Chi ha seguito la Messa di domenica 20/9 in una chiesa della Diocesi di Milano si sarà sicuramente accorto che il cambiamento climatico ha fatto la sua comparsa a fianco della Scritture. Infatti sul foglietto del messale Ambrosiano, in fondo alla parte liturgica, compariva il seguente annuncio:
"Non solo guerra"
I cambiamenti climatici hanno prodotto una nuova categoria di profughi, i rifugiati ambientali, persone costrette ad emigrare non per la guerra ma a causa dei disastri naturali che nel modo fanno saltare le economie di sussistenza legate alla terra.
Di questo parlerà il convegno "Non solo guerra" giovedì 24 novembre 2015 organizzato da Caritas a Milano Expo 2015. Informazioni su www.chiesadimilano.it/expo."
A ciò si aggiunga che alcuni giorni orsono il segretario di Stato americano Kerry, nel corso di una visita in Alaska, ha dichiarato quanto segue:“La Siria è stata destabilizzata da un milione e mezzo di persone che sono scappate dalle zone rurali a causa di una siccità durata tre anni, resa ancora più intensa dal cambiamento climatico a opera dell’uomo, una condizione che sta rendendo l’intero Medio Oriente e le regioni mediterranee ancora più aridi”.
Kerry ha fatto riferimento ai risultati di una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) a firma di Colin Kelley e altri e dal titoloClimate change in the Fertile Crescent and implications of the recent Syrian drought in cui si afferma fra l’altro che “Ci sono prove che la siccità del 2007-2010 ha contribuito al conflitto in Siria. E' stata la peggiore siccità da quando vi sono misure strumentali ed ha provocato la diffusa perdita dei raccolti e la migrazione di massa di famiglie contadine verso i centri urbani. Il trend secolare osservato in precipitazioni, temperature e pressione a livello del mare, sostenuti dai risultati dei modelli climatici, suggeriscono fortemente che il forcing antropogenico abbia aumentato la probabilità di siccità gravi e persistenti in questa regione... Si conclude pertanto che le influenze umane sul sistema climatico sono implicate nel conflitto in atto in Siria.”
Quel che più colpisce di queste notizie è che sia il cambiamento climatico a produrre profughi, un concetto quantomeno discutibile, come cercheremo di dimostrare qui di seguito. Anzitutto le affermazioni di Kerry e di Kelley inducono a svolgere una rapida indagine sui dati di precipitazione dal 1952 al 2014 presenti nella banca dati internazionale GHCN (Global Historical Climatology Network) e che sono riferiti a 7 stazioni siriane (Aleppo, Damasco, Deir Ezzor, Hama, Kamishli, Lattakia e Palmira). I risultati di sintesi sono riportati nel diagramma in figura 1, da cui si evince che gli anni che vanno dal 2007 al 2010 sono stati effettivamente poco piovosi ma con valori non molto lontani dalla media, per cui parlare di “grande siccità” è quantomeno improprio. Inoltre il diagramma non mostra dal 1952 ad oggi particolari tendenze al calo delle precipitazioni annue, come si evince dalla linea di trend.
L’altra cosa che colpisce è il diagramma in figura 2, il quale ci mostra che la percentuale di dati mensili di pioggia mancanti sale in modo sensibile dagli anni ‘90 fino a toccare il 70% nel 2014. Tale percentuale è un indicatore della scarsa affidabilità di tali dati, che purtroppo sono gli unici dati che abbiamo a disposizione per le nostre analisi.
Poichè inoltre nell’articolo di Kelley si parla di “perdita dei raccolti fra 2007 e 2010” andiamo a verificare i dati presenti nel dataset mondiale della FAO Faostat3 ricavando il diagramma in figura 3, che ci mostra per la Siria l’andamento dal 1961 ad oggi delle rese unitarie ettariali di frumento, principale coltura erbacea del paese. Si noti che l’unico anno fra quelli indicati da Kelly che mostri un sensibile calo dei raccolti è il 2008 con 1.5 tonnellate per ettaro. Al contrario un buon raccolto si è registrato nel 2007 (2.4 tonnellate per ettaro) e nel 2009 (2.6 tonnellate per ettaro) e un raccolto mediocre si è avuto infine nel 2010 (1.9 tonnellate per ettaro).
Insomma, se stiamo alle statistiche, le affermazioni di Kerry e di Kelley paiono quantomeno poco realistiche.
Segnaliamo inoltre ai lettori alcuni ulteriori argomenti di riflessione:
1. è da anni disponibile un dataset internazionale delle vittime di disastri naturali, (EM-DAT / The International Disaster database) liberamente consultabile su questo sito (clicca qui). Da tale dataset si ricava che la mortalità da disastri naturali è in costante calo dal 2000, dopo che per anni aveva manifestato incrementi graduali (si veda in proposito il diagramma in figura 4). Come si giustificano i profughi climatici provocati da disastri naturali alla luce di tale calo?
2. l’andamento delle produzioni agricole mondiali unitarie (tonnellate/ettaro) delle quattro colture che nutrono il mondo (riso, mais, frumento e soia) visto attraverso le statistiche FAO ci segnala che dal 1961 a oggi è in atto un incremento annuo assai rilevante (+6% l’anno per il mais, +5% per il riso, +4% per il frumento e +3% per la soia) che non si concilia in alcun modo con un un cambiamento climatico a carattere distruttivo
3. il lavoro scientifico Climatic factors as determinants of International Migration redatto dai ricercatori Michel Beine e Christopher Parsons e pubblicato nei quaderni dell’Università cattolica di Lovanio esamina i fattori ambientali come potenziali determinanti per la migrazione internazionale e giunge alle seguenti conclusioni: “non si trova alcun impatto diretto di cambiamenti climatici sulle migrazioni internazionali nel medio e lungo periodo per l’intero campione da noi analizzato.”
Evidenze contrarie a parte, ricordiamo a chiunque si voglia cimentare nel cercare legami fa cambiamento climatico e fenomeni sociali che è essenziale disporre di misure meteorologiche accurate (temperatura e pioggia in primis). Da questo punto di vista nei Paesi in via di Sviluppo lo stato delle reti osservative meteorologiche è in molti casi disastroso. Al riguardo segnaliamo il caso increscioso del Sahel, un’area per la quale si parla spesso di emergenze umanitarie legate alla siccità. Quando nel 2003 alcuni climatologi si trovarono ad analizzare l’andamento pluviometrico di tale area (per scrivere un lavoro sulla siccità poi pubblicato sulla rivista scientifica International Journal of Climatology) scoprirono che il numero di pluviometri presenti era sceso dai 188 del 1971 ai 102 del 1991 ed ai soli 35 nel 2003. Ecco, con 35 pluviometri non si riesce a descrivere la pioggia in Lombardia, immaginiamo quella di un’area come il Sahel che è grande decine di volte l’Italia.
Con specifico riferimento alla succitata iniziativa Caritas, va ricordato che analisi globali riferite al settore agricolo sono difficilissime in quanto siamo di fronte a 590 milioni di aziende agrarie, da piccolissime aziende dedite all’agricoltura di sussistenza ad aziende più grandi e che lavorano per il mercato. In tal senso non può essere però trascurata un’evidenza frutto dell’esperienza italiana degli anni 50-60 e cioè che le agricolture di sussistenza scompaiono a seguito della vita disagiata ritenuta intollerabile da chi le pratica. In tal senso occorre evidenziare che o si trova il modo di fare evolvere le agricolture di sussistenza verso l'economia di mercato (ad es. organizzando i produttori in forme associative rispettose dei costumi e delle tradizioni locali) o tali agricolture sono inesorabilmente destinate a soccombere, e ciò indipendentemente dal fatto che il clima cambi o meno.
Insomma, oggi è importante ragionare delle cause politiche, sociali ed economiche che sono all’origine del fenomeno migratorio senza fare ad ogni piè sospinto ricorso al cambiamento climatico, argomento che rischia di distogliere l’opinione pubblica dalle cause reali del fenomeno.
