Il linguaggio parlato e visivo che si sta riversando sull’Orbe cattolico a celebrare prima il Vaticano II e poi papa Francesco è perfettamente sovrapponibile a quello utilizzato dai regimi politici del Novecento: dalle adunate oceaniche al dettaglio che travalica il semplice dato religioso entrando in una vera e propria visione totalitaria.
Martedì 31 marzo 2015
.
E’ pervenuta in Redazione:
.
Caro dott. Gnocchi,
vorrei sottoporle un’idea. Si tratta di un’idea semplice, che parte dal disagio sempre più grande che provo vivendo nella Chiesa dei nostri giorni. Alcune volte, più che un membro del Corpo Mistico di Cristo, mi pare di essere un cittadino di serie B in un totalitarismo novecentesco. Mi sbaglio? E, se non mi sbaglio, come e perché avviene tutto questo?
Un cordiale saluto
Piergiuseppe Nava
.
Caro Nava,
non ha idea di quanto mi piacerebbe risponderle dicendo semplicemente che, sì, si sbaglia. Invece, non si sbaglia affatto. Anzi, lei ha colto perfettamente il nocciolo della questione quando dice che questa Chiesa si presenta sempre di più con tratti simili a quelli di un regime politico: misericordioso, ma totalitario. Ne ha tutte le caratteristiche.
Per esempio, i princìpi trasformati in parole d’ordine per far la guerra ad altri princìpi: pastorale contro dottrina, misericordia contro giustizia, tenerezza contro rigore, dialogo contro asserzione, accoglienza contro conversione, e via di questo passo, in perfetto stile orwelliano, fino a distruggere la cattedrale del pensiero cattolico tradizionale per lasciare erette solo quelle rovine che servono strumentalmente al potere: non a caso non si è mai vista una Chiesa meno misericordiosa della “Chiesa della misericordia”, mai come oggi si manifestano fin nei minimi aspetti le caratteristiche operative più odiose dei regimi totalitari come la delazione, la repressione, l’emarginazione dei cosiddetti dissidenti.
“Perché” sia accaduto tutto questo non è troppo difficile spiegare: la componente umana della Chiesa di questi decenni è permeabile all’azione del Nemico come non lo era mai stata nel passato. Ne è prova il progredire esponenziale della sua mondanizzazione nella dottrina, nella morale, nei costumi. Chi accoglie il mondo, caro Nava, si sottomette al suo Principe.
Diventa più complesso spiegare “come” questo tremendo fenomeno si sia concretizzato. In questo spazio, si possono solo mettere in fila una serie di considerazioni. La prima parte da un concetto che ha ben espresso uno studioso attento e acuto come Enrico Maria Radaelli nel saggio, “Il domani, terribile o radioso, del dogma”: “crisi formale”. La Chiesa soffre una crisi che ne tocca l’intimità dell’“essere” e, senza mutarne l’essenza poiché questo non è possibile, si manifesta in una sorta di “mal d’esistere” che può essere ben spiegata con il concetto di “melancholia”: una tristezza di fondo, una depressione inconsapevole, che porta un soggetto, pur tra sussulti di incomprensibile esaltazione, a vivere passivamente, senza prendere iniziative, adattandosi agli avvenimenti esterni con la convinzione che non lo riguardino o che in essi non possa avere un ruolo determinante.
Si potrebbe definire come il desiderio, in fondo all’anima, di una cosa, di una persona mai conosciute e di cui, comunque, si sente dolorosamente la mancanza e non ci si sente all’altezza. La melancholia si manifesta in espressioni e in atteggiamenti indolenti che caratterizzano spesso l’intera esistenza di un individuo, salvo fugaci momenti di esaltazione in cui l’oggetto del desiderio sembra a un passo dall’essere raggiunto. In questo quadro si spiega l’inedito fenomeno di una Chiesa che si ritiene inadeguata a parlare al mondo e si concepisce come problema.
Caro Nava, basta andare per oratori, parrocchie e curie per convenire che questa è la cifra comune e dominante del mondo cattolico postconciliare. Basta ascoltare un’omelia, leggere un documento, assistere a una liturgia del giorno d’oggi per comprendere che il “mal d’essere” è percepibile ovunque, anche là dove si parla in modo evidentemente forzato di “entusiasmo della fede”.
