Una lettera di Alessandro Gnocchi
Caro Paolo,
per una volta, concedimi il privilegio di stare nei panni del lettore che guarda sconsolato questa nostra povera Chiesa e mette nero su bianco ciò che ha nella testa e nel cuore.
Ora che ho rotto gli indugi con i convenevoli di rito, non so con precisione quando riuscirò a fermarmi e potresti trovarti tra le mani una di quelle lettere chilometriche e ponderose che, di solito, i direttori cercano di scoraggiare e, quando non sono riusciti nell’intento, scansano volentieri passandole a qualche anima pia accompagnandole con il solito “vedi tu cosa si può fare”.
Non so, caro Paolo, che cosa potrai fare con quanto ti ritrovi ora tra le mani. Mi verrebbe da dirti “vedi tu”, anche perché un po’ è colpa tua se ho preso carta, penna e calamaio per scrivere al direttore di “Riscossa Cristiana”. È colpa tua perché non mi poteva lasciare indifferente l’ articolo che lo scorso 6 maggio hai titolato “Il diritto di essere sconcertati” con un sommario che dice: “La telefonata a Emma Bonino, con relativo invito a ‘tenere duro’ (su cosa?) e l’invito in Vaticano per l’incontro con i bambini, seguiti a ruota dalla ‘semplificazione’ dell’assoluzione per il crimine abominevole dell’aborto sono gli ultimi due eventi che altro non fanno che banalizzare un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio, gettando confusione ulteriore in una cristianità smarrita”.
Ti riferivi, come tutti sanno, alle ultime imprese dell’attuale Pontefice. “Ultime” solo nel momento in cui scrivevi, perché ora quelle imprese sono già penultime, terzultime e chissà cos’altro prima che tu decida di pubblicare questa lettera. Ormai abbiamo imparato che, come ogni giorno ha la sua pena, ogni atto di questo pontificato ha il suo colpo di piccone e quindi siamo già ben oltre ciò che ti sconcertava in data 6 maggio 2015. Subito dopo, per esempio, sono venuti l’entusiasmo del vecchio comunista Raul Castro per il nuovo corso bergogliano, l’intervento alla “Fabbrica della Pace” in cui papa Francesco si è ben guardato dallo spiegare che l’unica pace possibile è quella radicata in Cristo, l’oscuramento del sacrificio della Croce operato da un Papa che confida a migliaia di bambini l’impossibilità di trovare una spiegazione alle loro sofferenze, neanche in Dio… E tutto ciò nel giro di appena ventiquattr’ore.
Caro Paolo, il “cattolico qualsiasi” che dici di essere può solo essere sconcertato davanti a un simile spettacolo. E forse sarebbe meglio dire avanspettacolo, se si pensa alle gag, ai siparietti, ai birignao piacioni diffusi in mondovisione che, nel giro di due anni, il mondo cattolico si è abituato a considerare normali. Ma è un avanspettacolo che piace se si tiene conto di quanto è stata strombazzata dai gazzettieri e dai megafoni della misericordia la dichiarazione di Raul Castro di essere tentato di tornare cattolico se il Papa continua sulla strada intrapresa. Due giorni dopo è stata annunciata anche l’intenzione di convertirsi di Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti, ambientalista e abortista convinto in funzione del controllo delle nascite. Anche lui colpito dalle vie nuove intraprese dalla Chiesa con papa Bergoglio. Capisci Paolo? Ormai non interessano più le conversioni vere, quelle che fanno radicalmente cambiare modo di pensare e modo di vivere. La nuova propaganda della Chiesa della misericordia si accontenta delle “intenzioni di conversione”. D’altra parte è quanto basta per andare sui giornali, i quali, ormai, non cercano più notizie, ma solo “intenzioni di notizia”.
Il segno che il dramma è divenuto tragedia alla quale, come annunciavano i cartelloni degli oratori di una volta, “seguirà brillantissima farsa” è inequivocabile: sta nel fatto che quanto sconcerta un “cattolico qualsiasi” come te, salvo eccezioni brutalizzate dal Papa della misericordia, appaia normale a tutti gli altri. Così normale da assumerlo come l’unico modo di “partecipare all’entusiasmo della fede”.
Non so se hai avuto notizia dell’udienza generale di mercoledì 13 maggio. Per inciso, era la festa della Madonna di Fatima, ma questo ormai conta poco. Il tema era quello della famiglia e il Papa venuto dalla fine del mondo ha spiegato che la famiglia si salva dall’aggressione a cui è sottoposta attraverso solo tre parole: permesso, grazie, scusa. Non siamo al “sole, cuore e amore” della briosa Valeria Rossi, ma il livello non cambia.
