La ricorrenza sta passando sotto silenzio, ma quest’anno si compiono otto secoli da uno dei più importanti concili medievali, il Concilio Lateranense IV (11-30 novembre 1215), celebrato sotto papa Innocenzo III (1198-1216). Più noto per aver stabilito il precetto pasquale, consacrato la nozione di transustanziazione e proibito nuovi ordini religiosi rimandando le nuove fondazioni ad una delle regole esistenti (cosa che non impedì al Papa dell’epoca e al successore, Gregorio IX, di approvare l’Ordine francescano), esso lanciò la crociata contro l’eresia catara, riedizione aggiornata del manicheismo, e condannò le tesi di Gioacchino da Fiore, prodromo dello spiritualismo utopico. Ma ciò che lo rende ancora più inviso all’attuale sensibilità ecclesiale sono i decreti riguardanti gli Ebrei, in particolare quelli che sanciscono la loro esclusione dalle cariche pubbliche e il divieto di uscire di casa durante il Triduo pasquale.
Enunciato così, il fatto può suonare odioso e immotivato. Se invece ci si prende la briga di leggere i testi, disponibili in qualsiasi edizione dei concili ecumenici, ci si può agevolmente rendere conto dei seri motivi che condussero all’approvazione di tali decreti. I fedeli cristiani, in effetti, avevano bisogno di essere tutelati dalle angherie e dai soprusi inflitti da giudici o amministratori che favorivano gli interessi dei propri correligionari, nonostante fossero una ristretta minoranza. Ogni venerdì sera, poi, l’ingresso nello Shabbat veniva celebrato con una festosa processione, fra canti e danze in abito da festa, dalla sinagoga alle case dei circoncisi; inutile dire che questo, nel venerdì più sacro dell’anno, era percepito dai cristiani come un’intollerabile insulto al loro Salvatore crocifisso e poteva quindi scatenare reazioni violente da parte loro (quelle che, nell’Ortodossia russa, sono passate alla storia sotto il triste nome di pogrom).
In quello stesso giorno, fino a cinquant’anni fa, la Chiesa Cattolica pregava per l’antico popolo eletto designandone i membri non come nostri fratelli maggiori, bensì come perfidi Iudaei. A molti sacerdoti e fedeli, nonché ai diretti interessati, questo cambiamento appare un formidabile progresso nelle relazioni tra i due – e lo è senz’altro, se si risale etimologicamente al termine formido. Proprio mezzo secolo fa (anniversario che sta per esser celebrato con grande pompa, a differenza dell’altro) fu approvata la dichiarazione conciliare Nostra aetate, che secondo la vulgata comune ha aperto una nuova èra nella considerazione cristiana del Giudaismo e nei rapporti con esso. Prescindiamo dal fatto che quel testo è stato redatto – vedi caso – da un gruppo di rabbini di ciò incaricati dal cardinal Bea; prescindiamo altresì dagli evidenti errori dottrinali che, data la sua paternità, non potevano di certo mancare; ci permettiamo soltanto di osservare che la parola latina perfidia, in senso teologico, non ha una connotazione peggiorativa, in quanto designa semplicemente la mancanza di fede (cioè il non aver creduto nel Messia inviato da Dio).
Subito, nella mente degli innovatori, sorgeranno almeno due obiezioni distinte. Una è di natura linguistico-pratica: ben pochi erano e sono in grado di riconoscere il significato proprio dei termini impiegati dalla Liturgia. Tutti però – ci permettiamo di ricordare – sapevano bene che concludere affari con ebrei significava quasi sempre rimetterci; era comunque raccomandabile ricuperare i prestiti prima dello Yom Kippur (festa della remissione universale che, per via del calendario lunare, cade in una data variabile nel corso del mese di settembre), visto che in quel giorno i Giudei venivano assolti, con la recita del Kol nidré, da qualsiasi obbligo, specie se contratto con Gentili. L’altra obiezione sembra più seria e si articola a sua volta su due assi: gli Ebrei hanno la loro fede, che è sufficiente alla loro salvezza, e non l’hanno mai persa.
Sul primo asse l’errore è lampante. Oltre ad attribuire alla loro credenza una nozione di salvezza soprannaturale che è propria del Cristianesimo e che essi in realtà ignorano, questa teoria pretende che Dio abbia stabilito almeno due vie parallele di salvezza, una in Cristo e una mediante la Torah. Ciò è contrario alla verità rivelata (cf. Ger 31, 31; At 4, 11; Eb 8, 13): non possono coesistere due alleanze e due popoli di Dio, ma c’è un’alleanza antica che si è compiuta nella nuova e un unico popolo eletto che, in quella parte che ha riconosciuto il Messia, si è rinnovato con la Sua grazia per accogliere in sé i pagani convertiti e diventare così un popolo universale. Qualora qualcuno gridasse allo scandalo pensando alla dottrina della sostituzione quale causa remota della Shoah, ribattiamo senza scomporci che invece quest’ultima, di fatto, è stata frutto di un’ideologia neo-pagana, elaborata da un gruppo di satanisti che gli Alleati – con i sionisti loro complici – hanno lasciato tranquillamente fare e ai quali la sola Chiesa Cattolica, sprezzante delle gravi conseguenze che ne pagò, si è opposta efficacemente sia con la parola (l’enciclica Mit brennender Sorge di Pio XI) che con l’azione (l’operato di Pio XII in favore dei perseguitati).
