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mercoledì 15 luglio 2015

Il tempo dell’attesa

Cardinali pochi, fedeli tanti. Anche il Paradiso di Dante per l’addio a Biffi


Alle esequie del cardinale Biffi erano presenti i cardinali Bagnasco e Tettamanzi
Roma. La cattedrale di San Pietro era gremita di fedeli, ieri mattina, per le esequie del cardinale Giacomo Biffi, scomparso sabato e per un ventennio arcivescovo della “sazia e disperata” Bologna che lo accolse dopo l’improvvisa morte di Enrico Manfredini, vescovo da pochi mesi, nel 1984. Meno gremita lo era invece di vescovi e – soprattutto – di cardinali italiani.
Solo due i porporati presenti: il presidente della conferenza episcopale, Angelo Bagnasco, e l’arcivescovo emerito di Milano, Dionigi Tettamanzi (giunto a Bologna a titolo personale). Gli altri, assenti a vario titolo. L’arcivescovo in carica,  capo della diocesi in cui Biffi è nato, cresciuto e s’è formato come teologo, prete e vescovo, Angelo Scola, ha mandato un delegato nella persona dell’ausiliare Pierantonio Tremolada. Sedici i vescovi concelebranti, tra cui il novantunenne Luigi Bettazzi, che non ha ritenuto ostacolo insormontabile alla presenza in cattedrale la cappa di afa e umidità che avvolgeva Bologna. Ha citato il Paradiso di Dante, il cardinale Carlo Caffarra nella concisa omelia, quando ha ricordato che “il vescovo Giacomo amava profondamente ‘la bella Sposa, che s’acqusitò con la lancia e coi clavi’". Sentiva, ha aggiunto Caffarra, “come una sorta di gelosia – una ‘gelosia mistica’, dirà poco dopo – perché la sposa non guardasse con desiderio altri all’infuori di Cristo. Egli amava ripetermi di non fare alcuna fatica a osservare il nono comandamento, poiché la sposa che il Papa gli aveva dato – la chiesa di Bologna – era così bella da non desiderarne altre”.

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Biffi, ha detto ancora Caffarra ricordando un aspetto poco conosciuto del suo ministero, e cioè l’esercizio della carità, “aveva una grande venerazione della fede dei piccoli, dei semplici, e non permetteva che fosse minimamente vulnerata da sedicenti teologie”. Centrale, nell’omelia, la riflessione sulla “concentrazione cristologica” che ha caratterizzato l’esperienza terrena di Biffi, chiara anche negli ultimi tempi, quelli segnati dalla “lunga tribolazione della malattia”. “Non potrò mai dimenticare – ha detto l’arcivescovo di Bologna – il modo con cui accettò l’amputazione di una gamba. Il volto emanava serenità, pace, abbandono. La fede era diventata vita nel senso più profondo”. E questo modo di guardare la realtà “gli dava una grande libertà di giudizio sui fatti di oggi e del passato, anche dal punto di vista rigorosamente storico. E Dio solo sa – ha chiosato Caffarra – quanto oggi nella nostra chiesa italiana abbiamo bisogno di una fede capace di generare un giudizio sugli avvenimenti”. Una vocazione cristologica  che per Biffi era naturale: dopotutto, scrisse nelle “Memorie e digressioni di un italiano cardinale”, “il cristianesimo primariamente e per sé è un fatto, il fatto della morte, della risurrezione, della totale e perenne vitalità in atto di Gesù di Nazareth”.

di Matteo Matzuzzi | 14 Luglio 2015 

http://www.ilfoglio.it/chiesa/2015/07/14/cardinali-pochi-fedeli-tanti-anche-il-paradiso-di-dante-per-laddio-a-biffi___1-v-130857-rubriche_c172.htm

Il cardinale Biffi "disprezzava chi praticava il dialogo per ridurci tutti a un minimo comune denominatore"


Il cardinale Caffarra durante l'omelia

Pubblichiamo il testo integrale dell'omelia tenuta questa mattina dal cardinale Carlo Caffarra durante le Esequie del suo predecessore alla guida dell'arcidiocesi bolognese, Giacomo Biffi.

1.    “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” [Mt 16, 16]. Venerati fratelli vescovi, carissimi fedeli tutti, la professione di fede detta da Pietro sotto divina rivelazione, risuona in questo momento in questa cattedrale. Il nostro fratello, il vescovo Giacomo, ha costruito la sua vita, il suo pensiero teologico, il suo ministero pastorale sulla roccia di quella professione: il Cristo, il Figlio del Dio vivente.
    Sopra questa certezza, il nostro fratello, il Vescovo Giacomo, ha edificato il suo cammino di fede, la sua profonda esperienza cristiana. Il cristianesimo, egli scrive, “primariamente e per sé è un fatto, il fatto della morte, della risurrezione, della totale e perenne vitalità in atto di Gesù di Nazareth” [Memorie e digressioni di un italiano cardinale, pag. 532].
    Quando l’apostolo Paolo volle come riassumere tutta la sua predicazione, ed il senso del suo faticoso ministero, scrive: “vi ho trasmesso…anzitutto quello che anch’io ho ricevuto, che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le scritture”. E’ la parola che proviene da questa bara. “Benchè morto” il Vescovo Giacomo “parla ancora” [Eb 11, 4], e ci dice: questo è “il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale ricevete la salvezza, se lo manterrete in quella forma in cui ve l’ho annunziato” [1 Cor 15, 1-4].
    Alla luce di questa lucida consapevolezza della grandezza, del primato dell’imparagonabile unicità del Signore Gesù e dei suoi Misteri, possiamo comprendere uno degli aspetti, delle dimensioni della persona e del ministero del vescovo Giacomo. Consentitemi di dirvelo attraverso una confidenza fattami da uno dei più grandi medici del secolo scorso. “Amo troppo ogni ammalato per non odiare ogni malattia”. Il vescovo Giacomo amava profondamente “la bella Sposa, che s’acquistò con la lancia e coi clavi” [Paradiso XXXI, 128-129]. Sentiva come una sorta di gelosia perché la sposa non guardasse con desiderio altri all’infuori di Cristo. Egli amava ripetermi di non fare alcuna fatica ad osservare il nono comandamento, poiché la sposa che il Papa gli aveva dato – la Chiesa di Bologna – era così bella da non desiderarne altre.
    E’ da questa mistica gelosia che nasce la messa in guardia di questo gregge santo di Bologna dagli errori, dimostrandone – a volte in modo tagliente – l’intima inconsistenza. Egli aveva un concetto molto alto del dialogo, e disprezzava profondamente chi lo praticava o come sforzo di ridurci tutti ad un minimo comune denominatore o al perditempo della chiacchiera da salotto. In breve: il dialogo coincide con l’evangelizzazione.

