«Che cos’è la verità?», chiede Ponzio Pilato a Gesù Cristo, piuttosto spazientito, nel corso del processo a carico di quest’ultimo; ma non attende nemmeno la risposta e procede oltre: per lui, uomo pratico e immerso nei suoi problemi politici, poco importano simili questioni di natura squisitamente teoretica.
Ma è proprio vero che l’uomo comune può vivere tranquillamente senza mai porsi una simile domanda? È proprio vero che si tratta di una questione strettamente riservata ai filosofi e a quanti hanno interessi di tipo speculativo, ma sostanzialmente ininfluente per tutti gli altri? Noi non lo crediamo; al contrario, ci sembra cosa ben certa che nessun essere umano può pensare di ignorarla, senza pagare lo scotto di una tale indifferenza.
Cominciamo col domandarci che cosa sia il vero. Vero, rispondiamo, è l’accordo fra la cosa e il giudizio. In questa stanza, ove ora mi trovo, c’è una finestra che guarda verso le montagne: e chiunque entri nella stanza, purché sia fornito della vista, può confermare una simile affermazione; si tratta, pertanto, di una affermazione veritiera. Ma un’affermazione veritiera è anche, per ciò stesso, la verità? No, perché il concetto di verità è più ampio del concetto di “vero”: esso esprime una realtà totale, nella quale ogni singolo dato è integrato a formare un tutto coeso e trasparente, in cui non vi sono zone opache: dunque, non vi sono verità parziali. Una verità non può mai essere parziale, per definizione: una verità è anche, per ciò stesso, “la” verità; viceversa, una cosa vera può coesistere con altre cose non vere, come quando, in un discorso, si può dire una cosa vera, però mescolandola in mezzo ad affermazioni menzognere. Ma la verità non può coesistere con la menzogna senza esserne contaminata, svilita, deformata: senza cessare di essere se stessa. O c’è la verità, oppure c’è la menzogna: l’una esclude l’altra; «tertium non datur».
Dunque, la verità è l’accordo della cosa con il giudizio. Ma quale cosa: il vero o la verità? Qui bisogna fare chiarezza, se si vogliono evitare possibili fraintendimenti. Molti filosofi preferiscono dire che la verità è la concordanza fra il giudizio e la realtà: definizione empirica abbastanza condivisibile; ma, appunto, un po’ troppo empirica. Che cos’è la realtà? La realtà è, nel linguaggio comune, il reale così come esso appare e si manifesta ai nostri sensi e alla nostra ragione. Ma il reale e la realtà sono una stessa e medesima cosa? No: il reale è l’essere, la realtà è la manifestazione dell’essere; dunque l’essere è oggettivo, la realtà è soggettiva. Per il daltonico, il semaforo rosso appare verde: ecco un facile esempio di disaccordo fra la realtà ed il giudizio. Ma il semaforo è rosso o è verde: non può essere in un modo per te e in un altro modo per me. Può apparire in due modi diversi, ma, in se stesso, o è rosso o è verde. Tuttavia, chi lo dice? Che ne sappiamo della cosa in sé? Da Kant in poi, questa è la banale obiezione che si solleva davanti all’affermazione della cosa in sé. Ma la cosa in sé è l’essere, e l’essere non di discute, perché è il fondamento del tutto: niente essere, niente pensiero, niente giudizio, niente soggetti che pensano e che giudicano; niente di niente.
Qui si è fatta una grossa confusione. Nella fretta di gettare in soffitta la teologia e la metafisica, ci si è scordati che senza teologia e senza metafisica non si pensa, si farnetica (e infatti la filosofia di Hegel, il legittimo continuatore di Kant, è tutta una lunga, noiosa, delirante farneticazione, in cui si dice tutto e il contrario di tutto: che l’essere è il nulla e che il nulla è l’essere, per esempio). Senza teologia e senza metafisica, non si emettono giudizi, perché, a rigore, qualunque giudizio può essere smentito e contraddetto da un altro giudizio: e, così facendo, si introduce la pazzia nel mondo. Dopo di che, se si vuol essere coerenti, si dovrebbe gettare nel cestino tutta la filosofia, in quanto tale, senza risparmiare nulla, assolutamente nulla: né la logica, né l’etica, né la politica, né l’estetica: tutto diventa un arbitrio, un azzardo, un gioco assurdo e contraddittorio. Chi sono io, del resto, se nego il mio stesso fondamento, che è l’essere? Nessuno; o forse centomila, come dice Pirandello. Ma allora, lo ripetiamo, meglio lasciar perdere la filosofia, che è la ricerca della verità nella totalità, non in singoli segmenti del reale. Anche perché il reale non può essere segmentato; la realtà può essere segmentata, sminuzzata, sbriciolata; il reale, no. Se si frantuma il reale, lo si falsifica: infatti il reale è una unità, perché è l’essere, e nulla esiste al di fuori di esso.