E questo è ancora niente, perché ora ti trascrivo il finale della cronaca propagato dall’agenzia “Zenit”: “Attenzione, allora, a tutelare queste tre parole-chiave della famiglia, che la nostra educazione spesso ‘trascura’. È vero ‘sono parole semplici, e forse in un primo momento ci fanno sorridere’, ma quando le dimentichiamo, ‘non c’è più niente da ridere’. Francesco invita pertanto tutti i fedeli che gremiscono la piazza a ripetere insieme ‘permesso, grazie, scusa’, quasi come una preghiera al Signore affinché ‘ci aiuti a rimetterle al giusto posto, nel nostro cuore, nella nostra casa, e anche nella nostra convivenza civile’”.
Proprio così, caro Paolo, un gigantesco Flash Mob guidato dal Vicario di Cristo e recitare le tre parole magiche “permesso, grazie, scusa”. E l’agenzia “Zenit” spiega senza ritegno che tutto questo spettacolo è “quasi come una preghiera”. E tu pensi ancora di ottenere attenzione dicendoti sconcertato. In questa Chiesa, non c’è più posto per i relitti come te, come me, come coloro che si ostinano ancora a essere cattolico nell’unico modo possibile, che è quello di sempre. Non c’è tolleranza per coloro che intendono rimanere fedeli a una dottrina e a una morale che non possono cambiare, perché altrimenti muterebbe la fede. E intendono farlo anche quando i più alti gradi della gerarchia le modificano utilizzando il truffaldino grimaldello delle esigenze pastorali.
In questa Chiesa, e naturalmente mi riferisco alla miseria della sua componente umana di cui anche noi siamo parte, si è formato quello che nel parlamento italiano degli Anni 70 veniva chiamato “arco costituzionale”. Te lo ricordi? Era quell’invenzione oltre il limite della delinquenza politica che escludeva in via di fatto dalla vita parlamentare partiti regolarmente votati in via di principio durante le elezioni. A voler usare il linguaggio ecclesiale contemporaneo, era una sorta di espediente pastorale fondato sulle esigenze del momento che permetteva di aggirare la dottrina.
Nella Chiesa di oggi avviene qualcosa di simile. Esiste una sorta di “arco costituzionale della misericordia” che va da sinistra a destra, se mi passi i termini politici, pensato per escludere coloro che a destra si spingono un po’ troppo. Basta un passo verso sinistra e, da reietti che si era, si entra a far parte del consesso civile con tanto di prebende e di riconoscimenti. Per chi non si adegua non c’è posto. Salvo che lo decida, motu proprio, il generalissimo, non per una questione di giustizia, ma per un eccesso di bontà: estremo gesto di disprezzo nei confronti della verità che nulla ha di cattolico.
Caro Paolo, non hai solo il diritto, ma il dovere di sentirti sconcertato e hai l’obbligo di dirlo, pena il risponderne a Nostro Signore nel giorno del giudizio, perché allora non saremo protagonisti di un grande Falsh Mob, ma ci troveremo davanti al tribunale che deciderà il nostro destino eterno: paradiso, quasi certamente via purgatorio, o inferno. L’alternativa continua a essere questa anche se venisse negata da tutti gli uomini.
Insomma, fai bene a sentirti sconcertato, ma sappi che la gran parte di coloro che, sbagliando, ritengono ancora di essere cattolici la pensa diversamente. Perché questo Papa è ciò che si merita questa Chiesa: uno si rispecchia nell’altra. Basta pensare alla quantità di megafoni del magistero, che da destra a sinistra, in ogni dove dell’arco costituzionale della misericordia, danno corpo al “grande dogma collettivo” rappresentato dall’icona di papa Francesco. La Chiesa di sempre è occupata da una “Nuova Chiesa” che ha una sua dottrina, una sua morale un suo rito e, quindi, una sua fede. Se per certi aspetti questa fede è simile a quella cattolica, non lo è in tutto, non lo è nell’essenziale e quindi è altro dal cattolicesimo e noi non possiamo starci.
