò in testa come un mantra usato per meditare, finché gli venne in mente il nome da assumere: Francesco d’Assisi, l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che amava e venerava il creato.
Il conto era finito: Bergoglio aveva avuto più di novantacinque voti. Il cardinal Giovanni Battista Re gli si avvicinò con la grande domanda: accettava l’elezione canonica a sommo pontefice? Erano le 19.05 quando Jorge Bergoglio disse: Accepto nel suo latino corretto, aggiungendo: «Anche se sono un grande peccatore».
Imperfetto ma chiamato. Aveva già udito l’invito del Buon Pastore, facendo la scelta che sant’Ignazio negli Esercizi descriveva in questo modo: «Quando Dio nostro Signore muove e attrae tanto la volontà che, senza dubitare né poter dubitare, l’anima devota segue quello che le è mostrato, come fecero san Paolo e san Matteo nel seguire Cristo nostro Signore». Aveva pronunciato il suo primo «sì» più di mezzo secolo prima, alla festa di san Matteo, in un confessionale della basilica di Flores. Da quel «sì» fino al febbraio 2013, il viaggio della sua vita era stato come legato da un unico filo, i cui nodi erano sciolti da un grande, benevolo potere.
«E come vuoi essere chiamato?» domandò il cardinal Re. Vocabor Franciscus: «Mi chiamerò Francesco». «Ho scelto il nome Francesco in onore di Francesco d’Assisi» disse con fermezza. I cardinali, sbalorditi, di nuovo esplosero in un applauso.
Francesco fu condotto nell’adiacente stanza delle lacrime, dove lo vestirono con la tonaca bianca e la fascia, e dove decise di tenersi le vecchie scarpe nere e la croce pettorale d’argento. La cappella fu aperta per far entrare gli inservienti, che misero le schede nella stufa e caricarono le cartucce del fumo bianco. Appena il fumo bianco uscì dal comignolo della Cappella Sistina nell’umida notte buia, un ruggito si levò dalla piazza. Presto le grandi campane della basilica di San Pietro cominciarono a oscillare, e il loro gioioso din don si mischiò con le grida di evviva della folla.
Quando Francesco tornò nella Cappella Sistina con la tonaca bianca indosso, i porporati applaudirono di nuovo. Gli era stata portata la sedia gestatoria perché si sedesse a riceverli, ma lui restò in piedi mentre a uno a uno i cardinali andavano ad abbracciarlo.
A quel punto, consapevole della folla fradicia di pioggia che lo attendeva nella piazza, cominciò ad avvicinarsi al balcone. Fu allora che provò un senso di turbamento. «Una grande ansia mi aveva invaso» avrebbe ricordato in seguito. Con al fianco il cardinale Hummes e il cardinal Agostino Vallini, vicario per la diocesi di Roma, entrò nella Cappella Paolina, come imponevano le regole dell’elezione papale riformata da Benedetto, e si inginocchiò nella panca in fondo. La paura della missione, aveva detto una volta a un gruppo in ritiro spirituale, spesso è «un segno dello spirito buono».
Quando avvertiamo la chiamata della vocazione sentiamo che il peso è grande, abbiamo paura (in alcuni casi subentra addirittura il panico): è l’inizio della croce. E tuttavia sentiamo contemporaneamente una profonda attrazione per il Signore che – con la sua stessa chiamata – ci seduce con un fuoco ardente e ci invita a seguirlo (Ger 20, 7-18).20
Mentre il mondo tratteneva il fiato, dentro la Cappella Paolina, Francesco rimase immobile in silenzio. Lì, nell’anticamera della sua nuova esistenza, si prese un istante di tempo per aprire il cuore a una forza non sua. Alla fine il turbamento se ne andò e si sentì invadere dalla gioia e dalla pace. «A un certo punto una grande luce mi invase» avrebbe ricordato in seguito. «Durò un attimo, ma a me sembrò lunghissimo.»
«Solo Dio nostro Signore può dare all’anima una consolazione senza precedenti», scriveva sant’Ignazio nelle regole del discernimento della Seconda Settimana. «Infatti è proprio del Creatore entrare nell’anima, uscire, agire in essa, attirandola tutta all’amore della sua divina Maestà.»
