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domenica 27 settembre 2015

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FOGAZZARO E IL MODERNISMO    Fogazzaro e il modernismo. Era modernista Antonio Fogazzaro? E se sì fino a che punto lo era? In che senso lo era? E soprattutto perché lo era e che cosa si proponeva di dimostrare e quale obiettivo si prefissava di Francesco Lamendola  

Fogazzaro e il modernismo





Era modernista, Antonio Fogazzaro? E, se sì, fino a che punto lo era? In che senso lo era? E, soprattutto, perché lo era, e che cosa si proponeva di dimostrare, che cosa voleva fare, quale obiettivo si prefissava, come scrittore e come intellettuale assai ascoltato nei salotti buoni della cultura della “belle époque”, non solo italiani, ma internazionali?
Vediamo come imposta il complicato rapporto tra Fogazzaro e il modernismo il critico letterario Luigi Baldacci (in: A. Fogazzaro, «Malombra», Milano, Garzanti, 1973, pp. VIII-IX; XI; XII-XIII):


«Il nome di Fogazzaro si era intanto affermato [cioè dopo la pubblicazione di “Piccolo mondo antico”, nel 1895] sul piano internazionale: grazie non solo ai suoi romanzi, ma anche e soprattutto nell’eco di certe sue conferenze di carattere ideologico-religioso, tenute a Parigi, a Bruxelles e in altre città: “Le grand poète de l’avenir” del 1898 e “Les idées religieuses de Giovanni Selva” del 1907. Sono questi gli anni durante i quali Fogazzaro ha rapporti più diretti col modernismo, ma fin dal 1891 egli aveva espresso l’esigenza di una conciliazione tra scienza e fede. Nel “Santo” sarà evidente, da parte del Fogazzaro, l’ambizione a collocarsi in una posizione di centralità, fra modernisti e conservatori, i quali ultimi avevano il formidabile appoggio di Pio X: “Ma forse nell’altro campo cattolico militante non si è senza peccato. Nell’altro campo si è inebriati dall’idea di modernità. La modernità è buona ma l’eterno è migliore”; e tuttavia, più che una pretesa di conciliazione, si dovrà riconoscere in queste parole una misura di prudenza che non valse però ad allontanare la condanna del Santo Uffizio: prima per “Il Santo”, e Fogazzaro si sottomise al decreto di condanna; e poi per “Leila”, che avrebbe dovuto avere il carattere di una ritrattazione, ma che in realtà confermò il disagio spirituale di Fogazzaro nei confronti della Chiesa di Pio X: Del resto, anche se non fu dei  più strenui e dei più impegnati, il modernismo del Fogazzaro è indubitabile: ne è testimonianza, oltre che “Il Santo”, la sua collaborazione al “Rinnovamento”, la rivista dei cattolici liberali fondata a Milano nel 1907 (dunque dopo la condanna del “Santo”); il carteggio con uno degli uomini di punta della Chiesa, il vescovo Geremia Bonomelli (si veda la “Corrispondenza Fogazzaro-Bonomelli”, a cura di C. Marcora, Milano, “Vita e pensiero”, 1968) che fu anch’egli raggiunto dalla condanna del Sant’Uffizio.  E nel lungo rapporto epistolare col Bonomelli il motivo  che oggi più ci colpisce non è quello della questione romana, nella quale i due uomini si comportavano da buoni patrioti, cioè da cattolici liberali, ma proprio la sostanza del modernismo religioso.