In tale prospettiva, si può dunque definire “linguaggio melancholico” l’insieme di tutte le modalità espressive che manifestano il “mal d’esistere” che tocca la Chiesa nel suo “essere”, anzi nel suo “essere cattolica”. Per quanto riguarda la sua componente umana, si può dunque parlare, usando in senso traslato il linguaggio della metafisica, di “crisi formale”. Ciò è provato dal fatto che la crisi si manifesta proprio attraverso i due aspetti che devono caratterizzare l’“essere cattolica” della Chiesa, il suo “avere forma cattolica”: la dottrina e liturgia, che vanno considerate anche come forme del linguaggio.
Cara Nava, lei potrebbe obiettare che è contraddittorio parlare di “linguaggio melancholico” a proposito di una Chiesa che nella Messa, la sua più alta forma di espressione, ha sostituito il concetto di sacrificio con quello di festa. Una Chiesa che fa dell’entusiasmo l’unico criterio per misurare la fede. Ma è proprio l’insistere ossessivo sul concetto di festa, il suo intellettualizzarlo, a mostrare che si tratta di un concetto debole, incapace di dare all’uomo ciò che cerca nel rito: il legame vero con il divino. Come sempre, si parla ossessivamente di ciò che non si ha. L’uomo che parla continuamente di festa è colui che è costretto a vivere perennemente nella ferialità celebrando se stesso.
Il momento in cui la malattia, dalla fase di incubazione è passata a quella conclamata, lo si trova nell’istante in cui la Chiesa si autodefinisce “pastorale” rinunciando di fatto a essere “dogmatica”. Ma una Chiesa che non sia “dogmatica” di fatto finisce per non esserlo neanche di principio. Tutto questo si è manifestato subito nel linguaggio, che si è fatto sempre più impreciso, sganciato dalla realtà, onirico, rinunciatario davanti alla vita e al mondo e quindi “melancholico”. L’esatto contrario di quello “dogmatico”, preciso e tagliente, dunque vitale e, sembra strano dirlo al giorno d’oggi, felice.
L’artificioso senso di festa trova la sua massima espressione nelle celebrazioni di anniversari come quello del Vaticano II o nell’esaltazione di figure da “conducador” come papa Francesco. E questo, caro Nava, è il segno caratteristico di quel fenomeno che lei ha sintetizzato in modo così efficace quando lamenta di sentirsi come un cittadino di serie B di una dittatura novecentesca.
Non risulta che si sia celebrato, tanto meno con la modalità e la finalità di oggi, il cinquantesimo anniversario dell’apertura di Efeso, di Nicea, di Costantinopoli, di Trento, del Vaticano I… E il motivo è molto semplice: quei Concili, in quanto emanavano esplicitamente dottrina e quindi impiegavano un “linguaggio dogmatico” e “vitale”, non chiedevano di essere celebrati, ma di essere applicati. Invece, il Vaticano II, in quanto ha emanato modalità di rapporto con il mondo attraverso un “linguaggio pastorale” e “melancholico”, chiede soltanto di essere propagandato e celebrato, come un qualsiasi avvenimento politico o sociale.
Mentre nei Concili precedenti e nel magistero che ne è disceso l’applicazione coincideva e si misurava con l’effettivo cambiamento in meglio nella vita dei cattolici, nel Vaticano II e nel magistero che ne è seguito, l’applicazione coincide con la sua diffusione e il consenso tra cattolici e non cattolici ai quali non è dato un vero motivo per cambiare. Non si innesca più un movimento verso l’alto, ma si punta a una diffusione orizzontale. Come per un fenomeno politico o sociale, non si chiede più la conversione ma l’adesione, non si chiede più la consapevolezza ma l’entusiasmo. Da qui discendono le grandi manifestazioni imposte per via burocratica in cui si chiedono adesione entusiastica proprio a coloro a cui si sono tolti i motivi di entusiasmo e gli strumenti per manifestarlo. Non esiste spettacolo più penoso di un uomo triste che vuole sembrare allegro. Si pensava di dar vita a una Chiesa giovane e, invece, se ne è prodotta una vecchia e malata.