Monsignor Dario Edoardo Viganò, direttore della TV vaticana, che stava filmando l’evento per la posterità, descrisse ciò che vide non appena le immagini arrivarono al camion della regia.
Il papa attraversa la Cappella Sistina guardando per terra, accompagnato dal cardinal Vallini e dal cardinal Tauran. Guarda molto per terra, non saluta i cardinali, come se avesse su di sé un peso enorme. Entra in Cappella Paolina, hanno preparato un trono, lui non si siede sul trono, prende con forza i cardinali e li fa sedere con lui sull’ultima panca. Prega in silenzio. A un certo punto il papa si alza, si gira ed esce nella Sala Regia e a quel punto è un altro uomo, un uomo che sorride. È come se avesse consegnato a Dio il peso di questa scelta, e come se Dio gli avesse detto personalmente: «Non preoccuparti, ci sono qui io». È un uomo che non è più cupo, non ha il volto a terra. È un uomo che guarda, è un uomo che certo si domanda anche che cosa deve fare.
A detta di molti, Francesco da allora ha confermato questo racconto, dicendo a un cardinale di avere «sentito un gran senso di pace interiore e libertà invadermi, che non mi ha più lasciato».21
Il papato di Francesco iniziò con un «Buonasera». Sul balcone di piazza San Pietro, alle 20.22, con al fianco i cardinali Hummes e Vallini, si presentò davanti alle duecentomila persone che erano radunate sotto di lui e a milioni di altre persone che lo seguivano alla televisione. In piazza, i telefoni e i tablet lampeggiavano nel buio come stelle scintillanti. Timido ma fermo, parlò al microfono nel suo fluente italiano.
Dicendo scherzosamente che «il dovere del conclave era di dare un vescovo a Roma, e sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo alla fine del mondo», invitò a pregare per «il nostro vescovo emerito Benedetto XVI» e guidò il mondo nella recita di un Padre nostro, un’Ave Maria e un Gloria. Poi disse: «E adesso incominciamo questo cammino. Vescovo e popolo, questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità a tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore e di fiducia tra noi». Ben pochi riconobbero la famosa formula antica «presiedere nella carità», che descriveva la relazione tra la Chiesa universale e la Chiesa locale, o ne comprendeva le implicazioni. La Grande Riforma era stata annunciata.
Ciò che invece la maggior parte della gente ricorda, di quella sera, fu quanto Francesco disse dopo. Egli chiese «la benedizione del popolo per il suo vescovo» e «la preghiera di voi su di me». Chinò la testa in un gesto di grande umiltà, e seguì un profondo silenzio. Con quel toccante gesto di reciprocità si formò un legame durevole. Il nuovo papa cercava la benedizione del santo popolo fedele di Dio prima di impartire la propria urbi et orbi, la benedizione alla città di Roma e al mondo, e «a tutti gli uomini e le donne di buona volontà».
Tornò in compagnia degli elettori alla Casa di Santa Marta, rifiutando la limousine papale per salire con loro in autobus. A cena disse loro: «Dio vi perdoni per quello che avete fatto», il che, come ha riferito il cardinal Dolan, «suscitò un uragano di risate». Il giorno dopo, il primo del suo pontificato, Francesco attraversò Roma su una macchina della polizia vaticana per andare alla basilica di Santa Maria Maggiore, dove arrivò poco dopo le otto di mattina. La basilica ospita un’icona mariana, la Salus populi romani, «Protettrice del popolo romano», attribuita tradizionalmente a san Luca. Francesco lasciò un mazzo di fiori davanti all’immagine, trascorse del tempo nella cappella dove sant’Ignazio di Loyola aveva celebrato la sua prima messa, nel 1538, poi andò a pregare sulla tomba di san Pio V, il papa del XVI secolo il cui abito domenicano aveva inaugurato la tradizione della tonaca bianca papale. Tornando in Vaticano si fermò in via della Scrofa per prendere le sue cose. Salì nella sua stanza, fece personalmente la valigia, poi, davanti allo staff attonito, pagò il conto dicendo che, come papa, doveva dare l’esempio.