Il Fogazzaro non conobbe la condanna dell’ultimo suo romanzo, “Leila”. Morì infatti nell’Ospedale di Vicenza, a sessantanove anni, nell’imminenza di un’operazione chirurgica. La sua vita, che avrebbe potuto scorrere serena, fu, soprattutto nell’ultimo periodo, gravemente turbata dalle polemiche che si accesero intorno alla posizione ideologica dello scrittore. Basti ricordare che l’atto di sottomissione al decreto di condanna del “Santo”, reso noto con una lettera che il Fogazzaro indirizzò al marchese Crispolti e che fu pubblicata su “L’avvenire d’Italia” del 21 aprile 1906, dovette costare allo scrittore non soltanto un sacrificio morale, ma fu altresì oggetto di attacchi giornalistici e perfino parlamentari che denunciavano l’incompatibilità  di quell’ossequio con la carica ricoperta dal Fogazzaro  nel Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione.  Si può dire che la sua vita non piacque né ai cattolici né agli anticattolici, né ai conservatori né ai democratici. Il che è anche un segno di quella serietà di fondo che non si può disconoscere al Fogazzaro. […]
“Daniele Cortis” sarà altresì il romanzo dell’impegno politico per una nuova ‘democrazia cristiana’; ma in esso, come prima in “Malombra”, Fogazzaro non darà il meglio di sé sul piano dell’ideologia, dei programmi politici o delle proposte positive, bensì su quello di un’esplicita adesione alla sensibilità decadentistica. Fogazzaro, a differenza di Verga, crede nel romanzo come a uno strumento di lotta e d’intervento per un mondo diverso. È sicuramente uno scrittore ‘engagé’, ma gli sfugge che la battaglia dell’impegno non poteva più essere combattuta sul piano della letteratura, ma su quel fronte d’azione  sul quale si ritrovavano Loisy, Tyrrell, Viollet, Murri. […]
Pietro Maironi [il figlio di Pietro e Luisa, protagonisti di “Piccolo mondo antico”] sarà il protagonista anche del “Santo”, nel 1905, libro al quale arrise un enorme successo editoriale, considerando le immediate numerosissime traduzioni. Pietro si è fatto monaco in un convento di Subiaco sotto il nome di Benedetto; ma la sua veste e il suo ritiro non interrompono i suoi rapporti col mondo.  Anzi, sulla sua strada di riformatore spirituale e religioso, egli si troverà faccia a faccia col pontefice, gli indicherà le piaghe  della Chiesa e affronterà perfino la questione romana. Ma non solo sul piano dell’ideologia e della propaganda Pietro  conserva ancora i suoi rapporti col mondo: il fantasma tentatore di Jeanne [la donna un tempo da lui amata] non gli dà tregua; anzi la donna riuscirà a raggiungerlo ed egli morirà tra le sue braccia. È evidente a questo punto, che al decadentismo di Fogazzaro rischia di restare uno spazio fisico tropo ristretto  e soprattutto troppo compromesso e bisogna concludere  che le idee di Rosmini e di Tyrrell non legano affatto  con l’immagine di Jeanne e neppure con le liricissime descrizioni paesistiche, che tuttavia restano  l’unico punto all’attivo del libro. Più felice sembra invece il bilancio dell’ultimo romanzo, “Leila”, del 1910, che vuol essere ancora un romanzo d’idee, ma è soprattutto, e per fortuna, un romanzo di documentazione autobiografica. Il protagonista maschile, Massimo Alberti, è stato un discepolo di Pietro Maironi, il Santo. Ha perduto la fede in una polemica dura contro un mondo che ha rinunciato al sentimento della carità: quella fede Massimo la ritroverà grazie all’amore per Leila e nonostante l’implacabile opposizione di chi non gli perdona di essere un anticonformista inviso all’autorità ufficiale ecclesiastica. “Leila” diventa così un romanzo d’amore, non certo di grande originalità (lui, spirito di tormentata vita spirituale; lei, come Luisa di “Piccolo mondo antico”, quasi incredula), ma vivo per il risentimento polemico che l’autore  lascia trasparire tra le maglie della complicata  vicenda e che sta a dimostrare come la condanna del “Santo” fosse stata accolta solo per ossequio formale.»