E va ricordato il fatto che la politica Usa degli ultimi decenni, spesso supportata in modo acritico da vari paesi europei, ha portato a destabilizzare una serie di nazioni fra Nord Africa e Medio Oriente (Somalia, Iraq, Afganistan, Egitto, Libia, Siria ...) facendo crollare alcuni fra i pochi regimi laici ancora presenti nell’area e lasciando così uno spazio enorme ai movimenti integralisti musulmani. A seguito di ciò comunità cristiane spesso millenarie stanno pagando un prezzo enorme, per cui fa’ specie che proprio da parte statunitense si invochi il cambiamento climatico a giustificare fenomeni migratori che hanno ben altra e più tragica origine.
23-09-2015
Chi ha seguito la Messa di domenica 20/9 in una chiesa della Diocesi di Milano si sarà sicuramente accorto che il cambiamento climatico ha fatto la sua comparsa a fianco della Scritture. Infatti sul foglietto del messale Ambrosiano, in fondo alla parte liturgica, compariva il seguente annuncio:
"Non solo guerra"
I cambiamenti climatici hanno prodotto una nuova categoria di profughi, i rifugiati ambientali, persone costrette ad emigrare non per la guerra ma a causa dei disastri naturali che nel modo fanno saltare le economie di sussistenza legate alla terra.
Di questo parlerà il convegno "Non solo guerra" giovedì 24 novembre 2015 organizzato da Caritas a Milano Expo 2015. Informazioni su www.chiesadimilano.it/expo."
A ciò si aggiunga che alcuni giorni orsono il segretario di Stato americano Kerry, nel corso di una visita in Alaska, ha dichiarato quanto segue:“La Siria è stata destabilizzata da un milione e mezzo di persone che sono scappate dalle zone rurali a causa di una siccità durata tre anni, resa ancora più intensa dal cambiamento climatico a opera dell’uomo, una condizione che sta rendendo l’intero Medio Oriente e le regioni mediterranee ancora più aridi”.
Kerry ha fatto riferimento ai risultati di una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) a firma di Colin Kelley e altri e dal titoloClimate change in the Fertile Crescent and implications of the recent Syrian drought in cui si afferma fra l’altro che “Ci sono prove che la siccità del 2007-2010 ha contribuito al conflitto in Siria. E' stata la peggiore siccità da quando vi sono misure strumentali ed ha provocato la diffusa perdita dei raccolti e la migrazione di massa di famiglie contadine verso i centri urbani. Il trend secolare osservato in precipitazioni, temperature e pressione a livello del mare, sostenuti dai risultati dei modelli climatici, suggeriscono fortemente che il forcing antropogenico abbia aumentato la probabilità di siccità gravi e persistenti in questa regione... Si conclude pertanto che le influenze umane sul sistema climatico sono implicate nel conflitto in atto in Siria.”
Quel che più colpisce di queste notizie è che sia il cambiamento climatico a produrre profughi, un concetto quantomeno discutibile, come cercheremo di dimostrare qui di seguito. Anzitutto le affermazioni di Kerry e di Kelley inducono a svolgere una rapida indagine sui dati di precipitazione dal 1952 al 2014 presenti nella banca dati internazionale GHCN (Global Historical Climatology Network) e che sono riferiti a 7 stazioni siriane (Aleppo, Damasco, Deir Ezzor, Hama, Kamishli, Lattakia e Palmira). I risultati di sintesi sono riportati nel diagramma in figura 1, da cui si evince che gli anni che vanno dal 2007 al 2010 sono stati effettivamente poco piovosi ma con valori non molto lontani dalla media, per cui parlare di “grande siccità” è quantomeno improprio. Inoltre il diagramma non mostra dal 1952 ad oggi particolari tendenze al calo delle precipitazioni annue, come si evince dalla linea di trend.
L’altra cosa che colpisce è il diagramma in figura 2, il quale ci mostra che la percentuale di dati mensili di pioggia mancanti sale in modo sensibile dagli anni ‘90 fino a toccare il 70% nel 2014. Tale percentuale è un indicatore della scarsa affidabilità di tali dati, che purtroppo sono gli unici dati che abbiamo a disposizione per le nostre analisi.
Poichè inoltre nell’articolo di Kelley si parla di “perdita dei raccolti fra 2007 e 2010” andiamo a verificare i dati presenti nel dataset mondiale della FAO Faostat3 ricavando il diagramma in figura 3, che ci mostra per la Siria l’andamento dal 1961 ad oggi delle rese unitarie ettariali di frumento, principale coltura erbacea del paese. Si noti che l’unico anno fra quelli indicati da Kelly che mostri un sensibile calo dei raccolti è il 2008 con 1.5 tonnellate per ettaro. Al contrario un buon raccolto si è registrato nel 2007 (2.4 tonnellate per ettaro) e nel 2009 (2.6 tonnellate per ettaro) e un raccolto mediocre si è avuto infine nel 2010 (1.9 tonnellate per ettaro).
Insomma, se stiamo alle statistiche, le affermazioni di Kerry e di Kelley paiono quantomeno poco realistiche.
Segnaliamo inoltre ai lettori alcuni ulteriori argomenti di riflessione:
1. è da anni disponibile un dataset internazionale delle vittime di disastri naturali, (EM-DAT / The International Disaster database) liberamente consultabile su questo sito (clicca qui). Da tale dataset si ricava che la mortalità da disastri naturali è in costante calo dal 2000, dopo che per anni aveva manifestato incrementi graduali (si veda in proposito il diagramma in figura 4). Come si giustificano i profughi climatici provocati da disastri naturali alla luce di tale calo?
2. l’andamento delle produzioni agricole mondiali unitarie (tonnellate/ettaro) delle quattro colture che nutrono il mondo (riso, mais, frumento e soia) visto attraverso le statistiche FAO ci segnala che dal 1961 a oggi è in atto un incremento annuo assai rilevante (+6% l’anno per il mais, +5% per il riso, +4% per il frumento e +3% per la soia) che non si concilia in alcun modo con un un cambiamento climatico a carattere distruttivo
3. il lavoro scientifico Climatic factors as determinants of International Migration redatto dai ricercatori Michel Beine e Christopher Parsons e pubblicato nei quaderni dell’Università cattolica di Lovanio esamina i fattori ambientali come potenziali determinanti per la migrazione internazionale e giunge alle seguenti conclusioni: “non si trova alcun impatto diretto di cambiamenti climatici sulle migrazioni internazionali nel medio e lungo periodo per l’intero campione da noi analizzato.”
Evidenze contrarie a parte, ricordiamo a chiunque si voglia cimentare nel cercare legami fa cambiamento climatico e fenomeni sociali che è essenziale disporre di misure meteorologiche accurate (temperatura e pioggia in primis). Da questo punto di vista nei Paesi in via di Sviluppo lo stato delle reti osservative meteorologiche è in molti casi disastroso. Al riguardo segnaliamo il caso increscioso del Sahel, un’area per la quale si parla spesso di emergenze umanitarie legate alla siccità. Quando nel 2003 alcuni climatologi si trovarono ad analizzare l’andamento pluviometrico di tale area (per scrivere un lavoro sulla siccità poi pubblicato sulla rivista scientifica International Journal of Climatology) scoprirono che il numero di pluviometri presenti era sceso dai 188 del 1971 ai 102 del 1991 ed ai soli 35 nel 2003. Ecco, con 35 pluviometri non si riesce a descrivere la pioggia in Lombardia, immaginiamo quella di un’area come il Sahel che è grande decine di volte l’Italia.