Del resto, nemmeno se fosse vero che non esiste un io – il che può anche darsi, né vi sono ragioni sufficienti per negarlo a priori -, ma solo, poniamo (come affermano i buddisti Theravada) un flusso continuo di associazioni mentali sempre mutevoli, nemmeno allora cadrebbe il concetto di verità: perché una cosa è dire che essa è difficile da raggiungere, un’altra cosa è negarla. Ora, la verità è un fatto, e coi fatti non si litiga, si cerca di spiegarli: ed è un fatto perché uno almeno dei tanti io di cui si compone, forse, quello che appare come il nostro io complessivo, ne sente il bisogno, e il bisogno della verità presuppone che la verità esista, così come la sete presuppone che esista l’acqua, capace di spegnere quella sete. Dunque, il fatto che vi siano diverse percezioni della realtà non è un argomento contro la verità, ma solo contro la presunzione del giudizio. Il fatto che vi siano giudizi presuntuosi non significa che tutti i giudizi siano falsi: ciò sarebbe come buttare via il bambino insieme ai panni sporchi.
A questo punto bisogna distinguere fra l’essere e l’esistere. Il reale non è formato solo da ciò che esiste, ma da tutto ciò che è esistito e che esisterà, da tutto ciò che potrebbe esistere, da tutto ciò che è pensabile, da tutto ciò cui si applica la copula “essere”: perché l’essere è l’unica cosa reale, sia che le sue manifestazioni appaiano sensibilmente, sia che non appaiano; sia che si esplichino in forma visibile, sia che rimangano allo stato potenziale. L’unica cosa irreale è il non-essere; ma il non-essere non è qualcosa, non è il contrario dell’essere, non possiede uno statuto ontologico, e sia pure in negativo: il non-essere è ciò che non si può nemmeno pensare, perché, nel momento in cui lo si pensa, si pensa pure qualcosa, e sia pure un qualcosa di fantastico e d’illusorio. Non però qualcosa di irreale: ciò che è fantastico, nondimeno, “è”; ed “è”, nel senso che possiede l’essere, anche ciò che appare come fantastico. Proprio per il fatto che una cosa è illusoria, proprio per il fato che una cosa è irreale, appunto per questo quella cosa, invece di non essere, è.
Il non-essere non appartiene a questo tipo di realtà; il non-essere non possiede alcuna realtà; non è una cosa, è un limite: il limite oltre il quale (o prima del quale) il pensiero cessa di esistere, e, con il pensiero, la realtà. La realtà, infatti, esiste in quanto è pensabile; e il reale, che pone le basi della realtà, esiste in quanto esiste qualche cosa. Se non esistesse nulla, non vi sarebbe l’essere, dunque non vi sarebbe alcuna realtà e non vi sarebbe nulla di reale. La realtà è pensabile, ma questo non vuol dire che essa sia, necessariamente, anche pensata. La realtà può anche non essere pensata da alcuno, come un’isola che nessuno ha mai scoperto e che giace dimenticata in un oceano sconosciuto. Però una tale isola è pensabile, dunque potrebbe esistere; e se potrebbe esistere, allora esiste, e sia pure nella mente di colui che la pensa e che la immagina: è un oggetto reale, una cosa reale, e sia pure un oggetto e una cosa del pensiero.
La verità, dunque, è l’accordo fra il reale e il giudizio: diciamo che se esiste un tale accordo, siamo nella verità; se non esiste, siamo nell’errore, nella menzogna, nella falsità. Andiamoci piano col negare che la verità esista, per il fatto che alla mente umana difficilmente essa si presenta nella sua interezza, cioè nella sua effettiva natura. Negare la verità è quasi come negare il reale, perché implica che l’essere o non sia, o non sia per noi: ma se noi siamo, allora noi siamo nell’essere, siamo parte del’essere; e, se noi siamo parte dell’essere, allora siamo nella verità e siamo parte della verità. Ma la verità, abbiamo detto, in se stessa non ha parti, non ha segmenti, non è sezionabile: e questo appunto è il limite del nostro conoscere. Noi siamo nella verità, ma non abbiamo gli strumenti – almeno in via ordinaria – per cogliere contemporaneamente sia noi, che il reale: perciò vediamo la realtà come se vi fossero un dentro e un fuori, un prima e un poi, un io e un tu. Invece nell’essere non vi è alcuna distinzione, non vi è alcuna divisione, non vi è alcuna contraddizione: l’essere è semplice, trasparente, non duale.
Il problema della verità si riduce, pertanto, alla questione del rapporto fra l’ente e l’essere. Se l’ente riconosce la sua derivazione dall’essere, allora il suo giudizio si accorda con il reale; se l’ente si ritiene separato e indipendente dall’essere, o se, addirittura, formula la stramba teoria che non il pensiero derivi dall’essere, ma l’essere dal pensiero (come, appunto, avviene nell’hegelismo), allora si smarrisce nelle nebbie dell’errore. La verità, infatti, non è una cosa, non è un oggetto, ma uno stato o un modo dell’essere: il modo dell’essere che è proprio a quest’ultimo. Il giudizio che si accorda con il modo di essere dell’essere, è veritiero: non in quanto giudizio, soggettivo e dunque soggetto ad errore, ma in quanto riflesso dell’essere medesimo. La verità, in ultima analisi, è contemplazione che contempla se stessa; è l’essere che si coglie nel proprio essere, e, cogliendosi, risplende della propria luce ineffabile.
