Il motu proprio secondo l'avvocato di provincia
Che potrebbe dire un avvocato di
provincia, non particolarmente esperto di diritto canonico (pur avendolo
studiato, a suo tempo, all’Università Cattolica), della riforma del processo
matrimoniale? La prudenza dovrebbe trattenerlo dall’entrare nel merito più
spiccatamente specialistico, ma potrebbe provare ad esaminare il tema alla luce
dei principi generali: di quelli, per intenderci, sui quali qualunque giurista
avveduto – sperando che l’avvocato di provincia sia tale… – può arrischiarsi a
dire la sua.
«Il processo canonico di nullità del matrimonio
costituisce essenzialmente uno strumento per accertare la verità sul vincolo
coniugale. Il suo scopo costitutivo (…è…) solo di rendere un servizio alla verità» (Benedetto XVI, Discorso alla Rota Romana, 27 gennaio 2007). Se questo – e non altro («l’istituto del processo in generale,
del resto, non è di per sé un mezzo per soddisfare un interesse qualsiasi, bensì
uno strumento qualificato per ottemperare al dovere di giustizia di dare a
ciascuno il suo» – Benedetto XVI, cit.) – è lo scopo del processo, allora il valore, l’adeguatezza e, in
definitiva, la “bontà” della legge che lo regola si giudicano in base ad un
criterio alquanto elementare: è buona quella legge che massimizza la possibilità che la
verità processuale coincida con la verità storica (e quindi – nel nostro caso –
che la dichiarazione processuale di nullità concerna un matrimonio realmente nullo), è
cattiva la legge che espone la verità processuale al rischio di essere costruita,
anche a dispetto di quella storica, in modo da soddisfare gli interessi delle
parti (cioè al rischio che un matrimonio valido venga indebitamente dichiarato
nullo per soddisfare il desiderio dei coniugi di sciogliersi dal vincolo).
Questo – secondo l’avvocato di
provincia – è il criterio per valutare la riforma; esso va applicato tenendo
conto della realtà (il realismo, d’altronde, è virtù intellettuale specificamente
cattolica, anche se ultimamente sembra scomparsa dalla mentalità e dalla
cultura del fedele medio, e forse anche di qualche pastore…): cioè della
concreta consistenza del “conflitto” che sfocia nel processo. Ebbene: il
processo matrimoniale raramente vede parti realmente ed effettivamente
contrapposte, interessate ad ottenere l’una la sentenza contraria a quella
richiesta dall’altra, poiché generalmente entrambi i coniugi desiderano la dichiarazione
di nullità per riacquisire lo stato libero. Tanto più oggi, quando la
dichiarazione di nullità – almeno in Italia – non comporta più rilevanti
vantaggi o svantaggi economici per l’uno o per l’altro coniuge rispetto al
divorzio civile. Ciò spiega bene alcune caratteristiche tipiche del processo
canonico matrimoniale come lo abbiamo conosciuto sinora: in particolare
l’intervento del difensore del vincolo e, soprattutto, l’istituto della doppia
conforme. Caratteristiche destinate ad escludere o, almeno, a ridurre il
rischio probabilissimo che la sostanziale collusione dei coniugi renda la
dichiarazione di nullità un espediente per lo scioglimento pratico di un
vincolo valido.
In questo quadro, che effetti potrà
avere la riforma? L’avvocato di provincia nutre, in proposito, dubbi e
preoccupazioni, che derivano tutti da specifiche e significative novità introdotte
dal Motu Proprio Mitis Iudex Dominus Iesus. In particolare: la disciplina del
giudizio sommario per la dichiarazione di nullità (il “processo breve”) e delle
condizioni per accedervi, la sostanziosa modifica del valore probatorio della
confessione e delle dichiarazioni delle parti, la valutazione dei presupposti
per l’avvio del processo.
Il giudizio sommario è uno degli
snodi cruciali. «Non mi è tuttavia sfuggito
quanto un giudizio abbreviato possa mettere a rischio il principio
dell’indissolubilità del matrimonio», si legge nel Motu Proprio, che prosegue: «appunto per questo ho voluto che in tale processo sia
costituito giudice lo stesso Vescovo, che in forza del suo ufficio pastorale è
con Pietro il maggiore garante dell’unità cattolica nella fede e nella
disciplina». E le
regole procedurali? È sufficiente la sola qualità del giudice ad evitare, “in forza
del suo ufficio pastorale”, che il processo breve abbia un effetto stravolgente, o non sarebbe meglio
che la struttura stessa del processo preservasse dal rischio, dato che il giudice, chiunque egli sia, è vincolato ai
caratteri strutturali del giudizio e non ne può disporre?