Con specifico riferimento alla succitata iniziativa Caritas, va ricordato che analisi globali riferite al settore agricolo sono difficilissime in quanto siamo di fronte a 590 milioni di aziende agrarie, da piccolissime aziende dedite all’agricoltura di sussistenza ad aziende più grandi e che lavorano per il mercato. In tal senso non può essere però trascurata un’evidenza frutto dell’esperienza italiana degli anni 50-60 e cioè che le agricolture di sussistenza scompaiono a seguito della vita disagiata ritenuta intollerabile da chi le pratica. In tal senso occorre evidenziare che o si trova il modo di fare evolvere le agricolture di sussistenza verso l'economia di mercato (ad es. organizzando i produttori in forme associative rispettose dei costumi e delle tradizioni locali) o tali agricolture sono inesorabilmente destinate a soccombere, e ciò indipendentemente dal fatto che il clima cambi o meno.
Insomma, oggi è importante ragionare delle cause politiche, sociali ed economiche che sono all’origine del fenomeno migratorio senza fare ad ogni piè sospinto ricorso al cambiamento climatico, argomento che rischia di distogliere l’opinione pubblica dalle cause reali del fenomeno.
E va ricordato il fatto che la politica Usa degli ultimi decenni, spesso supportata in modo acritico da vari paesi europei, ha portato a destabilizzare una serie di nazioni fra Nord Africa e Medio Oriente (Somalia, Iraq, Afganistan, Egitto, Libia, Siria ...) facendo crollare alcuni fra i pochi regimi laici ancora presenti nell’area e lasciando così uno spazio enorme ai movimenti integralisti musulmani. A seguito di ciò comunità cristiane spesso millenarie stanno pagando un prezzo enorme, per cui fa’ specie che proprio da parte statunitense si invochi il cambiamento climatico a giustificare fenomeni migratori che hanno ben altra e più tragica origine.
23-09-2015
CRISI RIFUGIATI PRODOTTA DA USA
Una crisi di rifugiati prodotta dagli Usa. Philip Giraldi, ex ufficiale della CIA e direttore esecutivo del “Council for the National Interest”, fa una pesante autocritica alla politica estera USA e al suo legame con la crisi dei rifugiati
UNA CRISI DI RIFUGIATI PRODOTTA DAGLI USA
Philip Giraldi, ex ufficiale della CIA e direttore esecutivo del “Council for the National Interest”, fa una pesante autocritica alla politica estera USA e al suo legame con la crisi dei rifugiati. Il mainstream finge di ignorare che tale politica è la principale causa della crisi dei rifugiati, e tenta di scaricarne la responsabilità e il peso su chi è chiamato ad accoglierli. Questa manipolazione della verità che esenta da colpe i carnefici e cerca di riscrivere la storia, ricorda all’autore il romanzo di Orwell “1984” dove tutte le verità scomode finiscono bruciate nel “buco della memoria” per scomparire dal sapere collettivo.
http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6737:una-crisi-di-rifugiati-prodotta-dagli-usa&catid=67:politica-controinformazione&Itemid=91
INGEGNERIA SOCIALE 101 – COME TI FABBRICO UN’EMERGENZA RIFUGIATI
di
Philip Giraldi
Il 29 aprile 2008, ho avuto una folgorazione come quella di San Paolo sulla via per Damasco. Avevo aperto ilWashington Post e lì, in prima pagina, c’era una foto a colori di un ragazzo iracheno di due anni, chiamato Ali Hussein, che veniva estratto dalle macerie di una casa che era stata distrutta dai missili americani. Il ragazzo indossava pantaloncini e maglietta e aveva infradito ai suoi piedi. La testa era piegata all’indietro in una posizione che rivelava immediatamente allo spettatore la sua morte.
Quattro giorni più tardi, il 3 maggio, una lettera proveniente da Dunn Loring, Virginia di una donna chiamata Valerie Murphy è stata pubblicata dal Post. La Murphy sosteneva che l’immagine del bambino iracheno ucciso non avrebbe dovuto essere pubblicata, perché aveva “rinfocolato l’opposizione alla guerra e nutrito un sentimento anti-americano”. Suppongo che il giornale pensasse che fosse una buona par condicio pubblicare questa lettera, anche se non posso fare a meno di ricordare che il neoconservatore Post era stato generalmente riluttante nel pubblicare gli elementi contrari alla guerra, arrivando a ignorare un raduno di 300.000 manifestanti a Washington nel 2005. Rileggendo la lamentela della donna e anche un commento su un sito Web, che suggeriva che la foto del bambino morto fosse stata una messa in scena, ho pensato tra me e me: “che mostri che siamo diventati”. E davvero eravamo diventati mostri. Mostri bipartisan avvolti nella bandiera americana. Il segretario di stato di Clinton, Madeleine Albright, una volta disse che “era valsa la pena” di uccidere 500.000 bambini iracheni tramite le sanzioni. Oggi la Albright è una rispettata ed esperta statista coinvolta nella campagna presidenziale di Hillary Clinton.
Ho avuto un’altra epifania (ossia “rivelazione” ndVdE) la scorsa settimana quando ho visto la foto del bambino siriano Aylan Kurdi che galleggiava su una spiaggia turca come un relitto. Indossava una maglietta rossa e scarpe da ginnastica nere. Ho pensato che molti americani avrebbero scosso la testa guardando la foto ma poi avrebbero pensato ad altro, più preoccupati del debutto di Stephen Colbert sul Late Show e dell’inizio della stagione di football.
Questo ragazzino è uno delle centinaia di migliaia di rifugiati che stanno cercando di arrivare in Europa. Il mondo dei media sta seguendo la crisi concentrandosi principalmente sull’incapacità dei governi locali, impreparati ad affrontare i numeri dei migranti, e chiedendo perché qualcuno, da qualche parte, non “fa qualcosa” (il buon vecchio “qualcosismo” che conosciamo molto bene ndVdE). Ciò significa che in qualche modo, di conseguenza, la grande tragedia umana è stata ridotta a una statistica e, inevitabilmente, a una partita di football politica.
Sopraffatta dalle migliaia di aspiranti viaggiatori, l’Ungheria ha sospeso i treni diretti verso l’Europa occidentale mentre paesi come la Serbia e la Macedonia hanno schierato i loro militari e la polizia lungo i loro confini in un tentativo fallito di bloccare completamente i rifugiati. L’Italia e la Grecia sono state sopraffatte dai migranti che arrivano dal mare. La Germania, a suo merito, ha intenzione di accogliere fino a 800.000 richieste di asilo di rifugiati, principalmente dalla Siria, mentre anche l’Austria e la Svezia hanno manifestato la loro disponibilità ad accettarne molti altri (va detto però che la situazione è in rapida evoluzione ndVdE). Gli immediati vicini della zona del conflitto, in particolare la Turchia, il Libano e la Giordania stanno ospitando più di 3 milioni di persone in fuga, ma i ricchi paesi arabi del Golfo e l’Arabia Saudita hanno fatto poco o nulla per aiutare.
Crescono le richieste di una strategia unitaria europea per affrontare il problema, inclusi l’istituzione di confini a tenuta stagna e la dichiarazione che i mari al largo dei punti di partenza più utilizzati in Nord Africa e in Asia diventino zone militari dove navi e viaggiatori senza documenti saranno intercettati e portati indietro. Dobbiamo anche considerare la possibilità che la crisi dei rifugiati potrebbe essere sfruttata da alcuni politici europei per giustificare un intervento “umanitario” della NATO di qualche tipo in Siria, una mossa che dovrebbe essere supportata da Washington. Ma mentre continuano i battibecchi e le schermaglie, aumenta il conto dei morti. La recente scoperta di 71 aspiranti immigranti, morti soffocati nel retro di un camion bloccato trovato in Austria, inclusi cinque bambini e un neonato, hanno sconvolto il mondo. E questo era prima del bambino di tre anni morto sulla spiaggia turca.
Molti degli aspiranti immigrati sono giovani uomini in cerca di lavoro in Europa, un fenomeno consueto, ma la maggior parte dei nuovi arrivati sono famiglie che sfuggono agli orrori della guerra in Siria, Iraq, Afghanistan e Yemen. La situazione è stata descritta nei media in termini grafici, famiglie che arrivano con niente e non si aspettano nulla, che fuggono da condizioni anche peggiori a casa loro.