Sul secondo asse, sono alcuni fra gli stessi intellettuali ebrei ad ammettere che, dopo Auschwitz, è diventato arduo credere in un Dio che ha lasciato andare il Suo popolo al macello. Prima di accusare l’Altissimo, però, sarebbe forse opportuno riflettere sul fatto che ad una minoranza di privilegiati fu permesso di mettersi in salvo oltre oceano (dove ha acquistato un decisivo ruolo economico e politico) e che, senza l’Olocausto, la creazione dello Stato d’Israele sarebbe stata impensabile… Ad ogni modo, è un dato di fatto che quell’evento, causa peraltro di un conflitto senza via d’uscita che potrebbe sfociare in una guerra mondiale, abbia catalizzato l’attesa messianica dell’antico popolo di elezione, che identifica con se stesso il Servo sofferente di Isaia e individua ormai la “salvezza” nella prosperità della propria Nazione, assicurata dal governo planetario occultamente gestito dai suoi figli. Su questo sfondo, la Shoah finisce con l’apparire come il sacrificio salvifico che ha reso possibile una “risurrezione” e un trionfo puramente immanenti… mentre il Dio biblico, con i Suoi richiami alla giustizia e all’amore, diventa piuttosto scomodo. I giovani aspiranti rabbini, d’altronde, conoscono poco la Bibbia, molto meglio il Talmud e le sue maledizioni.
Sarà troppo fantasioso supporre che, appropriandosi delle categorie esclusive del Cristianesimo, questa ideologia intenda riassorbirlo nel Giudaismo assimilandolo ad esso? Di fatto – ahimé – la realtà supera la più fervida fantasia, se un arcivescovo di Buenos Aires, prima di essere trasferito, ha celebrato la santa Messa circondato, proprio intorno all’altare, da membri della potentissima organizzazione massonica ebraica denominata Bᵉnē-Bᵉrith (Figli del Patto), poi cordialmente ricevuta nella nuova sede, il mese scorso, in qualità di “associazione benefica”. Quale sacrificio ha inteso celebrare in quell’occasione? Quello di Cristo o quello di un popolo? E che cosa facevano dei non battezzati nel luogo più sacro del culto cattolico? Potevano forse pensare di assistere alla ripresentazione sacramentale della morte in croce del Nazareno, reclamata dai loro padri a Ponzio Pilato? Difficile a credersi… almeno da chi sa ancora che cosa sia veramente la Messa.
Se i frutti del “progresso” nelle relazioni tra Chiesa ed Ebrei sono questi, sarà meglio ricominciare a pregare per loro con le parole di un tempo: perché Dio tolga il velo dai loro cuori accecati in modo che possano riconoscere lo splendore della Sua verità, Gesù Cristo nostro Signore. Ai cristiani che lo hanno rinnegato, invece, si potrebbe adattare la preghiera a favore degli eretici (che nel messale antico precede quella per gli Ebrei), a meno che non li si debba annoverare fra gli apostati: che, con la resipiscenza dei loro cuori, fuorviati dal diabolico inganno, Dio li strappi all’errore e li riconduca all’unità della Sua verità richiamandoli in seno alla santa Madre Chiesa (alla quale per il momento, di fatto, sono esterni). Soltanto così – ci sembra – la celebrazione dei due anniversari può servire a qualcosa per il vero bene degli uni e degli altri.
BY DON GIORGIO GHIO · 26 LUGLIO 2015
Don Giorgio Ghio
Sacerdote, nato a Roma il 12 luglio 1964, attivo in Sabina.
Grazie a tutti delle preghiere che vi ho chiesto nei giorni scorsi. Le condizioni della bambina, contro ogni previsione, sembrano essere piuttosto buone anche se è ancora troppo presto per poterla definire del tutto "fuori pericolo". Dopo 2 operazioni di circa 15 ore totali sostenute nel giro di un giorno e mezzo, si è risvegliata dal coma farmacologico e parla. Grazie ancora!!! Se vi è possibile vi chiedo un ricordo giornaliero per lei(la piccola si chiama Maia), la mamma e a famiglia anche per futuro visto il calvario medico che in ogni caso dovranno affrontare. Sia lodato Gesù Cristo e la sua e nostra Santissima Madre Maria.
RispondiElimina