L’epoca moderna, caro Nava, ci ha insegnato che gli avvenimenti politici celebrati nel loro anniversario, solitamente, sono le rivoluzioni, le prese del potere, i colpi di stato: insomma, eventi che hanno sovvertito l’ordine che li precedeva. In questi casi, anche i cosiddetti simposi di approfondimento non contemplano voci difformi e, di fatto, sotto spoglie scientifiche, non sono che megafoni della propaganda. Questo è l’orizzonte mondano nel quale gli uomini di Chiesa hanno scelto di muoversi e per questo lei si sente così a disagio. Il linguaggio parlato e visivo che si sta riversando sull’Orbe cattolico a celebrare prima il Vaticano II e poi papa Francesco è perfettamente sovrapponibile a quello utilizzato dai regimi politici del Novecento: dalle adunate oceaniche al dettaglio che travalica il semplice dato religioso entrando in una vera e propria visione totalitaria.
Per questo motivo, la Chiesa postconciliare si manifesta attraverso due aspetti: la propaganda e la burocrazia, due forme del comunicare tipicamente moderne. È il destino di tutti gli organismi che nascono dalla rivoluzione: dopo la spinta propulsiva, mantengono se stessi attraverso l’azione conservativa propria dell’apparato burocratico a cui vengono iniettate periodiche dosi di entusiasmo tramite cartolina di precetto con le adunate di massa in cui si celebra la nascita di una nuova era. Dopo aver rigettato la categoria di “evento” grazie alla quale il progressismo della scuola di Bologna ha imposto la propria linea nella Chiesa postconciliare, la si canonizza di fatto e di principio attraverso la celebrazione: è evidente che attraverso la tecnica della comunicazione non si può celebrare altro che un “evento”.
Per cui, caro Nava, temo che debba continuare a sentirsi cittadino di serie B ancora per un po’. Sui tempi non me la sento di azzardare previsioni. I regimi del Novecento sembravano imperituri e poi sono crollati improvvisamente su se stessi. In ogni caso, non affliggiamoci, sarà il Signore a decidere quando saremo purificati abbastanza.
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
http://www.riscossacristiana.it/gnocchi-310315/
.
E’ pervenuta in Redazione:
.
Caro dott. Gnocchi,
vorrei sottoporle un’idea. Si tratta di un’idea semplice, che parte dal disagio sempre più grande che provo vivendo nella Chiesa dei nostri giorni. Alcune volte, più che un membro del Corpo Mistico di Cristo, mi pare di essere un cittadino di serie B in un totalitarismo novecentesco. Mi sbaglio? E, se non mi sbaglio, come e perché avviene tutto questo?
Un cordiale saluto
Piergiuseppe Nava
.
Caro Nava,
non ha idea di quanto mi piacerebbe risponderle dicendo semplicemente che, sì, si sbaglia. Invece, non si sbaglia affatto. Anzi, lei ha colto perfettamente il nocciolo della questione quando dice che questa Chiesa si presenta sempre di più con tratti simili a quelli di un regime politico: misericordioso, ma totalitario. Ne ha tutte le caratteristiche.
Per esempio, i princìpi trasformati in parole d’ordine per far la guerra ad altri princìpi: pastorale contro dottrina, misericordia contro giustizia, tenerezza contro rigore, dialogo contro asserzione, accoglienza contro conversione, e via di questo passo, in perfetto stile orwelliano, fino a distruggere la cattedrale del pensiero cattolico tradizionale per lasciare erette solo quelle rovine che servono strumentalmente al potere: non a caso non si è mai vista una Chiesa meno misericordiosa della “Chiesa della misericordia”, mai come oggi si manifestano fin nei minimi aspetti le caratteristiche operative più odiose dei regimi totalitari come la delazione, la repressione, l’emarginazione dei cosiddetti dissidenti.
“Perché” sia accaduto tutto questo non è troppo difficile spiegare: la componente umana della Chiesa di questi decenni è permeabile all’azione del Nemico come non lo era mai stata nel passato. Ne è prova il progredire esponenziale della sua mondanizzazione nella dottrina, nella morale, nei costumi. Chi accoglie il mondo, caro Nava, si sottomette al suo Principe.