Gli Stati Uniti hanno accolto solo un piccolo numero di rifugiati e la sempre volubile Casa Bianca è stata insolitamente tranquilla riguardo al problema, forse rendendosi conto che accogliere un sacco di stranieri sfollati, in un momento in cui c’è un sempre più acceso dibattito sulla politica di immigrazione in generale, semplicemente potrebbe non essere una buona mossa, politicamente parlando. Ma forse dovrebbe prestare qualche attenzione a ciò che ha causato il problema in primo luogo, un po’ di introspezione che è largamente carente sia nei media mainstream sia nei politici.
Infatti, assegnerei a Washington la maggior parte della colpa per ciò che sta accadendo in questo momento. Visto che la classe dominante è particolarmente abituata a dare giudizi basati su dati numerici, potrebbe essere interessata a conoscere il prezzo della guerra globale dell’America al terrore . Secondo una stima non irragionevole, oltre 4 milioni di musulmani sono morti o sono stati assassinati a seguito dei conflitti in corso che Washington ha avviato o di cui ha fatto parte dal 2001.
Ci sono, inoltre, milioni di sfollati che hanno perso le loro case e i mezzi di sussistenza, molti dei quali sono tra l’onda umana che sta attualmente abbattendosi sull’Europa. Ci sono attualmente circa 2.590.000 rifugiati che hanno abbandonato le loro case dall’Afghanistan, 370.000 dall’Iraq, 3.880.000 dalla Siria e 1.100.000 dalla Somalia. L’agenzia dei rifugiati delle Nazioni Unite prevede almeno 130.000 rifugiati dallo Yemen, dato che i combattimenti in quel paese si intensificano.Una cifra compresa tra 600.000 e 1 milione di libici stanno vivendo precariamente nella vicina Tunisia.
Il numero di sfollati all’interno di ogni paese è all’incirca doppio rispetto al numero di coloro che sono effettivamente scappati e stanno cercando di risistemarsi fuori dalle loro patrie. Molti di questi ultimi finiscono in accampamenti temporanei gestiti dalle Nazioni Unite, mentre gli altri stanno pagando dei criminali per farsi trasportare in Europa.
Un dato significativo è che i paesi che hanno generato la maggior parte dei rifugiati sono tutti luoghi dove gli Stati Uniti hanno invaso, rovesciato governi, supportato insurrezioni o sono intervenuti in una guerra civile. L’invasione dell’Iraq ha creato un vuoto di potere che ha messo il terrorismo al comando nel cuore del mondo arabo. Il sostegno ai ribelli in Siria ha solo aggravato la situazione del paese. L’Afghanistan continua a sanguinare 14 anni dopo che gli Stati Uniti sono arrivati e hanno deciso di creare una democrazia. La Libia, che era relativamente stabile quando intervennero gli Stati Uniti e i loro alleati, è ora nel caos, un caos che sta debordando nell’Africa sub-sahariana.
Ovunque le persone fuggono la violenza, fatto che, tra gli altri “benefici”, ha praticamente cancellato l’antica presenza cristiana in Medio Oriente. Anche se mi rendo conto che il problema dei rifugiati non può essere addebitato completamente a una sola parte, molti di quei milioni sarebbero vivi e i rifugiati sarebbero per la maggior parte nelle loro case, se non fosse stato per le catastrofiche politiche interventiste perseguite dalle amministrazioni sia democratiche sia repubblicane degli Stati Uniti.
Forse è venuto il momento per Washington di cominciare a diventare responsabile di ciò che fa. I milioni di persone che vivono duramente o in tende, se sono fortunati, hanno bisogno di aiuto, e non basta che la Casa Bianca si trinceri nel suo silenzio, una posizione che sembra suggerire che i rifugiati siano in qualche modo un problema di qualcun altro. Essi sono, in effetti, un nostro problema. Un briciolo di onestà da parte del presidente Barack Obama sarebbe apprezzato, magari un’ammissione che le cose non sono andate esattamente come previsto dalla sua amministrazione e da quella del suo predecessore. E servono soldi. Washington spende miliardi di dollari per combattere guerre che non andrebbero combattute e per sostenere finti alleati in tutto il mondo. Tanto per cambiare potrebbe essere una soddisfazione vedere il denaro dei contribuenti speso in qualcosa di buono, collaborando con gli Stati più colpiti nel Medio Oriente e in Europa per riassestare i senzatetto e facendo un vero sforzo per concludere positivamente i negoziati atti a porre fine ai combattimenti in Siria e Yemen, che possono solo avere esiti indicibilmente brutti se dovessero continuare sulla strada attuale.
Ironia della sorte, i falchi americani stanno sfruttando l’immagine del ragazzo siriano morto per incolpare gli europei per la crisi umanitaria, chiedendo nel frattempo anche uno sforzo decisivo per deporre Bashar al-Assad. Nel Washington Post dello scorso venerdì l’editoriale principale si intitolava “L’abdicazione dell’Europa” e inoltre c’era un editoriale indipendente di Michael Gerson che sollecitava un cambiamento immediato del regime in Siria, dando la colpa della crisi esclusivamente a Damasco. L’editoriale inveiva contro gli europei “razzisti” riguardo la situazione dei rifugiati. E non è chiaro come Gerson, un neoconservatore evangelico, ex autore dei discorsi di George W. Bush, possa credere che permettere alla Siria di cadere in mano all’ISIS porterebbe vantaggi a qualcuno.
Noi americani ci stiamo avvicinando a qualcosa simile alla completa negazione di come sia veramente orribile l’impatto recente che la nostra nazione ha avuto sul resto del mondo. Siamo universalmente odiati, anche da coloro che stendono la mano per ricevere la loro mancetta, e il mondo sta senza dubbio scuotendo la testa mentre ascolta la bile che esce dalla bocca dei nostri candidati presidenziali. Shakespeare ha osservato che il “male che gli uomini fanno, sopravvive dopo di loro,” ma non conosceva gli Stati Uniti. Noi scegliamo di mascherare le cattive scelte che facciamo, e poi raccontiamo bugie per giustificare e attenuare i nostri crimini. E nonostante questo, il male che facciamo alla fine scompare nel “buco della memoria”. Letteralmente.
Mentre scrivevo questo pezzo ho guardato Ali Hussein, il bambino iracheno che è stato ucciso dalla bomba americana. E’ stato “obliato” da Google, così come pure la sua foto, presumibilmente perché la sua morte non si accordava col politicamente corretto. Verosimilmente, è stato allo stesso modo eliminato dall’archivio delWashington Post. Immediatamente, mi è venuta in mente la vicenda di Winston Smith in “1984” di Orwell.
Fonte:http://vocidallestero.it/2015/09/14/una-crisi-di-rifugiati-prodotta-dagli-usa/ del 22 Settembre 2015
INGEGNERIA SOCIALE 101 – COME TI FABBRICO UN’EMERGENZA RIFUGIATI
DI TONY CARTALUCCI
Fin dal 2007 gli USA progettavano il rovesciamento e la distruzione di tutti i principali ordini politici dell’area MENA ( Medio Oriente e Nord Africa). Questo è stato detto chiaramente in un articolo del 2007 sul New Yorker del giornalista e Premio Pulitzer Seymour Hersh:
Per danneggiare l’IRAN, che è per la maggior parte Shiita, l’Amministrazione Bush ha deciso, in realtà, di rivedere le sue priorità nel Medio Oriente. In Libano, l’Amministrazione ha collaborato con il governo saudita, che è sunnita, in operazioni clandestine intese a indebolire Hezbollah, l’organizzazione shiita sostenuta dall’Iran. Gli USA hanno anche preso parte ad operazioni clandestine contro l'Iran e la sua alleata Siria. Un sottoprodotto di queste operazioni è stato quello di aver incoraggiato l’ascesa di gruppi estremisti sunniti che adottano una visione militante dell’Islam e sono ostili all’America e simpatizzanti di al Qaeda.