Sotto questo profilo, le
preoccupazioni dell’avvocato di provincia sono piuttosto pesanti. Il processo
breve è ammissibile quando «ricorrano circostanze di
fatti e di persone, sostenute da testimonianze o documenti, che non richiedano
una inchiesta o una istruzione più accurata, e rendano manifesta la nullità» (nuovo can. 1683; la
sottolineatura è di chi scrive). Queste circostanze sono poi indicate, in
termini esemplificativi e non esaustivi, nelle “Regole procedurali
per la trattazione delle cause di nullità matrimoniale”, pure emanate col Motu
Prorio (Art. 14 § 1). Senza entrare nel merito delle
singole circostanze – cioè lasciando agli esperti l’interessante quanto
complicata questione del defectus fidei
– l’avvocato di provincia si domanda: se, per esempio, la causa del matrimonio è
stata la gravidanza imprevista della donna, e se questo fatto rende “manifesta
la nullità”, nel conseguente processo breve sarà ancora necessario accertare se
quella circostanza si traduca effettivamente in un vizio invalidante, o non
occorrerà piuttosto accertare, se del caso,
e con indagine estremamente difficile (al limite dell’impossibile,
specie in un procedimento sommario), se, nonostante la gravidanza, l’intenzione
dei nubendi fosse comunque integra ed il vizio invalidante non sussistesse?
Insomma, l’avvocato di provincia ha l’impressione che nel processo breve si
finisca per dover dare la prova della validità del matrimonio, non della sua
invalidità; e che, per dirla in termini tecnicamente più sofisticati, tutte le
circostanze elencate nel Motu Proprio si atteggino proprio come presunzioni di
nullità, da superarsi solo in virtù di un’eventuale prova contraria: quantomeno
nel processo breve, il matrimonio è presunto nullo salvo smentita.
Se ne può trovare
un’ulteriore conferma. Che succede se il Vescovo,
giudice del processo breve, pur a fronte delle note circostanze che rendono
“manifesta la nullità”, si convince invece della validità del vincolo? Il nuovo can. 1687 stabilisce solo che «il Vescovo diocesano (…) se raggiunge la certezza morale sulla nullità del matrimonio, emani la sentenza. Altrimenti rimetta la causa al processo ordinario». Il processo
breve, quindi, o si conclude con la sentenza di nullità, o si trasforma in
processo ordinario; il rigetto della domanda non è contemplato. L’avvocato di
provincia vede in tutto ciò una prova della debolezza strutturale del processo
breve: sia perché è espressamente codificata la possibilità che il giudice non
riesca a raggiungere la certezza morale necessaria per emettere la sentenza;
sia perché, ove il Vescovo avesse raggiunto la certezza morale della validità
del vincolo, gli sarebbe comunque impedito di esprimerla con sentenza, diventando
così una specie di “giudice dimezzato”. Nel processo breve, insomma, la
certezza morale del Vescovo-giudice sembra potersi muovere in un’unica
direzione: quella della nullità.
È davvero difficile,
dunque, sottrarsi alla conclusione che il processo riformato sia ispirato ad
una sorta di favor nullitatis, come è
stato notato da alcuni osservatori. In ogni caso, una verità processuale che –
quantomeno nel caso del processo breve –
è incisivamente condizionata da sostanziali presunzioni, e che non può
essere che nel senso della nullità, è a forte rischio di non coincidere con la
verità storica: in base al criterio che abbiamo assunto all’inizio, dunque, le
regole processuali che ciò consentano non possono considerarsi “buone”.
L’avvocato di provincia,
poi, trova altre complicazioni quando considera, sempre con riguardo al
processo breve, che esso può (deve?) svolgersi tutte le volte in cui «la domanda sia proposta da entrambi i coniugi
o da uno di essi, col consenso dell’altro»: quando il processo sia “consensuale”.
Questa disposizione si
intreccia col nuovo regime della confessione e delle dichiarazioni delle parti (di cui è superfluo
sottolineare l’importanza, in un processo nel quale si indagano, in sostanza,
le intenzioni e le disposizioni dei coniugi); nuovo regime che varrà sempre,
anche nel processo ordinario, non solo in quello breve. Nel “vecchio” processo,
in base ai cann. 1679 e 1536, esse non potevano avere forza di prova piena se
non si aggiungevano «altri elementi ad
avvalorarle in modo definitivo». Nel processo riformato, confessione e
dichiarazioni delle parti potranno avere valore di prova piena «se non vi siano altri elementi che le confutino» (nuovo can. 1678).