Mi dirai che sto esagerando. Ma ti prego di pensare a quanto sta avvenendo con questo pontificato, che rappresenta indubbiamente un salto di livello rispetto a quelli precedenti, tutt’altro che immacolati. Non c’è proprio nulla di colloquiale o di pastorale o di magisterialmente non rilevante in quanto viene dalle omelie o dai discorsi a tavola di Santa Marta, dai viaggi transoceanici o da quelli fuori porta, dalle interviste alla stampa libertina e a quella di regime, dai balletti cheek to cheek con i leader del radicalismo abortista ed eutanasico e i relitti del comunismo irriducibile. Tutto quanto fa e dice l’icona di “papa Francesco” è, ipso facto, indiscutibile, pena la scomunica. Il “dogmatizzatore collettivo”, sottocategoria del “giornalista collettivo”, non ammette notizie o interpretazioni fuori registro.
So di ripetermi, caro Paolo, ma il concetto mi pare cruciale: questo Papa è l’espressione più autentica della Chiesa di questi tempi in cui il mondo sta lavorando alacremente per il suo principe. Sarebbe cieco chi volesse negare la grande sintonia di Francesco con il popolo di Dio, un “popolo che mai sbaglia”, come lui stesso ha detto durante l’ultimo viaggio in Asia. E non potrebbe essere altrimenti, visto che su quel popolo gli agenti della discontinuità stanno lavorando da almeno cinquant’anni.
Bergoglio è arrivato a soddisfare le attese di cattolici preparati attraverso un’attività capillare, svolta diocesi per diocesi, parrocchia per parrocchia, chiesa per chiesa, aula di catechismo per aula di catechismo. Un lavorìo sapiente che si è ben guardato dal diffondere la nuova vulgata attraverso i tomi indigesti della nouvelle théologie, ma ha puntato sull’arma più efficace della propaganda.
Non penso di farti uno sgarbo, Paolo, se ti ricordo il decennio in più che hai sul groppone rispetto a me. Lo faccio solo perché anche tu hai visto all’opera la diabolica propaganda che, in due decenni ha smantellato un apparato dottrinale morale che pareva inattaccabile. Mi riferisco al successo di quelle canzonette che, insieme alla devastazione liturgica, hanno trasformato le Messe in tanti bivacchi del “Tuo popolo in cammino”.
Buttato a mare il gregoriano e ridicolizzati “Noi vogliam Dio” e “Mira il tuo popolo”, a partire da metà Anni Sessanta, hanno iniziato a circolare nuovi canzonieri che mostravano quale sarebbe stata la chiesa della Nuova Pentecoste. Improvvisamente, tutti si sono messi a cantare che “Nella Chiesa del Signore tutti gli uomini verranno/ se bussando alla sua porta /solo amore troveranno/”. Questo perché: “Quando Pietro, gli Apostoli e i fedeli/ vivevano la vera comunione/ mettevano in comune i loro beni/ e non v’era fra loro distinzione/ E noi che ci sentiamo Chiesa viva/ desideriamo con ardente impegno/ riprendere la strada primitiva/ secondo l’evangelico disegno”. Lo cantavano anche quei signori maturi, padri o madri di dieci o quindici figli, che non capivano bene quale fosse “l’evangelico disegno”, ma, intanto, lo diffondevano sulla fiducia. Così che anche loro, nel torno di pochi anni, si sarebbero trovati a costruire una “Chiesa di mattoni no/ chiesa di persone sì/ Siamo noi/ Siamo noi./ Sopra quella pietra/ che si chiama Pietro/ ieri la fondò il Signor/ oggi siamo noi quelle pietre vive/ che la costruiamo ancor”.
Solo due esempi tra i tanti che vedevano la Madonna, “Santa Maria del cammino”, come pasionaria della Nuova Chiesa, oppure come “Giovane donna” annuncio di un paradiso new age “attesa dell’umanità, desiderio d’amore e pura libertà”. E poi i santi come nuovi ribelli e liberatori del “popolo in cammino” bivaccante nelle chiese e negli oratori.
Li hanno cantati tutti, nonni, genitori e giovani pionieri fino a quando hanno finito per crederci: la propaganda è una scienza precisa perché si fonda su meccanismi elementari e difficilmente sbaglia. Alla fine, il popolo in cammino ha incontrato il capo che attendeva da tempo oscurando tutti i suoi predecessori postconciliari, sempre un po’ troppo legati alla vecchia immagine del pontefice: Paolo VI un po’ troppo ieratico, Giovanni Paolo II un po’ troppo moralista, Benedetto XVI un po’ troppo teologo.