Hersh rivelò anche che a quel tempo, gli Stati Uniti – allora sotto l’amministrazione del Presidente George Bush e attraverso intermediari tra cui gli alleati Sauditi – avevano già iniziato a sostenere finanziariamente la Fratellanza Musulmana che nel 2011 avrebbe svolto un ruolo determinante nelle prime fasi di quella guerra distruttiva che oggi infuria in tutto il Medio Oriente.
Nel 2008, il Dipartimento di Stato statunitense individuò in Libia, Siria e altrove, attivisti di ogni genere dell’area MENA, indottrinandoli accuratamente sulla sottile arte dell’industria delle “rivoluzioni colorate” di Washington e Wall Street. Furono preparati per una campagna senza precedenti di destabilizzazione politica – pilotata dagli USA – che nel 2011 fu chiamata “Primavera Araba”.
Attraverso il NED (National Endowment for Democracy) e Movements.org - entrambi dipendenti dal Dipartimento di Stato USA – in diverse occasioni frotte numerose di questi ribelli furono chiamati a N.Y., Washington D.C. ed altri posti del mondo per essere addestrati, attrezzati e finanziati, per poi tornare nei loro paesi di origine e tentare di rovesciare i rispettivi governi.
In un articolo dell’Aprile 2011 pubblicato dal NYT dal titolo: “Gruppi USA hanno contribuito ad alimentare i disordini arabi” fu ammesso che:
Un certo numero di gruppi e di individui direttamente coinvolti nelle rivolte e nelle riforme radicali della regione, tra cui il Movimento 6 aprile della Gioventù d’ Egitto, il Centro del Bahrain per i diritti umani e altri attivisti individuali come Entsar Qadhi, giovane yemenita, hanno ricevuto addestramento e finanziamenti da parte di gruppi come l'International Republican Institute, il National Democratic Institute e Freedom House, un'organizzazione no-profit per i diritti umani con sede a Washington.
Riguardo al NED, l’articolo aggiungeva che:
Questi organismi, d’ispirazione repubblicana e democratica, sono vagamente affiliati ai partiti repubblicano e democratico. Sono stati istituiti dal Congresso e finanziati attraverso il National Endowment for Democracy, istituito nel 1983 per convogliare aiuti per la promozione e la diffusione della democrazia verso i paesi in via di sviluppo. Il National Endowment riceve circa $100 milioni l'anno da parte del Congresso. Anche Freedom House ottiene così la maggior parte dei suoi fondi, soprattutto dal Dipartimento di Stato.
E’ chiaro, infatti, che la copertura politica – la primavera araba – e il sostegno premeditato di gruppi terroristici tra cui al Qaeda, sono stati pianificati anni prima che la primavera araba divenisse una realtà nel 2011. Scopo dichiarato era quello di rovesciare quei governi che ostacolavano le ambizioni egemoniche di Washington e di Wall Street, parte di una più ampia agenda mirata al contenimento di Russia e Cina. La distruzione della regione MENA è stata quindi intenzionale e premeditata, come lo è ancora oggi.
S’INFRANGE L’ONDA DEI CAMBI DI REGIME
Dal 2011, tutte le “rivoluzioni colorate” si sono poi materializzate in eserciti di terroristi, sostenuti dagli Stati Uniti, che hanno tentato di dividere e distruggere ogni nazione. In Libia questo scopo è stato da tempo pienamente raggiunto. In Egitto e in Siria, invece, a diversi livelli di fallimento, questa ‘Agenda’ è in stallo.
L’Egitto, grazie alle sue dimensioni geografiche e alle capacità del suo esercito, è riuscito ad evitare un conflitto di dimensioni nazionali. In Siria, invece, con l’ulteriore rischio di un’ invasione da parte di Giordania e Turchia, la violenza è stata ancora più drammatica e duratura.
Ma nonostante l'iniziale euforia dell’Occidente nel vedere la sua perversa cospirazione riuscire nel suo intento di rovesciare i governi di tutta la regione MENA, la capacità della Siria di resistere alle forze degli ‘intermediari’ occidentali e, ora, anche ad un’azione più diretta, ha interrotto completamente quest’ondata di cambiamenti di regime.
Il senatore statunitense John McCain (repubblicano - Arizona) che ha letteralmente posato nelle foto con leader terroristi sia in Libia sia in Siria, tra cui l'ormai Capo del cosiddetto Stato Islamico (ISIS) in Libia, Abdul Hakim Belhaj, al culmine delle agitazioni della Primavera Araba, minacciò prematuramente Mosca e Pechino di dirigere anche verso di loro quel caos ben orchestrato dagli USA
Inutile dire che Mosca e Pechino non solo erano già pronti a questi tentativi di destabilizzazione, ma lo erano anche per piegare quei tentativi non appena si fossero affacciati ai loro confini. Di fronte al nuovo stallo, Stati Uniti e collaboratori regionali, hanno tentato di giustificare l’intervento militare diretto in Siria prima di quanto lo avessero fatto in Libia – sostenendo che in questo modo avrebbero scongiurato un disastro umanitario e aiutato i “combattenti per la libertà” (Freedom Fighters). Tuttavia, con i crimini commessi da USA e NATO ancora freschi nella memoria dell’opinione pubblica mondiale, questa storia è risultata del tutto insostenibile. Alla periferia di Damasco sono stati inscenati attacchi con armi chimiche, sotto il naso degli ispettori delle Nazioni Unite, nel tentativo di incastrare il governo di Damasco e giustificare l'intervento militare diretto degli Stati Uniti. Anche in questo caso, ricordando simili storielle spacciate dall’Occidente prima della sua decennale invasione in Iraq, e grazie all’esperta diplomazia di Mosca, è stato scongiurato il pericolo di una guerra mondiale. E mentre è sempre più ovvio che la presenza di al-Qaeda e ISIS in Siria e in Iraq sia il risultato diretto e premeditato della sponsorizzazione nella regione di entrambi i due gruppi da parte di USA e NATO, l’Occidente ha tentato di usarli come pretesto per un intervento militare diretto non solo in Siria, ma ancora una volta contro lo stesso Governo di Damasco.
E ORA…VIA AI PROFUGHI
Mentre vacilla quest’ultimo tentativo di giustificare una spinta finale per il cambio di regime in Siria, e mentre le potenze europee cominciano ad interrogarsi sull’opportunità o meno di intervenire ulteriormente in Siria a fianco degli Stati Uniti, ecco che inizia ad abbattersi sull’Europa un diluvio di rifugiati, come avessero avuto un segnale. Come nella scena di un film, ecco apparire orde di rifugiati laceri ammassati lungo le varie frontiere. Come hanno detto vari mezzi di stampa occidentali, sembravano essere sbucati fuori dal nulla, come da una nuvola di fumo. In realtà, non sono affatto sbucati dal nulla. Sono apparsi in Turchia, membro della NATO dagli anni ’50 e uno tra i più fedeli paesi alleati degli Stati Uniti. La Turchia, attualmente, sta ospitando i militari statunitensi, incluse le forze speciali e la CIA che, insieme ai militari e alle agenzie di intelligence turche, conducono dal 2011 una guerra per procura nella vicina Siria.
La Turchia ha adottato entusiasticamente e in modo sospetto una politica di ‘porte aperte’ ai rifugiati, spendendo ingenti somme di denaro e di capitale politico per accoglierli. La ‘Brookings Institution’ – uno dei maggiori think-tank politici che hanno architettato la guerra in Siria – nel suo articolo di luglio 2015 – “Dal Caos all’ Ordine - "Il significato per i rifugiati siriani della politica ‘porte aperte’ della Turchia”, scriveva:
Oggi la Turchia è il più ampio bacino mondiale di rifugiati. Dall’Ottobre del 2013, il numero dei profughi siriani si è più che triplicato, raggiungendo quasi due milioni di registrati.
Brookings scrive anche:
Il prezzo per la Turchia è stato altissimo. I funzionari governativi si sono affrettati a far sapere al mondo di aver speso più di 6 miliardi di dollari per i rifugiati e lamentano la mancanza di un adeguato sostegno internazionale.