Egli aveva una grande venerazione della fede dei piccoli, dei semplici, e non permetteva che fosse minimamente vulnerata da sedicenti teologie. Parlando dei poveri, dei semplici non posso tacere un aspetto poco conosciuto del suo ministero: l’esercizio della carità verso chi si trovava in difficoltà di ogni genere. Anche economiche.
    Carissimi fratelli vescovi, carissimi fedeli, compio ora il grato dovere di testimoniare che il vescovo Giacomo fu maestro di fede anche nella lunga tribolazione della malattia. Non potrò mai dimenticare il modo con cui accettò l’amputazione di una gamba. Il volto emanava serenità, pace, abbandono. La fede era diventata vita nel senso più profondo.

2.    “Egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà…il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose”. Carissimi fratelli vescovi, carissimi fedeli, il fatto che il nostro vescovo Giacomo vivesse come una sorta di con-centrazione in Cristo, non solo non lo distoglieva dalla vicenda umana, ma nel suo cristocentrismo ne trovava la chiave interpretativa ultima.
    Cari amici, possiamo considerare la confusa vicenda umana come potremmo guardare un ricamo. La parte inversa è una gran confusione di fili; la parte retta è un disegno intelligibile.
    La concentrazione cristologica che caratterizza la vita ed il magistero del nostro vescovo Giacomo, gli consente di vedere dentro le vicende umane il disegno del Padre.
    Ho potuto constatare più di una volta che quando parlava del disegno di Dio dentro la storia umana, era preso come da una sorta di incanto che lo affascinava.
    Un religioso, visitandolo negli ultimi giorni, meravigliato dalla sua serenità e pace interiore, gliene chiese la ragione. Rispose: “La considerazione dell’unitotalità che ho imparato leggendo i teologi russi”. Cioè la considerazione che tutto è integralmente e simultaneamente sotto lo sguardo della misericordia di Dio.
    Questo modo di guardare la realtà gli dava una grande libertà di giudizio – ubi fides, ibi libertas: era il Suo motto - sui fatti di oggi e del passato, anche dal punto di vista rigorosamente storico. Possiamo dire, usando le parole di S. Massimo il Confessore, che il nostro vescovo Giacomo ci ha insegnato a pensare ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo, e Gesù Cristo per mezzo di ogni cosa. E Dio solo sa quanto oggi nella nostra Chiesa italiana abbiamo bisogno di una fede capace di generare un giudizio sugli avvenimenti.

“Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziata la parola di Dio; considerando attentamente l’esito del loro tenore di vita, imitatene la fede” [Eb 13, 7]. Questa è la raccomandazione che l’autore sacro fa ai suoi fedeli. La Chiesa non può, non deve perdere la sua memoria, ma deve custodire i suoi “ricordi” fedelmente.
    Fra poche ore il nostro vescovo Giacomo sarà deposto nel sepolcro in attesa della beata resurrezione. Scomparirà del tutto la sua presenza visibile, ma deve essere depositata nella memoria della nostra Chiesa la testimonianza di chi ci ha annunciata la parola di Dio. Cioè: “Cristo è tutto in tutti” [Col 3, 11].
    “E’ finito il tempus faciendi”, scriveva quando si ritirò, “i miei giorni residui sono diventati soprattutto il tempo dell’attesa”. Ora anche il tempo dell’attesa si è compiuto.

Prega per noi pastori soprattutto, caro fratello, perché non dimentichiamo mai che la più grande povertà dell’uomo è non conoscere Gesù Cristo.

di Matteo Matzuzzi | 14 Luglio 2015
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Don Camillo e Giacomo Biffi

di Camillo Langone | 14 Luglio 2015 ore 06:18
San Camillo, come posso festeggiarti, e festeggiarmi, nel giorno del funerale di Giacomo Biffi? Siete stati i miei principali maestri di religione: tu santo controvoglia, lui prete controcorrente. Tu chiedesti di prestare maggior cura alle persone, e ti diedero abbastanza retta (gli ospedali moderni molto ti devono), lui chiese di prestare maggior cura alla nazione, e non gli diedero retta per niente: ricavò solo attacchi quando disse che l’Italia avrebbe dovuto privilegiare l’ingresso di immigrati cristiani. Biffi ci vedeva lungo, in compenso i suoi innumerevoli detrattori erano talpe a cui dobbiamo i prossimi attentati, le prossime conversioni di convenienza, il prossimo inginocchiarsi ai seguaci del predone arabo. Tu fosti un infermiere riuscito, lui uno statista mancato: il diverso risultato credo sia dovuto al fatto che le persone solitamente vogliono guarire, mentre le nazioni, in certe fasi della loro storia, vogliono morire.

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