Evidentemente, ora serve un papa gesuita, capace di destreggiarsi tra affermazioni, toppe e ritrattazioni. Capace di parlare con un linguaggio drammaticamente solo umano a un popolo di Dio che non vuol più sentir parlare di Dio perché è troppo faticoso.
Ma questa logica troppo umana, anche se dovesse affrontare tutti gli affanni del mondo, non troverebbe il bandolo per porre riparo al vero male, che si chiama peccato: un concetto così poco mondano da non richiedere rimedi, ma quella che l’ascetica cristiana, fin dai padri del deserto chiama “riparazione”. Scriveva in proposito don Divo Barsotti nel 1962: “Dio è amore. La riparazione di fatto è veramente l’atto supremo dell’amore, sia in quanto è diretto verso i fratelli, sia in quanto è ordinato a Dio. La Redenzione è l’atto supremo dell’amore; di fatto, Dio ci ha manifestato il suo amore nella morte sulla Croce. E noi non siamo cristiani che in quanto amiamo, e non amiamo che in quanto ci sentiamo impegnati a espiare per tutti. Questa è l’attività più alta del cristiano. Avremmo fatto ben poco quando avessimo assistito tutti i malati, soccorso tutti i poveri, educato tutti gli ignoranti. Che cos’è una carità che lenisca tutti i dolori degli uomini, se poi questi debbono morire? La nostra carità differisce la rovina ultima, ma non la evita, è perciò una carità inefficace. La morte non si può abolire. Carità più grande è invece quella che immediatamente opera la salvezza soprannaturale, unendo gli uomini a Dio”. Ed essere uniti a Dio, dice Barsotti, vuol dire “appartenere al corpo di Cristo attraverso il battesimo”.
Non sembra questa la prospettiva in cui papa Bergoglio ha collocato il suo pontificato. Non a caso, durante la permanenza nello Sri Lanka, ha compiuto l’elogio dell’interreligiosità, un concetto che poco o nulla ha a che fare con Cristo e il suo annuncio, con il monito evangelico in cui Gesù dice “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato”. L’orizzonte di Francesco, dal suo discorrere, sembra ben altro: “Poi, ieri io ho visto una cosa che mai avrei pensato a Madhu: non c’erano solo cattolici, c’erano buddisti, islamici, induisti e tutti vanno lì a pregare e dicono che ricevono grazie. C’è nel popolo, che mai sbaglia, qualcosa che li unisce e se loro sono così tanto naturalmente uniti da andare insieme a pregare in un tempio che è cristiano ma non solo cristiano… Come potevo io non andare al tempio buddista? Quello che è successo a Madhu è molto importante, c’è il senso di interreligiosità che si vive nello Sri Lanka. Ci sono dei gruppetti fondamentalisti, ma non sono col popolo, sono élites teologiche… Una volta si diceva che i buddisti andavano all’inferno? Ma anche i protestanti, quando io ero bambino, andavano all’inferno, così ci insegnavano. E ricordo la prima esperienza che ho avuto di ecumenismo: avevo quattro o cinque anni e andavo per strada con mia nonna, che mi teneva per mano, e sull’altro marciapiede arrivavano due donne dell’Esercito della salvezza, con quel cappello che oggi non portano più e con quel fiocco. Io chiesi: dimmi nonna, quelle sono suore? E lei mi ha risposto: no, sono protestanti, ma sono buone! E’ stata la prima volta che io ho sentito parlare bene di persone appartenenti alle altre confessioni. La Chiesa è cresciuta tanto nel rispetto delle altre religioni, il Concilio Vaticano II ha parlato del rispetto per i loro valori. Ci sono stati tempi oscuri nella storia della Chiesa, dobbiamo dirlo senza vergogna, perché anche noi siamo in un cammino, questa interreligiosità è una grazia”.
Caro Paolo, l’interreligiosità proclamata come grazia senza tentennamento alcuno dal Vicario di Cristo e in termini così espliciti ed elementari da non lasciare spazio a sfumature è un inedito inquietante. Non si era mai visto un pontefice che definisce apertamente una grazia quella di non appartenere a Nostro Signore.
Se questo è lo scenario nel quale ci muoviamo dovrai scrivere molti altri articoli per dire ad alta voce il tuo sconcerto di “cattolico qualsiasi”. L’augurio che ti faccio, caro Paolo, è quello di non stancarti perché, fino a quando ci sarà anche solo un “cattolico qualsiasi” a testimoniare la verità, non avranno vinto.