Brookings ha descritto in dettaglio gli sforzi compiuti dalla Turchia, in coordinamento con le ONG occidentali, per gestire l’ondata umana. Avrebbe poco senso se questi rifugiati all’improvviso scomparissero e finissero in Europa all’insaputa del governo Turco e soprattutto di quelli Europei, o senza un loro diretto coinvolgimento.
PEDINE DI GUERRA
E’ chiaro che dietro alla politica per i rifugiati della Turchia, non c’è una vera motivazione altruistica. La Turchia è uno dei principali incubatori di terroristi che operano in Siria, e un importante collaboratore nella guerra per procura della NATO contro il suo vicino di casa. La Turchia ha permesso ogni giorno a centinaia di camion carichi di rifornimenti di attraversare indisturbati i suoi confini e raggiungere i territori controllati da ISI.
La Turchia è stata anche incaricata, attraverso diversi documenti politici statunitensi, di creare una “zona cuscinetto” e un “porto sicuro” per l’accoglienza dei rifugiati, e di costituire in territorio siriano una ‘fortezza’ per i terroristi pilotati dalla NATO, da cui poter lanciare le varie operazioni militari. Probabilmente, i profughi dovevano servire come popolazione iniziale di un qualsiasi nuovo stato che la NATO avesse costituito con i territori sequestrati nella Siria settentrionale, dove avrebbe anche stabilito delle no-fly zones.
Ora pare che molti di questi rifugiati siano invece stati reindirizzati verso l’Europa. Tuttavia, non tutti i profughi che dalla Turchia si riversano in Europa sono collegati al conflitto siriano. Molti sono in transito in Turchia da altri teatri bellici sempre pilotati dalla NATO, come Afghanistan, Pakistan e Iraq. La Turchia sembra stia fungendo da punto centrale di transito non solo come centro di smistamento dei terroristi destinati al conflitto siriano, ma anche per raccogliere i rifugiati proveniente da tutta l’area MENA e dall’Asia Centrale, per poi convogliarli in gran numero verso i paesi dell’Europa. Alcuni rapporti indicano anche che i rifugiati stanno ricevendo assistenza direttamente dal Governo Turco.
Il documento Greek Kathimerini dell’International New York Times, in un articolo intitolato “L’ondata dei profughi è legata alle nuove politiche della Turchia," dice così:
Secondo fonti diplomatiche, il forte aumento nell’afflusso dei migranti in Grecia, per lo più provenienti dalla Siria, è dovuto in parte ad un cambiamento nelle strategie geopolitiche della Turchia.
Secondo questi funzionari, esiste un collegamento tra l’ondata dei migranti nell’Egeo orientale e le pressioni politiche in Turchia che si prepara alle elezioni anticipate in novembre, e con una recente decisione di Ankara di collaborare con gli Stati Uniti nel bombardamento di obbiettivi governativi in Siria. L’analisi di diversi funzionari indica che l’afflusso dei profughi in Turchia si sta verificando come se il governo Turco facesse finta di niente o se lo stesse addirittura incoraggiando.
Catastrofi come queste, che a prima vista possono sembrare “improvvise” e “inattese” – e anche “inarrestabili” – in realtà vengono incoraggiate nel quadro di uno scenario operativo totalmente controllato dagli Stati Uniti e dalla NATO, costituendo quindi una reale cospirazione che contrappone profughi disperati e/o appositamente sfruttati provenienti dalla Turchia, a un pubblico europeo manipolato, timoroso e male informato.
Lo stesso vale per tutta quella serie di attacchi programmati in vari paesi Europei – attribuiti ad ISIS. In tutti i casi avvenuti, senza alcuna eccezione, gli autori erano già noti alle agenzia d’intelligence occidentali, come nel caso del massacro del Charlie Hebdo. Tutti gli individui coinvolti erano stati monitorati per quasi dieci anni dall’agenzia di sicurezza francese. Uno di loro, che è stato arrestato, durante il periodo di sorveglianza aveva anche viaggiato all’estero, divenendo complice di al Qaeda, ed era tranquillamente tornato in Francia. E neanche a farlo apposta, le agenzie d’intelligence francesi avevano interrotto solo sei mesi prima la loro sorveglianza a causa di “mancanza di risorse”.
Quelli a cui è familiare il programma ‘Gladio’ della NATO degli anni della Guerra Fredda, comprendono facilmente che si è trattato di attacchi pianificati, nel quadro di una strategia della tensione intesa a creare paura e timore all’interno del paese e raccogliere consenso per le guerre all’estero.
La recente crisi dei rifugiati viene utilizzata allo stesso scopo. Infatti, mentre i mezzi stampa occidentali alimentano un falso dibattito tra vari personaggi politici sull’accettare o rifiutare incondizionatamente i profughi, l’unico argomento su cui si cerca di creare accordo tra le due ‘correnti’ è che la responsabilità del problema risiede nell’ instabilità di tutta l’area MENA e che quindi si renderanno necessari ulteriori bombardamenti…
Gli attuali dibattiti sull’opportunità di un intervento militare diretto in Siria ormai non riguardano più il “sostegno ai combattenti per la libertà” o il “fermare gli WMD” o la “lotta contro ISIS”; ma solo “un intervento militare che può aiutare a risolvere la “crisi dei rifugiati”.
I titoli dei maggiori mezzi di stampa occidentali non fanno alcun cenno al ruolo che l’Occidente ha avuto nella distruzione dell’area MENA, e neanche al fatto che questa crisi trae origine dall’interno della NATO e non tanto dall’esterno. I rifugiati non sono che pedine, volutamente spostate da una parte all’altra della scacchiera per provocare una prevedibile reazione da parte dei loro avversari del tutto impreparati – il pubblico europeo. Mentre gli ingegneri sociali sono impegnati in una partita a scacchi tridimensionale, il pubblico occidentale sembra un bambino che si mette in bocca le pedine.
Considerando questa triste realtà, qualunque sia la giustificazione che l’Occidente darà alla crisi dei profughi, dovrà in ogni caso affrontare da solo il problema Siria e dei suoi alleati – con un pubblico europeo disperatamente indifeso di fronte ad una cospirazione di cui esso stesso si è reso complice.
INGEGNERIA SOCIALE vs L’INEVITABILE DECLINO DI UN IMPERO
Una crisi di rifugiati era inevitabile, indipendentemente dalla tempistica e dall’entità di qualsiasi ‘diluvio’ manipolato o fabbricato dall’Occidente. Distruggendo il pianeta per creare un impero, saccheggiando nazioni e depredando le ricchezze del mondo, inevitabilmente si provocano flussi infiniti di vittime defraudate alla ricerca della tana dei ‘ladri’. Mentre si espande un impero, e con esso il numero delle sue vittime, al numero di quelli che l’impero è in grado di assimilare al suo interno si contrappone il numero di quelli che invece ne restano sopraffatti. E alla fine dei conti, la bilancia pende sempre dalla parte di questi ultimi.
Fu proprio questo il destino dell’Impero Romano, che nel corso del suo declino, vide le sue istituzioni sopraffatte dai popoli che aveva conquistato più velocemente di quanto esse riuscissero ad assimilarli.
Tornando all’Occidente, esso ha preferito lo scontro alla cooperazione. Ha tagliato i suoi legami commerciali con la Russia, ha allontanato la Cina e continua a partecipare a guerre interminabili in tutta le regione MENA e in Asia Centrale. Si è lanciato in una pericolosa campagna di ‘dividit et impera’ nel Sud-Est Asiatico, condita da terrorismo e disordini politici, dimenticando tutte le virtù che lo resero all’inizio un potere mondiale di tutto rispetto.
Difficile dire quanto della recente crisi dei profughi sia da attribuire ad un’ ingegneria sociale e quanto all’inevitabile conseguenza di un impero in declino – anche se, il fatto che degli ‘ingegneri sociali’ siano stati tentati dallo sfruttare un gran numero di rifugiati creati dalle loro stesse politiche estere, è indicativo di un profondo e irreversibile declino geopolitico.