Allora, vediamo di fare il punto della questione.
Fogazzaro era modernista: su questo non c’è dubbio. Tutt’al più, si può provare a definire i limiti e le contraddizioni del suo modernismo; si può anche, per amore di polemica – come alcuni hanno fatto – negare che il modernismo sia mai esistito, e addebitare a Pio X di averlo suscitato, mettendo in un unico fascio una serie di idee, di posizioni e di sensibilità che, in effetti, non possedevano una ideologia comune, ma che, tutt’al più, condividevano un certo qual vago sentimento della necessità di introdurre significativi cambiamenti nella Chiesa cattolica e di rinnovare la cultura cattolica alla luce dei valori e delle (sedicenti) conquiste della cultura moderna, laica e razionalista, considerati ormai come irrinunciabili e, perciò, destinati a introdursi, per forza o per amore, entro l’orizzonte spirituale e civile dei cattolici stessi.
Quanto al primo punto, e cioè fino a che punto Fogazzaro fosse consapevole del proprio modernismo, crediamo che la cosa sia abbastanza evidente, non tanto dalle sue lettere e dalle sue conferenze, ma proprio dalla sua opera di scrittore, dai suoi romanzi: egli era perfettamente consapevole della valenza modernista delle sue idee e si proponeva scientemente di divulgarle, com’egli riteneva, per il bene della Chiesa e del cattolicesimo. Quanta parte di ingenuità, di pressapochismo intellettuale, di faciloneria e di spontaneismo bene intenzionato, ma sconcertante in un intellettuale, vi fosse nel suo modernismo, questa è un’altra questione: sulla quale vi sono amplissimi margini per una discussione, o per una serie di discussioni che tuttavia ora, in questa sede, non tenteremo neppure d’impostare, perché ciò richiederebbe degli approfondimenti specialistici che esulano dai limiti della presente riflessione.
Quanto al secondo punto, ci sembra che l’accusa rivolta a Pio X, di aver suscitato un “movimento” che non esisteva, e di averlo, per così dire, evocato, proprio a causa della sua “prevenzione” e della sua “chiusura” oltranzista, sia destituita di fondamento. Anche ammesso che il modernismo non fosse una dottrina unitaria – e su ciò possiamo, in linea di massima, acconsentire – resta il fatto che i novatori manifestavano dei tratti comuni, pur nelle loro specifiche differenze: c’è un filo rosso, e anche bene evidente, che lega Tyrrell, a Buonaiuti, a Loisy e che ricollega il modernismo europeo al modernismo cattolico americano; ci sono una prospettiva comune e un comune obiettivo: rinnovare il cattolicesimo alla luce della cultura moderna, anche se, poi, esistono delle sensibilità diverse fra l’uno e l’altro dei soggetti interessati. Ad esempio, limitandoci all’aspetto sociale, non vi è alcun dubbio che una rivista come «Rinnovamento», organo dei cattolici liberali milanesi, avesse poco a che fare con la Democrazia Cristiana di Romolo Murri, spostata su posizioni assai più “sociali” e di sinistra, e che, pertanto, quei due gruppi di cattolici, animati da sensibilità fortemente diverse, perseguissero un disegno politico-sociale, oltre che culturale, del tutto difforme. Il fatto che Fogazzaro, simpatizzante sia degli uni che degli altri, non se ne sia reso conto, o non ne abbia colto tutti i risvolti e le implicazioni, attesta solo la sua ingenuità o la sua faciloneria intellettuale e non attenua, per così dire, le sue convinzioni di tipo modernista.
Le quali dovevano essere ben confuse, se prendiamo sul serio il personaggio di Pietro Maironi, il cosiddetto Santo, in veste di riformatore religioso: un guazzabuglio di misticismo e di sensualità che, dal punto di vista intellettuale, si fa fatica a digerire, e che si può accettare solo in quanto espressione poetica di un romanziere che capiva poco di religione e pochissimo di politica, ma che era animato da sinceri e profondi sentimenti di rigenerazione spirituale, per sé e per l’umanità tutta: e Dio sa quanti pasticci hanno causato e quanta deplorevole confusione hanno seminato codeste anime belle e piene di ottime intenzioni, allorché hanno voluto passare dall’ambito di loro competenza, quello dell’arte, in altri di cui non erano pratici, improvvisandosi predicatori di velleitarie riforme e alfieri di non bene specificati rinnovamenti.
C’è comunque un altro aspetto della questione su cui bisogna portare l’attenzione. Il modernismo non si manifesta solo attraverso figure di rottura, come Loisy e Tyrrell: anche un certo numero di sacerdoti e perfino di vescovi è cautamente vicino a talune posizioni moderniste, sia pure con tutti i distinguo del caso, e anche al prezzo, come il vescovo di Cremona, Geremia Bonomelli, di rilasciare dichiarazioni apertamente anti-moderniste, proprio per mettere a tacere le voci e i sospetti sul proprio conto. Fogazzaro è amico di questo tipo di “modernisti” moderati, come Bonomelli: uomini di Chiesa dalla solida reputazione, che però, si riallacciano, in qualche modo, alla tradizione del cattolicesimo liberale, che è una tradizione decisamente “alta”: quella di Manzoni e di Rosmini. Il richiamo a Rosmini, in particolare, è quasi d’obbligo per costoro: come non vedere ne «Le cinque piaghe della Santa Chiesa» un’opera profetica, che ha preparato una strada ispirata e necessaria per qualunque seria ipotesi di rinnovamento del cattolicesimo? Ora, se uomini come il vescovo Bonomelli e come l’arcivescovo di Milano, Andrea Carlo Ferrari, erano un po’ in odore di modernismo (pur smentendolo ufficialmente, e anzi mostrandosi indignati da simili sospetti: però, intanto, criticavano uomini e posizioni coinvolti nella repressione antimodernista di Pio X), si può capire come Fogazzaro non avesse piena coscienza del fatto di avere imboccato una strada che lo avrebbe portato, presto o tardi, in collisione con il magistero del Pontefice. Può sembrare incredibile, ma è verosimile che egli non avesse ben valutato la portata delle idee moderniste che, di fatto, sosteneva, e delle inevitabili conseguenze che ne sarebbero scaturite: in un certo senso, egli si andava identificando con Pietro Maironi, e si illudeva, forse, che la sua voce di letterato sarebbe stata ascoltata e, chissà, avrebbe dato un contributo decisivo all’auspicato rinnovamento.
In fondo, Fogazzaro è pur sempre uno scrittore decadentista: vale a dire intriso di estetismo, di vitalismo, di misticismo: e si sente un po’ veggente, un po’ superuomo, e sia pure in senso spirituale e religioso; non sopporta la mediocrità, l’anonimato, la rassegnazione. Inquieto e impaziente, è tormentato da un’ansia indefinita di assoluto, da slanci e inquietudini ascetici e sensuali, proprio come i protagonisti dei suoi romanzi; sospeso fra la terra e il Cielo, l’aldiqua e l’Aldilà, l’ edonismo e la contemplazione, la ragione e il sentimento; curioso delle novità, incline ad accogliere l’evoluzionismo darwinista e a propugnare il metodo critico nell’esegesi biblica, egli è portato più a mediare che a creare, a entusiasmarsi rapidamente che a perseverare, a cogliere atmosfere e stati d’animo in modo estemporaneo, che a procedere con piena consapevolezza speculativa. Che cosa vuole, in fondo, forse non la sa bene neanche lui: un altro cristianesimo, più puro. E poi? Lo ignora.
di Francesco Lamendola

Francesco Lamendola

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