Un abbraccio
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
per una volta, concedimi il privilegio di stare nei panni del lettore che guarda sconsolato questa nostra povera Chiesa e mette nero su bianco ciò che ha nella testa e nel cuore.
Ora che ho rotto gli indugi con i convenevoli di rito, non so con precisione quando riuscirò a fermarmi e potresti trovarti tra le mani una di quelle lettere chilometriche e ponderose che, di solito, i direttori cercano di scoraggiare e, quando non sono riusciti nell’intento, scansano volentieri passandole a qualche anima pia accompagnandole con il solito “vedi tu cosa si può fare”.
Non so, caro Paolo, che cosa potrai fare con quanto ti ritrovi ora tra le mani. Mi verrebbe da dirti “vedi tu”, anche perché un po’ è colpa tua se ho preso carta, penna e calamaio per scrivere al direttore di “Riscossa Cristiana”. È colpa tua perché non mi poteva lasciare indifferente l’ articolo che lo scorso 6 maggio hai titolato “Il diritto di essere sconcertati” con un sommario che dice: “La telefonata a Emma Bonino, con relativo invito a ‘tenere duro’ (su cosa?) e l’invito in Vaticano per l’incontro con i bambini, seguiti a ruota dalla ‘semplificazione’ dell’assoluzione per il crimine abominevole dell’aborto sono gli ultimi due eventi che altro non fanno che banalizzare un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio, gettando confusione ulteriore in una cristianità smarrita”.
Ti riferivi, come tutti sanno, alle ultime imprese dell’attuale Pontefice. “Ultime” solo nel momento in cui scrivevi, perché ora quelle imprese sono già penultime, terzultime e chissà cos’altro prima che tu decida di pubblicare questa lettera. Ormai abbiamo imparato che, come ogni giorno ha la sua pena, ogni atto di questo pontificato ha il suo colpo di piccone e quindi siamo già ben oltre ciò che ti sconcertava in data 6 maggio 2015. Subito dopo, per esempio, sono venuti l’entusiasmo del vecchio comunista Raul Castro per il nuovo corso bergogliano, l’intervento alla “Fabbrica della Pace” in cui papa Francesco si è ben guardato dallo spiegare che l’unica pace possibile è quella radicata in Cristo, l’oscuramento del sacrificio della Croce operato da un Papa che confida a migliaia di bambini l’impossibilità di trovare una spiegazione alle loro sofferenze, neanche in Dio… E tutto ciò nel giro di appena ventiquattr’ore.
Caro Paolo, il “cattolico qualsiasi” che dici di essere può solo essere sconcertato davanti a un simile spettacolo. E forse sarebbe meglio dire avanspettacolo, se si pensa alle gag, ai siparietti, ai birignao piacioni diffusi in mondovisione che, nel giro di due anni, il mondo cattolico si è abituato a considerare normali. Ma è un avanspettacolo che piace se si tiene conto di quanto è stata strombazzata dai gazzettieri e dai megafoni della misericordia la dichiarazione di Raul Castro di essere tentato di tornare cattolico se il Papa continua sulla strada intrapresa. Due giorni dopo è stata annunciata anche l’intenzione di convertirsi di Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti, ambientalista e abortista convinto in funzione del controllo delle nascite. Anche lui colpito dalle vie nuove intraprese dalla Chiesa con papa Bergoglio. Capisci Paolo? Ormai non interessano più le conversioni vere, quelle che fanno radicalmente cambiare modo di pensare e modo di vivere. La nuova propaganda della Chiesa della misericordia si accontenta delle “intenzioni di conversione”. D’altra parte è quanto basta per andare sui giornali, i quali, ormai, non cercano più notizie, ma solo “intenzioni di notizia”.
Il segno che il dramma è divenuto tragedia alla quale, come annunciavano i cartelloni degli oratori di una volta, “seguirà brillantissima farsa” è inequivocabile: sta nel fatto che quanto sconcerta un “cattolico qualsiasi” come te, salvo eccezioni brutalizzate dal Papa della misericordia, appaia normale a tutti gli altri. Così normale da assumerlo come l’unico modo di “partecipare all’entusiasmo della fede”.
Non so se hai avuto notizia dell’udienza generale di mercoledì 13 maggio. Per inciso, era la festa della Madonna di Fatima, ma questo ormai conta poco. Il tema era quello della famiglia e il Papa venuto dalla fine del mondo ha spiegato che la famiglia si salva dall’aggressione a cui è sottoposta attraverso solo tre parole: permesso, grazie, scusa. Non siamo al “sole, cuore e amore” della briosa Valeria Rossi, ma il livello non cambia.