Tony Cartalucci, ricercatore e scrittore di geopolitica, vive a Bangkok, scrive in particolare per la rivista online “New Eastern Outlook”
13.09.2015
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=15591
Su Twitter: @GiampaoloRossi
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Se il Mediterraneo esplode: i numeri (veri) e le conseguenze (non dette) dell’emergenza profughi
LA DESTABILIZZAZIONE DI UN MONDO
La priorità è l’accoglienza di quanti, disperati, sono fuggiti dai propri paesi devastati dalla guerra e dalla persecuzione. Questo è chiaro. E non abbiamo bisogno delle lezioncine morali di mediocri leader e tecnocrati imbelli per sapere che su questo si fonda la nostra civiltà europea.
Quello a cui stiamo assistendo non è un eccezionale flusso migratorio dovuto a circostanze particolari (guerre, carestie) ma alla completa destabilizzazione di una parte del mondo, precipitata in un caos (in buona parte generato dall’irresponsabilità dell’Occidente) e al sorgere di un esodo di dimensioni bibliche; qualcosa che non ha eguali nella storia recente. All’interno di questo flusso si mischiano molti fattori per i quali è difficile discernere coloro che fuggono realmente perché impossibilitati a continuare a vivere nel loro paese o perché perseguitati e coloro che invece, per diverse ragioni, decidono volontariamente di andarsene dal paese d’origine.
La priorità è l’accoglienza di quanti, disperati, sono fuggiti dai propri paesi devastati dalla guerra e dalla persecuzione. Questo è chiaro. E non abbiamo bisogno delle lezioncine morali di mediocri leader e tecnocrati imbelli per sapere che su questo si fonda la nostra civiltà europea.
Quello a cui stiamo assistendo non è un eccezionale flusso migratorio dovuto a circostanze particolari (guerre, carestie) ma alla completa destabilizzazione di una parte del mondo, precipitata in un caos (in buona parte generato dall’irresponsabilità dell’Occidente) e al sorgere di un esodo di dimensioni bibliche; qualcosa che non ha eguali nella storia recente. All’interno di questo flusso si mischiano molti fattori per i quali è difficile discernere coloro che fuggono realmente perché impossibilitati a continuare a vivere nel loro paese o perché perseguitati e coloro che invece, per diverse ragioni, decidono volontariamente di andarsene dal paese d’origine.
Per capire la portata di ciò che sta succedendo (e che non raccontano) ci baseremo su una serie di dati ufficiali e di infografiche (alcune rielaborate da noi) che consentiranno di leggere il fenomeno in maniera non filtrata.
EPICENTRO SIRIA
Negli ultimi due anni, con l’intensificarsi della guerra civile e l’avanzata dell’Isis, la Siria è diventata l’epicentro di un disastro annunciato. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), a luglio scorso erano oltre 4 milioni i siriani in fuga dal proprio paese; altri 7,6 milioni i profughi rimasti dentro il paese ma che hanno dovuto abbandonare le loro case e rifugiarsi in zone spesso impervie ed irraggiungibili agli aiuti umanitari.
Il Commissario Onu, António Guterres, ha dichiarato: siamo di fronte “alla popolazione di rifugiati più grande mai manifestatasi per singolo conflitto in una sola generazione”.
Negli ultimi due anni, con l’intensificarsi della guerra civile e l’avanzata dell’Isis, la Siria è diventata l’epicentro di un disastro annunciato. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), a luglio scorso erano oltre 4 milioni i siriani in fuga dal proprio paese; altri 7,6 milioni i profughi rimasti dentro il paese ma che hanno dovuto abbandonare le loro case e rifugiarsi in zone spesso impervie ed irraggiungibili agli aiuti umanitari.
Il Commissario Onu, António Guterres, ha dichiarato: siamo di fronte “alla popolazione di rifugiati più grande mai manifestatasi per singolo conflitto in una sola generazione”.
Come è normale, questa impressionante moltitudine di uomini, donne e bambini si è riversata inizialmente nei paesi confinanti che hanno sopportato il peso maggiore. Sempre secondo l’Unhcr, ad oggi, Turchia e Libano hanno accolto ciascuno 1,5 milioni di profughi; oltre 600.000 ne ha accolti la Giordania.
IL PIÙ GRANDE ESODO
I rifugiati sono un problema mondiale che attiene non solo ai molteplici focolai di guerra ma anche a processi di esodo facilitati dalla globalizzazione. Complessivamente, nel 2014, sono stati stimati nel mondo oltre 59 milioni tra profughi e rifugiati, quasi tutti concentrati in Africa e Medio Oriente. La seconda infografica dell’Ispi (l’Istituto per gli Studi della Politica Internazionale) mostra come oltre alla Siria, epicentro in questo momento, i primi 10 paesi che conoscono il dramma dell’esodo sono: Iraq, Afghanistan, Somalia, Sudan, Congo, Eritrea, Pakistan e Repubblica Centrafricana.
I rifugiati sono un problema mondiale che attiene non solo ai molteplici focolai di guerra ma anche a processi di esodo facilitati dalla globalizzazione. Complessivamente, nel 2014, sono stati stimati nel mondo oltre 59 milioni tra profughi e rifugiati, quasi tutti concentrati in Africa e Medio Oriente. La seconda infografica dell’Ispi (l’Istituto per gli Studi della Politica Internazionale) mostra come oltre alla Siria, epicentro in questo momento, i primi 10 paesi che conoscono il dramma dell’esodo sono: Iraq, Afghanistan, Somalia, Sudan, Congo, Eritrea, Pakistan e Repubblica Centrafricana.
La stessa infografica (che si può vedere interamente qui) spiega che l’86% dei rifugiati è accolto in paesi in via di sviluppo; il Kenya, Ciad, Uganda, Etiopia
GLI ARRIVI IN EUROPA
La terza infografica mostra i numeri dell’esodo in Europa.
La terza infografica mostra i numeri dell’esodo in Europa.
- In quanti sono arrivati?
Secondo i dati dell’UNHCR, dall’inizio del 2015 al momento in cui stiamo scrivendo questo post, sono arrivate in Europa 442.421 persone tra migranti, profughi e rifugiati (il 70% in più dell’intero scorso anno) - Dove approdano?
Il 71% (318.489) hanno raggiunto le coste greche, il 28% quelle italiane (121.500) e meno dell’1% è approdato in Spagna e a Malta. Fino allo scorso anno le moltitudini di migranti o profughi approdavano prevalentemente in Italia. Dal 2010 al 2014 su quasi 600.000 clandestini, circa 300.000 sono arrivati in Italia. Quest’anno il disastro umanitario in Siria spinge buona parte dei fuggitivi in Grecia, privilegiando la rotta balcanica a quella del Mediterraneo Centrale - Da dove vengono?
Il 51% delle persone proviene, ovviamente, dalla Siria devastata dalla Guerra civile; il 14% dall’Afghanistan, l’8% dall’Eritrea, il 4% da Nigeria e poi da restanti paesi. - Un raffronto temporale
Un dato interessante riguarda l’arco temporale degli ultimi 5 anni: nel 2010 le persone che con mezzi di fortuna arrivarono in Europa attraverso il Mediterraneo furono solo 9.700; con l’inizio della Primavera Araba (fine 2010) e soprattutto con l’abbattimento del regime libico e la morte di Gheddafi (ottobre 2011) il numero salì a 70.000. Nel 2014 (con la destabilizzazione dell’intera area), sono approdate sulle coste europee 220.000 persone, un numero tre volte superiore; numero già ampiamente superato nei primi 9 mesi del 2015. Negli ultimi 5 anni l’Europa ha accolto 750.000 profughi che diventeranno circa 1 milione entro la fine dell’anno. - Chi sono?