Quel pomeriggio, al momento di celebrare messa con i cardinali elettori, li stupì vestendo i paramenti sacri nella sala delle benedizioni con loro, come aveva fatto per tutta la durata del conclave. I maestri di cerimonie gli si affollarono intorno per istruirlo su che cosa fare e quando farlo nella sua prima messa da papa, ma lui li liquidò con uno sguardo, dicendo: «Non importa, non dovete preoccuparvi per me, dico messa da cinquant’anni. Ma statemi vicino, nel caso avessi bisogno di voi». Durante la messa pregò stando in piedi sul pulpito, come un prete di parrocchia, anziché sedendosi sulla sedia, come fanno i papi, e invece di leggere un testo preparato parlò a braccio in perfetto italiano. Predicò, come aveva sempre fatto, per sette o otto minuti, intorno a tre punti chiave: l’importanza del cammino, dell’edificazione e della confessione. «Noi possiamo camminare quanto vogliamo, noi possiamo edificare tante cose, ma, se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va» disse loro. «Diventeremo una ONG assistenziale, ma non la Chiesa, la Sposa del Signore.» Citò anche lo scrittore francese Léon Bloy, cattolico integralista, che aveva letto con i suoi amici della Guardia de hierro negli anni Settanta, là dove diceva: «Colui che non prega il Signore prega il diavolo».
Quella sera entrò negli appartamenti papali, sigillati da quando Benedetto era partito, con l’arcivescovo Georg Gänswein, prefetto della Casa pontificia. Mentre Gänswein armeggiava con l’interruttore della luce, Francesco sbirciò la sua gabbia dorata: sale immense dai pavimenti di marmo e dai mobili massicci. Riconoscendo un senso di desolazione, non vide che solitudine e isolamento in quel luogo e decise seduta stante di rimanere a vivere nella Casa di Santa Marta e usare gli appartamenti papali per gli incontri.
Fece delle telefonate: al suo dentista a Buenos Aires per annullare l’appuntamento, a Daniel del Regno, l’edicolante che gli consegnava tutti i giorni La Nación («Sì, sono davvero Jorge Bergoglio, la chiamo da Roma») per ringraziarlo dei tanti anni di servizio, e alla sua unica sorella sopravvissuta, María Elena. «Mi disse: “Senti, è successo e ho accettato”» ricorda María Elena. «Io dissi: “Ma come stai, come ti senti?”. Scoppiò a ridere e disse: “Sto bene, rilassati”. Dissi: “Avevi un ottimo aspetto in televisione, un’espressione raggiante. Vorrei poterti abbracciare”. Lui disse: “Ci stiamo abbracciando, siamo insieme. Sei molto vicina al mio cuore”. Non è facile spiegare come ci si sente a parlare con il proprio fratello se questo fratello è il papa» racconta María Elena tra il riso e il pianto. «Es muy complicado, è molto complicato.»
Il giorno dopo l’elezione, papa Francesco incontrò l’intero collegio cardinalizio. Quando comparve il cardinal Murphy-O’Connor, lo abbracciò e disse con una risata: «È colpa sua! Che cosa mi ha fatto?».
Il giorno dopo, Francesco incontrò l’intero collegio cardinalizio, compresi i non elettori, nella sala delle benedizioni. Quando comparve il cardinal Murphy-O’Connor, lo abbracciò e, agitando l’indice in segno di rimprovero, disse con una risata: «È colpa sua! Che cosa mi ha fatto?».22
NOTE
4. Dolan, Praying in Rome, cit.
5. Intervista del cardinal O’Malley con padre Tom Rosica, in Salt & Light TV, 4 ottobre 2013.
6. Sono riuscito a parlare con il cardinal Pell di questi temi mentre ero a Sydney, nel maggio del 2013. Si veda anche Il cardinal Pell spera in un papa che sappia governare, in Vatican Insider, 4 marzo 2013. Su Coccopalmerio, si veda Andrea Tornielli, Curia Is on the Firing Line, in Vatican Insider, 6 marzo 2013.
7. La strategia dei curiali fu rivelata dall’articolo di Gerard O’Connell e Andrea Tornielli, Un ticket per votare il primo papa latinoamericano, in Vatican Insider, 2 marzo 2013; il cardinale peruviano Juan Luis Cipriani parlò del sentimento anti-italiano in un’intervista a Vatican Insider del 27 marzo 2013: Questo pontefice è un mistico, ma è anche un uomo di governo.