E questo è ancora niente, perché ora ti trascrivo il finale della cronaca propagato dall’agenzia “Zenit”: “Attenzione, allora, a tutelare queste tre parole-chiave della famiglia, che la nostra educazione spesso ‘trascura’. È vero ‘sono parole semplici, e forse in un primo momento ci fanno sorridere’, ma quando le dimentichiamo, ‘non c’è più niente da ridere’. Francesco invita pertanto tutti i fedeli che gremiscono la piazza a ripetere insieme ‘permesso, grazie, scusa’, quasi come una preghiera al Signore affinché ‘ci aiuti a rimetterle al giusto posto, nel nostro cuore, nella nostra casa, e anche nella nostra convivenza civile’”.
Proprio così, caro Paolo, un gigantesco Flash Mob guidato dal Vicario di Cristo e recitare le tre parole magiche “permesso, grazie, scusa”. E l’agenzia “Zenit” spiega senza ritegno che tutto questo spettacolo è “quasi come una preghiera”. E tu pensi ancora di ottenere attenzione dicendoti sconcertato. In questa Chiesa, non c’è più posto per i relitti come te, come me, come coloro che si ostinano ancora a essere cattolico nell’unico modo possibile, che è quello di sempre. Non c’è tolleranza per coloro che intendono rimanere fedeli a una dottrina e a una morale che non possono cambiare, perché altrimenti muterebbe la fede. E intendono farlo anche quando i più alti gradi della gerarchia le modificano utilizzando il truffaldino grimaldello delle esigenze pastorali.
In questa Chiesa, e naturalmente mi riferisco alla miseria della sua componente umana di cui anche noi siamo parte, si è formato quello che nel parlamento italiano degli Anni 70 veniva chiamato “arco costituzionale”. Te lo ricordi? Era quell’invenzione oltre il limite della delinquenza politica che escludeva in via di fatto dalla vita parlamentare partiti regolarmente votati in via di principio durante le elezioni. A voler usare il linguaggio ecclesiale contemporaneo, era una sorta di espediente pastorale fondato sulle esigenze del momento che permetteva di aggirare la dottrina.
Nella Chiesa di oggi avviene qualcosa di simile. Esiste una sorta di “arco costituzionale della misericordia” che va da sinistra a destra, se mi passi i termini politici, pensato per escludere coloro che a destra si spingono un po’ troppo. Basta un passo verso sinistra e, da reietti che si era, si entra a far parte del consesso civile con tanto di prebende e di riconoscimenti. Per chi non si adegua non c’è posto. Salvo che lo decida, motu proprio, il generalissimo, non per una questione di giustizia, ma per un eccesso di bontà: estremo gesto di disprezzo nei confronti della verità che nulla ha di cattolico.
Caro Paolo, non hai solo il diritto, ma il dovere di sentirti sconcertato e hai l’obbligo di dirlo, pena il risponderne a Nostro Signore nel giorno del giudizio, perché allora non saremo protagonisti di un grande Falsh Mob, ma ci troveremo davanti al tribunale che deciderà il nostro destino eterno: paradiso, quasi certamente via purgatorio, o inferno. L’alternativa continua a essere questa anche se venisse negata da tutti gli uomini.
Insomma, fai bene a sentirti sconcertato, ma sappi che la gran parte di coloro che, sbagliando, ritengono ancora di essere cattolici la pensa diversamente. Perché questo Papa è ciò che si merita questa Chiesa: uno si rispecchia nell’altra. Basta pensare alla quantità di megafoni del magistero, che da destra a sinistra, in ogni dove dell’arco costituzionale della misericordia, danno corpo al “grande dogma collettivo” rappresentato dall’icona di papa Francesco. La Chiesa di sempre è occupata da una “Nuova Chiesa” che ha una sua dottrina, una sua morale un suo rito e, quindi, una sua fede. Se per certi aspetti questa fede è simile a quella cattolica, non lo è in tutto, non lo è nell’essenziale e quindi è altro dal cattolicesimo e noi non possiamo starci.