Diventa più complesso spiegare “come” questo tremendo fenomeno si sia concretizzato. In questo spazio, si possono solo mettere in fila una serie di considerazioni. La prima parte da un concetto che ha ben espresso uno studioso attento e acuto come Enrico Maria Radaelli nel saggio, “Il domani, terribile o radioso, del dogma”: “crisi formale”. La Chiesa soffre una crisi che ne tocca l’intimità dell’“essere” e, senza mutarne l’essenza poiché questo non è possibile, si manifesta in una sorta di “mal d’esistere” che può essere ben spiegata con il concetto di “melancholia”: una tristezza di fondo, una depressione inconsapevole, che porta un soggetto, pur tra sussulti di incomprensibile esaltazione, a vivere passivamente, senza prendere iniziative, adattandosi agli avvenimenti esterni con la convinzione che non lo riguardino o che in essi non possa avere un ruolo determinante.
Si potrebbe definire come il desiderio, in fondo all’anima, di una cosa, di una persona mai conosciute e di cui, comunque, si sente dolorosamente la mancanza e non ci si sente all’altezza. La melancholia si manifesta in espressioni e in atteggiamenti indolenti che caratterizzano spesso l’intera esistenza di un individuo, salvo fugaci momenti di esaltazione in cui l’oggetto del desiderio sembra a un passo dall’essere raggiunto. In questo quadro si spiega l’inedito fenomeno di una Chiesa che si ritiene inadeguata a parlare al mondo e si concepisce come problema.
Caro Nava, basta andare per oratori, parrocchie e curie per convenire che questa è la cifra comune e dominante del mondo cattolico postconciliare. Basta ascoltare un’omelia, leggere un documento, assistere a una liturgia del giorno d’oggi per comprendere che il “mal d’essere” è percepibile ovunque, anche là dove si parla in modo evidentemente forzato di “entusiasmo della fede”.
In tale prospettiva, si può dunque definire “linguaggio melancholico” l’insieme di tutte le modalità espressive che manifestano il “mal d’esistere” che tocca la Chiesa nel suo “essere”, anzi nel suo “essere cattolica”. Per quanto riguarda la sua componente umana, si può dunque parlare, usando in senso traslato il linguaggio della metafisica, di “crisi formale”. Ciò è provato dal fatto che la crisi si manifesta proprio attraverso i due aspetti che devono caratterizzare l’“essere cattolica” della Chiesa, il suo “avere forma cattolica”: la dottrina e liturgia, che vanno considerate anche come forme del linguaggio.
Cara Nava, lei potrebbe obiettare che è contraddittorio parlare di “linguaggio melancholico” a proposito di una Chiesa che nella Messa, la sua più alta forma di espressione, ha sostituito il concetto di sacrificio con quello di festa. Una Chiesa che fa dell’entusiasmo l’unico criterio per misurare la fede. Ma è proprio l’insistere ossessivo sul concetto di festa, il suo intellettualizzarlo, a mostrare che si tratta di un concetto debole, incapace di dare all’uomo ciò che cerca nel rito: il legame vero con il divino. Come sempre, si parla ossessivamente di ciò che non si ha. L’uomo che parla continuamente di festa è colui che è costretto a vivere perennemente nella ferialità celebrando se stesso.
Il momento in cui la malattia, dalla fase di incubazione è passata a quella conclamata, lo si trova nell’istante in cui la Chiesa si autodefinisce “pastorale” rinunciando di fatto a essere “dogmatica”. Ma una Chiesa che non sia “dogmatica” di fatto finisce per non esserlo neanche di principio. Tutto questo si è manifestato subito nel linguaggio, che si è fatto sempre più impreciso, sganciato dalla realtà, onirico, rinunciatario davanti alla vita e al mondo e quindi “melancholico”. L’esatto contrario di quello “dogmatico”, preciso e tagliente, dunque vitale e, sembra strano dirlo al giorno d’oggi, felice.
L’artificioso senso di festa trova la sua massima espressione nelle celebrazioni di anniversari come quello del Vaticano II o nell’esaltazione di figure da “conducador” come papa Francesco. E questo, caro Nava, è il segno caratteristico di quel fenomeno che lei ha sintetizzato in modo così efficace quando lamenta di sentirsi come un cittadino di serie B di una dittatura novecentesca.
Non risulta che si sia celebrato, tanto meno con la modalità e la finalità di oggi, il cinquantesimo anniversario dell’apertura di Efeso, di Nicea, di Costantinopoli, di Trento, del Vaticano I… E il motivo è molto semplice: quei Concili, in quanto emanavano esplicitamente dottrina e quindi impiegavano un “linguaggio dogmatico” e “vitale”, non chiedevano di essere celebrati, ma di essere applicati. Invece, il Vaticano II, in quanto ha emanato modalità di rapporto con il mondo attraverso un “linguaggio pastorale” e “melancholico”, chiede soltanto di essere propagandato e celebrato, come un qualsiasi avvenimento politico o sociale.