Di conseguenza, la sola verità è la verità dell’Essere che pensa se stesso; la verità degli enti che pensano l‘essere è, inevitabilmente, una verità filtrata, appannata, sfumata, come quando si contempla un oggetto attraverso una lastra di talco. Non però una verità parziale, perché le verità parziali non esistono; ma una verità sfuocata, perché la visione che è propria dell’ente è pur sempre una visione indiretta, come quella dei prigionieri nella caverna platonica. L’ente non potrebbe nemmeno sostenere la visione dell’essere in se stesso, la visione dell’Essere con la “e” maiuscola: ne resterebbe folgorato, annichilito. Eppure qualche cosa ne riesce a cogliere, una scintilla, un baleno: perché l’ente è pur sempre una manifestazione dell’essere, e, come tale, possiede una stretta relazione con esso, è parte di esso, è un aspetto di esso.
C’è poi un altro aspetto della ricerca della verità, quello che attiene alla giustizia. Giustizia è dare a ciascuna cosa quel che le spetta e riconoscerle quel che le compete; ingiustizia, negarle tale riconoscimento e tale attribuzione. Ora, la verità non è pensabile al di fuori di un criterio di giustizia: nel senso che non si può nemmeno immaginare la ricerca della verità come avulsa dalla giustizia: giustizia che consiste precisamente nel dare alla verità il riconoscimento che le è dovuto, così come nel negarlo alle false credenze che della verità assumono le apparenze e che per essa si spacciano, ma senza appartenerle, anzi, essendone la radicale negazione. Come è possibile cercare la verità, e, nello stesso tempo, non darle il dovuto riconoscimento? Come è possibile genuflettersi davanti a degli idoli, davanti a dei feticci, i quali, della verità, non sono che la triste e fraudolenta mistificazione?
Farsi piccoli e umili davanti alla verità, dunque, è un dovere secondo giustizia; e renderle omaggio è parte del riconoscimento di essa, senza di che noi non saremmo che dei bugiardi o degli illusi. Orbene, è evidente che non si comporta così colui che non dà alla verità quel che le spetta, che non la riconosce, che cerca di adulterarla, di falsificarla, di stravolgerla: in breve, colui che nega la verità dell’essere, per sostituire ad essa la verità degli enti. La verità degli enti è limitata, imperfetta, parziale; la verità dell’essere è la verità totale, incondizionata, perfetta. Qualunque verità, svincolata e separata dall’essere, non è che menzogna o, nel migliore dei casi, illusione e farneticazione, peccato di superbia da parte dell’ente che vuole sostituirsi all’Essere, che vuole farsi il Dio di se stesso, auto-celebrarsi ed auto-glorificarsi. E questo, invero, è il grande pericolo sempre in agguato nella cultura moderna: l’autoaffermazione dell’ente, la sua protervia, la sua “hybris”, che non accetta i limiti creaturali, ma ardisce di parificarsi all’Assoluto.
Torniamo sempre, così, al peccato di superbia, al peccato di Adamo ed Eva: al volersi fare, l’ente, simile e uguale all’essere: a promuoversi, da sé stesso, ad uno statuto ontologico superiore, che non gli compete. Questa è ingiustizia, nel seno teologico del termine: rifiuto di dare a ciascuna cosa ciò che le spetta, di riconoscerle ciò che le compete. Ed è il padre di tutti i peccati, l’origine di ogni altro male morale.
Pertanto, alla domanda: «Che cos’è la verità?», bisogna subito affiancare la domanda: «Che cos’è la giustizia?»; e si può rispondere che le due cose, in ultima analisi, coincidono; e che consistono nel riconoscimento, da parte dell’ente, del proprio statuto ontologico, e dunque della propria condizione creaturale, e nel rapporto di derivazione, di pienezza, di grazia, che lega l’ente all’essere, rapporto che gli conferisce la sua dignità, la sua preziosità, la sua irripetibilità.
Questo, almeno, fino a tanto che l’essere permane nella presente condizione complessiva, legata allo spazio e al tempo. Ma quando i veli cadranno, quando l’ente si sarà liberato dell’involucro della materia, così come la farfalla che è uscita dal bozzolo e ha deposto la sua vecchia veste, allora, ma soltanto allora, l’ente potrà riconoscersi per quello che è e che sempre è stato: un raggio della luce stessa dell’Essere, splendido, eterno, infinito.
di Francesco Lamendola - 19/05/2015Fonte: Arianna editrice
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