Mi dirai che sto esagerando. Ma ti prego di pensare a quanto sta avvenendo con questo pontificato, che rappresenta indubbiamente un salto di livello rispetto a quelli precedenti, tutt’altro che immacolati. Non c’è proprio nulla di colloquiale o di pastorale o di magisterialmente non rilevante in quanto viene dalle omelie o dai discorsi a tavola di Santa Marta, dai viaggi transoceanici o da quelli fuori porta, dalle interviste alla stampa libertina e a quella di regime, dai balletti cheek to cheek con i leader del radicalismo abortista ed eutanasico e i relitti del comunismo irriducibile. Tutto quanto fa e dice l’icona di “papa Francesco” è, ipso facto, indiscutibile, pena la scomunica. Il “dogmatizzatore collettivo”, sottocategoria del “giornalista collettivo”, non ammette notizie o interpretazioni fuori registro.
So di ripetermi, caro Paolo, ma il concetto mi pare cruciale: questo Papa è l’espressione più autentica della Chiesa di questi tempi in cui il mondo sta lavorando alacremente per il suo principe. Sarebbe cieco chi volesse negare la grande sintonia di Francesco con il popolo di Dio, un “popolo che mai sbaglia”, come lui stesso ha detto durante l’ultimo viaggio in Asia. E non potrebbe essere altrimenti, visto che su quel popolo gli agenti della discontinuità stanno lavorando da almeno cinquant’anni.
Bergoglio è arrivato a soddisfare le attese di cattolici preparati attraverso un’attività capillare, svolta diocesi per diocesi, parrocchia per parrocchia, chiesa per chiesa, aula di catechismo per aula di catechismo. Un lavorìo sapiente che si è ben guardato dal diffondere la nuova vulgata attraverso i tomi indigesti della nouvelle théologie, ma ha puntato sull’arma più efficace della propaganda.
Non penso di farti uno sgarbo, Paolo, se ti ricordo il decennio in più che hai sul groppone rispetto a me. Lo faccio solo perché anche tu hai visto all’opera la diabolica propaganda che, in due decenni ha smantellato un apparato dottrinale morale che pareva inattaccabile. Mi riferisco al successo di quelle canzonette che, insieme alla devastazione liturgica, hanno trasformato le Messe in tanti bivacchi del “Tuo popolo in cammino”.
Buttato a mare il gregoriano e ridicolizzati “Noi vogliam Dio” e “Mira il tuo popolo”, a partire da metà Anni Sessanta, hanno iniziato a circolare nuovi canzonieri che mostravano quale sarebbe stata la chiesa della Nuova Pentecoste. Improvvisamente, tutti si sono messi a cantare che “Nella Chiesa del Signore tutti gli uomini verranno/ se bussando alla sua porta /solo amore troveranno/”. Questo perché: “Quando Pietro, gli Apostoli e i fedeli/ vivevano la vera comunione/ mettevano in comune i loro beni/ e non v’era fra loro distinzione/ E noi che ci sentiamo Chiesa viva/ desideriamo con ardente impegno/ riprendere la strada primitiva/ secondo l’evangelico disegno”. Lo cantavano anche quei signori maturi, padri o madri di dieci o quindici figli, che non capivano bene quale fosse “l’evangelico disegno”, ma, intanto, lo diffondevano sulla fiducia. Così che anche loro, nel torno di pochi anni, si sarebbero trovati a costruire una “Chiesa di mattoni no/ chiesa di persone sì/ Siamo noi/ Siamo noi./ Sopra quella pietra/ che si chiama Pietro/ ieri la fondò il Signor/ oggi siamo noi quelle pietre vive/ che la costruiamo ancor”.
Solo due esempi tra i tanti che vedevano la Madonna, “Santa Maria del cammino”, come pasionaria della Nuova Chiesa, oppure come “Giovane donna” annuncio di un paradiso new age “attesa dell’umanità, desiderio d’amore e pura libertà”. E poi i santi come nuovi ribelli e liberatori del “popolo in cammino” bivaccante nelle chiese e negli oratori.
Li hanno cantati tutti, nonni, genitori e giovani pionieri fino a quando hanno finito per crederci: la propaganda è una scienza precisa perché si fonda su meccanismi elementari e difficilmente sbaglia. Alla fine, il popolo in cammino ha incontrato il capo che attendeva da tempo oscurando tutti i suoi predecessori postconciliari, sempre un po’ troppo legati alla vecchia immagine del pontefice: Paolo VI un po’ troppo ieratico, Giovanni Paolo II un po’ troppo moralista, Benedetto XVI un po’ troppo teologo.