Come non vedere in tutto questo un
significativo ribaltamento di un aspetto portante del processo? Sembra,
infatti, che quanto dichiarano i coniugi possa oggi risultare (auto)sufficiente
e decisivo proprio per esplicito disposto della legge processuale: di quella
stessa legge che, ieri, voleva invece espressamente evitarlo. Che cosa poi
possano dichiarare i coniugi, specie quando concordino nel richiedere la
nullità, non è difficile immaginarlo, soprattutto se si affronta la questione
con sano realismo; al contrario, è difficile immaginare quali “altri elementi”
per confutare le loro dichiarazioni possano emergere soprattutto nel processo
breve, in particolare se “consensuale”, e destinato, comunque, ad avere
un’istruttoria sommaria. Sicché, di nuovo, l’ombra del favor nullitatis è vasta; di nuovo, la struttura processuale
riformata appare assai debole quanto alla massimizzazione della coincidenza
della verità processuale con quella storica. Questa debolezza, poi, è incrementata
dall’abolizione della doppia conforme.
Infine, l’avvocato di provincia legge
con stupore la nuova formulazione del can. 1675: «il
giudice, prima di accettare la causa, deve avere la certezza che il matrimonio
sia irreparabilmente fallito, in modo che sia impossibile ristabilire la convivenza
coniugale». La
norma corrispondente del “vecchio” processo (can. 1676), stabiliva: «il giudice prima di accettare la causa ed ogniqualvolta
intraveda una speranza di buon esito, faccia ricorso a mezzi pastorali, per
indurre i coniugi, se è possibile, a convalidare eventualmente il matrimonio e
a ristabilire la convivenza coniugale». Dunque, “prima”, anche
un matrimonio realmente nullo doveva essere, se possibile, convalidato. Il favor matrimonii si risolveva in
qualcosa di più, addirittura – per dir così – nel favor familiae, nella protezione e nell’incoraggiamento della
nuzialità anche a fronte di una vera nullità, e, a maggior ragione, di un
fallimento matrimoniale. “Dopo”, ogni matrimonio realmente
fallito merita di essere, se possibile, annullato. Sembra che ci sia qualcosa
di più sottile – e di più inquietante, va detto – del favor nullitatis: una specie di accettazione, quasi un favor, della facile fallibilità del
matrimonio, un tendenziale scoraggiamento dello sforzo di salvare la famiglia
(ovvero una pronta disponibilità alla creazione di una famiglia nuova, al “rifarsi
la vita” di chi esca da un matrimonio fallito: un’accettazione pratica della
filosofia, inequivocabilmente divorzista, della seconda chance).
In tutto questo l’avvocato di provincia,
pur consapevole della sua superficiale preparazione canonistica, si sente
gravemente disorientato. Ovviamente, egli non è in grado di stabilire se la riforma
del processo comporti un’implicita modifica della dottrina cattolica
sull’indissolubilità del matrimonio, come è stato suggerito da alcuni
commentatori. Può solo dire che non gli pare, che pensa – e spera – di no. Egli
vede, però, uno stretto legame col prossimo Sinodo sulla famiglia, e,
soprattutto, con il noto problema della comunione ai divorziati risposati.
Così, egli ravvisa nella riforma quella “soluzione B” – totalmente empirica, e, dunque, un po’
furbesca – di cui spesso si è parlato: gli sembra, infatti, che non potendo o non riuscendo ad eliminare l’impedimento (l’impossibilità
di comunicarsi per i divorziati risposati), si provi ad eliminare gli impediti
(la categoria dei divorziati risposati), facendo in modo che ogni divorzio
possa, in quanto espressione e conseguenza di un definitivo fallimento
coniugale, sfociare facilmente, quasi di default, in una dichiarazione di nullità. Sarà quindi
interessante vedere se i padri sinodali – sia quanti spingono per l’ammissione
dei divorziati all’Eucaristia, sia quanti vi si oppongono – riterranno la questione
ormai definita, o comunque superata, in virtù del fatto compiuto, ovvero se la
stessa riforma del processo matrimoniale
potrà essere in qualche modo ridiscussa. Lo sapremo fra meno di un mese.
di Enrico Roccagiachini
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