Questo è forse il dato più complesso da analizzare. La stragrande maggioranza (il 72%) di coloro che approdano in Europa sono maschi adulti, con netta prevalenza della fascia 18-34 anni. Questione delicata, perché in realtà le categorie più esposte ad una guerra sono donne e bambini che invece sono proprio quelli che non giungono in Europa. Alcuni fattori sono spiegabili: gli uomini adulti sono più adatti ad affrontare l’enorme pericolosità del viaggio. Ma forse c’è un ulteriore elemento che è confermato dai dati dei richiedenti asilo (e che vedremo dopo): e cioè che la maggioranza di coloro che vengono non sono profughi. - Dove vogliono andare?
Secondo i dati Eurostat del 2014, 9 nazioni europee su 28 raccolgono il 90% dei richiedenti asilo. Nell’ordine: Germania, Svezia, Italia, Francia, Ungheria, Gran Bretagna, Austria, Olanda e Belgio. In percentuale Italia e Ungheria sono i paesi che hanno incrementato maggiormente le richieste d’asilo rispetto all’anno precedente (Italia +143%, Ungheria + 126%) - Quanti non ce l’hanno fatta?
È il dato più terribile: a Settembre 2015 sono 2.814 i morti o dispersi. Il numero maggiore (2.621) nel tratto di mare che separa la Libia dall’Italia. I morti/dispersi nel Mediterraneo, rappresentano oltre il 70% dell’intero numero di morti e dispersi tra i rifugiati del mondo.
SONO MIGRANTI, PROFUGHI O RIFUGIATI?
Nel lessico comune, i tre termini vengono spesso assimilati; si tratta invece di categorie diverse che prevedono diverse metodologie di approccio.
Migrante: è colui che lascia la sua patria“volontariamente” per cercare condizioni di vita migliori in altri paesi (lavoro o diverso status sociale).
Profugo: è colui costretto a lasciare la sua casa o il suo paese per cause non legate ad una dimensione individuale (guerre, carestie, catastrofi naturali). Il profugo ha diritto ad una “protezione umanitaria” che gli garantisca gli elementari diritti e aiuti alla sopravvivenza.
Rifugiato: è colui costretto a lasciare il proprio paese perché perseguitato per ragioni individuali legate alla“razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche”. La figura del rifugiato è stabilita dalla Convenzione di Ginevra del 1951.
Nel lessico comune, i tre termini vengono spesso assimilati; si tratta invece di categorie diverse che prevedono diverse metodologie di approccio.
Migrante: è colui che lascia la sua patria“volontariamente” per cercare condizioni di vita migliori in altri paesi (lavoro o diverso status sociale).
Profugo: è colui costretto a lasciare la sua casa o il suo paese per cause non legate ad una dimensione individuale (guerre, carestie, catastrofi naturali). Il profugo ha diritto ad una “protezione umanitaria” che gli garantisca gli elementari diritti e aiuti alla sopravvivenza.
Rifugiato: è colui costretto a lasciare il proprio paese perché perseguitato per ragioni individuali legate alla“razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche”. La figura del rifugiato è stabilita dalla Convenzione di Ginevra del 1951.
A rifugiati e profughi vanno riconosciuti il diritto di asilo politico, di protezione sussidiaria o comunque l’accoglienza per ragioni umanitarie. Mentre i migranti, al pari di qualsiasi altro cittadino straniero, possono essere accolti nel rispetto delle legislazioni nazionali di ingresso e permanenza.
Nel 2104, su 357.000 immigrati che hanno fatto richiesta di asilo nei 28 paesi UE, solo a 160.000 (il 45%) sono stati riconosciuti i requisiti per lo status di rifugiato (90.000), la “protezione sussidiaria” (55.000) o l’accoglienza per “ragioni umanitarie” (15.500).
Questo significa che più della metà di coloro che sono arrivati in Europa lo scorso anno non sono né profughi, né rifugiati; non sono perseguitati e non incorrerebbero in reali pericoli se dovessero tornare nel loro paese.
Questo significa che più della metà di coloro che sono arrivati in Europa lo scorso anno non sono né profughi, né rifugiati; non sono perseguitati e non incorrerebbero in reali pericoli se dovessero tornare nel loro paese.
Questa situazione tenderà a modificarsi nei prossimi anni. Già ques’anno oltre il 75% di coloro che sono arrivati, proviene da Paesi ritenuti ad alta densità di profughi.
TRE CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
- UN PRECEDENTE: Nel 1948 la guerra arabo-israeliana produsse 700.000 rifugiati palestinesi. Quell’esodo, 7 volte più piccolo di quello che sta avvenendo in Siria, ha prodotto per 60 anni la destabilizzazione di un’intera area, un focolaio perenne di guerra e terrorismo su piano internazionale.Ciò che potrebbe generare nei prossimi anni la crisi siriana è solo lontanamente immaginabile; nel caso di una caduta del regime di Assad, una vittoria dei jihadisti dell’Isis, il consolidarsi del Califfato e la frantumazione (sul modello libico) della Siria produrrebbero un effetto domino su tutta l’area del Mediterraneo meridionale e orientale già attraversate da crisi profonde. I flussi migratori di questi ultimi mesi sono solo un piccolissimo “assaggio” di quello che l’Europa potrebbe subire nei prossimi anni.
- SI FUGGE DAL CAOS NON DALLA DITTATURA: i milioni di profughi non fuggono dalle dittature di despoti cattivi ma dal caos generato dalle guerre alimentate da Washington e Londra. Non fuggivano i libici da Gheddafi e non fuggivano i siriani da Assad. Fuggono ora che Washington e Londra hanno abbattuto o dissolto governi (autoritari ma legittimi) e l’ordine statuale che c’era in quei paesi; fuggono perché qualcuno ha voluto “esportare la democrazia”. Sono le bombe umanitarie a creare i disastri umanitari.
- L’EUROPA SI SVEGLI!!! Di fronte a tutto questo, l’Europa non esiste. L’attuale situazione, prevista con largo anticipo, ha trovato le classi dirigenti europee distratte o stupidamente passive. Da mesi i leader europei si riuniscono per discutere le regole sull’accoglienza, stabilire quote, ridisegnare norme, ma nessuno che prenda l’iniziativa per fermare una sciagurata strategia politica che, dalla Primavera Araba, alla guerra alla Libia fino all’attuale disastro siriano, è stata voluta e perpetuata da Usa e Gran Bretagna. È impressionante notare come l’Europa non abbia una minima idea di quali siano i suoi interessi strategici nelle aree vitali per la propria sicurezza (Mediterraneo e Balcani); aree che gli europei sembrano considerare al pari del Togo o del Madagascar.
L’UMANITARISMO NON BASTERÀ
L’Europa s’impegni a pensare il Mediterraneo come un suo spazio vitale non solo come il laboratorio degli esperimenti geopolitici di lobby atlantiste; e si ponga come centro di un processo di mediazione con Russia, Israele e mondo arabo per trovare una soluzione che riporti almeno una parvenza di ordine statuale nel caos prodotto scientificamente dai Dott. Stranamore d’oltreoceano e d’oltremanica; anche se questo comporterà la ricerca di nuove alleanze e diversi spazi d’influenza.
Lo faccia, se non vuole essere travolta dalla disperazione di ciò che ha contribuito a produrre, perché, ormai è chiaro: l’umanitarismo non basterà a salvarla, se il Mediterraneo esplode.
L’Europa s’impegni a pensare il Mediterraneo come un suo spazio vitale non solo come il laboratorio degli esperimenti geopolitici di lobby atlantiste; e si ponga come centro di un processo di mediazione con Russia, Israele e mondo arabo per trovare una soluzione che riporti almeno una parvenza di ordine statuale nel caos prodotto scientificamente dai Dott. Stranamore d’oltreoceano e d’oltremanica; anche se questo comporterà la ricerca di nuove alleanze e diversi spazi d’influenza.
Lo faccia, se non vuole essere travolta dalla disperazione di ciò che ha contribuito a produrre, perché, ormai è chiaro: l’umanitarismo non basterà a salvarla, se il Mediterraneo esplode.
Su Twitter: @GiampaoloRossi
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