Mentre nei Concili precedenti e nel magistero che ne è disceso l’applicazione coincideva e si misurava con l’effettivo cambiamento in meglio nella vita dei cattolici, nel Vaticano II e nel magistero che ne è seguito, l’applicazione coincide con la sua diffusione e il consenso tra cattolici e non cattolici ai quali non è dato un vero motivo per cambiare. Non si innesca più un movimento verso l’alto, ma si punta a una diffusione orizzontale. Come per un fenomeno politico o sociale, non si chiede più la conversione ma l’adesione, non si chiede più la consapevolezza ma l’entusiasmo. Da qui discendono le grandi manifestazioni imposte per via burocratica in cui si chiedono adesione entusiastica proprio a coloro a cui si sono tolti i motivi di entusiasmo e gli strumenti per manifestarlo. Non esiste spettacolo più penoso di un uomo triste che vuole sembrare allegro. Si pensava di dar vita a una Chiesa giovane e, invece, se ne è prodotta una vecchia e malata.
L’epoca moderna, caro Nava, ci ha insegnato che gli avvenimenti politici celebrati nel loro anniversario, solitamente, sono le rivoluzioni, le prese del potere, i colpi di stato: insomma, eventi che hanno sovvertito l’ordine che li precedeva. In questi casi, anche i cosiddetti simposi di approfondimento non contemplano voci difformi e, di fatto, sotto spoglie scientifiche, non sono che megafoni della propaganda. Questo è l’orizzonte mondano nel quale gli uomini di Chiesa hanno scelto di muoversi e per questo lei si sente così a disagio. Il linguaggio parlato e visivo che si sta riversando sull’Orbe cattolico a celebrare prima il Vaticano II e poi papa Francesco è perfettamente sovrapponibile a quello utilizzato dai regimi politici del Novecento: dalle adunate oceaniche al dettaglio che travalica il semplice dato religioso entrando in una vera e propria visione totalitaria.
Per questo motivo, la Chiesa postconciliare si manifesta attraverso due aspetti: la propaganda e la burocrazia, due forme del comunicare tipicamente moderne. È il destino di tutti gli organismi che nascono dalla rivoluzione: dopo la spinta propulsiva, mantengono se stessi attraverso l’azione conservativa propria dell’apparato burocratico a cui vengono iniettate periodiche dosi di entusiasmo tramite cartolina di precetto con le adunate di massa in cui si celebra la nascita di una nuova era. Dopo aver rigettato la categoria di “evento” grazie alla quale il progressismo della scuola di Bologna ha imposto la propria linea nella Chiesa postconciliare, la si canonizza di fatto e di principio attraverso la celebrazione: è evidente che attraverso la tecnica della comunicazione non si può celebrare altro che un “evento”.
Per cui, caro Nava, temo che debba continuare a sentirsi cittadino di serie B ancora per un po’. Sui tempi non me la sento di azzardare previsioni. I regimi del Novecento sembravano imperituri e poi sono crollati improvvisamente su se stessi. In ogni caso, non affliggiamoci, sarà il Signore a decidere quando saremo purificati abbastanza.
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
“FUORI MODA”. La posta di Alessandro Gnocchi – rubrica del martedì
= = = = = = = = = = = = = = = =
.
Ogni martedì Alessandro Gnocchi risponde alle lettere degli amici lettori. Tutti potranno partecipare indirizzando le loro lettere a info@riscossacristiana.it , con oggetto: “la posta di Alessandro Gnocchi”. Chiediamo ai nostri amici lettere brevi, su argomenti che naturalmente siano di comune interesse. Ogni martedì sarà scelta una lettera per una risposta per esteso ed eventualmente si daranno ad altre lettere risposte brevi. Si cercherà, nei limiti del possibile, di dare risposte a tutti.
.
Il successo di questa rubrica è testimoniato dal numero crescente di lettere che arrivano in redazione. A questo proposito preghiamo gli amici lettori di contenere i propri testi entro un massimo di 800 – 1.000 battute. In tal modo sarà più facile rispondere a più lettere nella stessa settimana. Ringraziamo tutti per la gentile attenzione e collaborazione.
PD
.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.