8. Questi aneddoti provengono sia da fonti del conclave sia da amici di papa Francesco, e chi li ha raccontati ha posto come condizione di conservare l’anonimato.
9. Il resoconto di questa cena è stato fatto dallo staff del Wall Street Journal in Pope Francis: From the End of the Earth to Rome, New York, HarperCollins, 2013, cap. VIII. Si veda anche Cormac Murphy-O’Connor, intervista a The Catholic Herald, 13 settembre 2013. Sul ruolo di Santos Abril y Castelló, si veda Giacomo Galeazzi, Operazione Santa Maria Maggiore, in Vatican Insider, 15 marzo 2013.
10. Nel suo Francesco insieme. La vita, le idee, le parole del papa che cambierà la Chiesa, Milano, Piemme, 2013, cap. III, l’autorevole vaticanista Andrea Tornielli ha detto che dietro Bergoglio non c’erano campagne preorganizzate. Ce n’era una sola.
11. Cardenal Ortega revela palabras del cardenal Bergoglio, in palabranueva.net, 25 marzo 2013.
12. L’arcivescovo Quinn raccontò questa storia a un raduno di sacerdoti tenutosi a St. Louis, in Missouri, il 25 giugno 2014. Si veda Thomas Fox, Quinn to Priest Group, in National Catholic Reporter, 7 luglio 2014.
13. Gianni Valente, in la Repubblica, 15 marzo 2013.
14. Walter Kasper, Barmherzigkeit, Herder, Freiburg, 2012 (trad. it. Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo, Brescia, Queriniana, 2013).
16. Si vedano l’articolo dell’Associated Press, So What Really Happened Inside the Papal Conclave?, 14 marzo 2013, e le memorie di Dolan, Praying in Rome, cit.
17. Che la quinta votazione fosse stata annullata fu rivelato da Elisabetta Piqué in Francisco: vida y revolución, cit., cap. III. Tra gli analisti che hanno descritto l’elezione nei giorni successivi al conclave vi sono Andrea Tornielli de La Stampa, Carlo Marroni de Il Sole 24 ore, Andrés Beltramo di Sacro y Profano, David Gibson di Religion News Service e Giacomo Galeazzi di Vatican Insider.
18. Si veda la classica storia dei conclavi di Francis Burkle-Young, Passing the Keys, Lanham, Madison Books, 2001. Sul conclave del 2005 si vedano John L. Allen, The Rise of Benedict XVI: The Inside Story of How the Pope Was Elected, New York, Doubleday, 2005, e John Travis, The Vatican Diaries, London, Penguin, 2013, cap. I.
19. Papa Francisco dialoga como un hermano más con la CLAR, in origine postato sul sito web cileno Reflexión y Liberación il 26 giugno 2013, e poi rimosso.
20. La croce e la missione, in Papa Francesco, Aprite la mente al vostro cuore, cit., p. 56.
21. Intervista di monsignor Viganò a Salt & Light TV del 4 ottobre 2013. In realtà i cardinali erano Vallini e Hummes, non Vallini e Tauran, come Francesco ha confermato nell’intervista a La Stampa del 14 dicembre 2013 in cui ricordava: «Poco prima di affacciarmi, mi sono inginocchiato a pregare per qualche minuto insieme ai cardinali Vallini e Hummes nella Cappella Paolina» (e padre Tom Rosica lo ha confermato). Della sua ansia e della «grande luce» che poi lo ha invaso Francesco parla con Eugenio Scalfari, de la Repubblica, in un’intervista pubblicata il 1° ottobre 2013. Poiché l’intervista non è stata registrata, Scalfari ha rievocato il loro dialogo a memoria e molti particolari non sono sicuri al cento percento. Ma di quell’esperienza Francesco ha parlato spesso.
22. Murphy-O’Connor, intervista a The Catholic Herald, 13 settembre 2013; María Elena Bergoglio e Daniel del Regno, DVD Rome Reports, Francis: The People’s Pope, cit.
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https://bergoglionate.wordpress.com/2015/01/03/conclave-2013-extra-omnes-spirito-santo-compreso/

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