Evidentemente, ora serve un papa gesuita, capace di destreggiarsi tra affermazioni, toppe e ritrattazioni. Capace di parlare con un linguaggio drammaticamente solo umano a un popolo di Dio che non vuol più sentir parlare di Dio perché è troppo faticoso.
Ma questa logica troppo umana, anche se dovesse affrontare tutti gli affanni del mondo, non troverebbe il bandolo per porre riparo al vero male, che si chiama peccato: un concetto così poco mondano da non richiedere rimedi, ma quella che l’ascetica cristiana, fin dai padri del deserto chiama “riparazione”. Scriveva in proposito don Divo Barsotti nel 1962: “Dio è amore. La riparazione di fatto è veramente l’atto supremo dell’amore, sia in quanto è diretto verso i fratelli, sia in quanto è ordinato a Dio. La Redenzione è l’atto supremo dell’amore; di fatto, Dio ci ha manifestato il suo amore nella morte sulla Croce. E noi non siamo cristiani che in quanto amiamo, e non amiamo che in quanto ci sentiamo impegnati a espiare per tutti. Questa è l’attività più alta del cristiano. Avremmo fatto ben poco quando avessimo assistito tutti i malati, soccorso tutti i poveri, educato tutti gli ignoranti. Che cos’è una carità che lenisca tutti i dolori degli uomini, se poi questi debbono morire? La nostra carità differisce la rovina ultima, ma non la evita, è perciò una carità inefficace. La morte non si può abolire. Carità più grande è invece quella che immediatamente opera la salvezza soprannaturale, unendo gli uomini a Dio”. Ed essere uniti a Dio, dice Barsotti, vuol dire “appartenere al corpo di Cristo attraverso il battesimo”.
Non sembra questa la prospettiva in cui papa Bergoglio ha collocato il suo pontificato. Non a caso, durante la permanenza nello Sri Lanka, ha compiuto l’elogio dell’interreligiosità, un concetto che poco o nulla ha a che fare con Cristo e il suo annuncio, con il monito evangelico in cui Gesù dice “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato”. L’orizzonte di Francesco, dal suo discorrere, sembra ben altro: “Poi, ieri io ho visto una cosa che mai avrei pensato a Madhu: non c’erano solo cattolici, c’erano buddisti, islamici, induisti e tutti vanno lì a pregare e dicono che ricevono grazie. C’è nel popolo, che mai sbaglia, qualcosa che li unisce e se loro sono così tanto naturalmente uniti da andare insieme a pregare in un tempio che è cristiano ma non solo cristiano… Come potevo io non andare al tempio buddista? Quello che è successo a Madhu è molto importante, c’è il senso di interreligiosità che si vive nello Sri Lanka. Ci sono dei gruppetti fondamentalisti, ma non sono col popolo, sono élites teologiche… Una volta si diceva che i buddisti andavano all’inferno? Ma anche i protestanti, quando io ero bambino, andavano all’inferno, così ci insegnavano. E ricordo la prima esperienza che ho avuto di ecumenismo: avevo quattro o cinque anni e andavo per strada con mia nonna, che mi teneva per mano, e sull’altro marciapiede arrivavano due donne dell’Esercito della salvezza, con quel cappello che oggi non portano più e con quel fiocco. Io chiesi: dimmi nonna, quelle sono suore? E lei mi ha risposto: no, sono protestanti, ma sono buone! E’ stata la prima volta che io ho sentito parlare bene di persone appartenenti alle altre confessioni. La Chiesa è cresciuta tanto nel rispetto delle altre religioni, il Concilio Vaticano II ha parlato del rispetto per i loro valori. Ci sono stati tempi oscuri nella storia della Chiesa, dobbiamo dirlo senza vergogna, perché anche noi siamo in un cammino, questa interreligiosità è una grazia”.
Caro Paolo, l’interreligiosità proclamata come grazia senza tentennamento alcuno dal Vicario di Cristo e in termini così espliciti ed elementari da non lasciare spazio a sfumature è un inedito inquietante. Non si era mai visto un pontefice che definisce apertamente una grazia quella di non appartenere a Nostro Signore.
Se questo è lo scenario nel quale ci muoviamo dovrai scrivere molti altri articoli per dire ad alta voce il tuo sconcerto di “cattolico qualsiasi”. L’augurio che ti faccio, caro Paolo, è quello di non stancarti perché, fino a quando ci sarà anche solo un “cattolico qualsiasi” a testimoniare la verità, non avranno vinto.
Un abbraccio
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
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