Lo scisma e l’eresia (di fatto) sono già tra noi?
Finito il Sinodo. Scongiurato il rischio scisma di cui da tempo suonava l’allarme (si vedano ad esempio le dichiarazione del Card. Müller). Siamo sicuri sia così? Siamo sicuri cioè che questo allarme non sia fondato o, almeno, sia stato scongiurato?
Qui non entro nel merito della Relazione finale del Sinodo 2015 e dei soliti normalisti che, dimenticando o ignorando (?) gli ultimi 50/60 anni, ironizzano su chi evidenzia le profonde problematiche del documento e di tutto quel che gli circola intorno. Questa, a ben vedere, è una delle parti del problema. Il mio pensiero va oltre ed è forse ben più grave.
Non c’era un rischio scisma, men che meno questo è stato scongiurato, per il semplice fatto che lo scisma, di fatto, già c’è.
Qui non entro nel merito della Relazione finale del Sinodo 2015 e dei soliti normalisti che, dimenticando o ignorando (?) gli ultimi 50/60 anni, ironizzano su chi evidenzia le profonde problematiche del documento e di tutto quel che gli circola intorno. Questa, a ben vedere, è una delle parti del problema. Il mio pensiero va oltre ed è forse ben più grave.
Non c’era un rischio scisma, men che meno questo è stato scongiurato, per il semplice fatto che lo scisma, di fatto, già c’è.
Da un po’ di tempo il mio pensiero, pur se preoccupato, non è più occupato da questo: lo dà per scontato. Troppi fatti concludenti.
L’andamento e la conclusione del Sinodo non hanno fatto altro che confermare la situazione. C’è solo bisogno della dichiarazione che lo renda formalmente e definitivamente compiuto, che lo renda “esecutivo”, per usare un termine giuridico.
Oramai di questo aspetto (scisma o non scisma) mi incuriosisce solo la tempistica, ossia se e quando ci sarà mai questa formalizzazione. Perché credo, anzi sono sempre più convinto, che non ci sarà mai.
La spia che si è accesa da un po’ nel mio cervello, invece, è quella che segnala la presenza della parente diretta e, a volte, non parallela dello scisma: l’eresia.
1. Cosa sono lo scisma e l’eresia
Scisma «è la volontaria separazione dall’unità della Chiesa in quanto società risultante dai fedeli come membri e dal romano pontefice come capo» (Enciclopedia Cattolica, voce Scisma).
Scismatici sono, quindi, coloro che «ricusano di sottostare al pontefice e di comunicare con coloro che sono sottoposti a lui» (ivi), coloro «che ostinatamente e notoriamente vanno contro l’autorità della Chiesa e da essa si staccano cessano di essere membri» (Somma di Teologia dogmatica di P. Giuseppe Casali).
Eresia, invece, può definirsi «una dottrina che contraddice direttamente a una verità rivelata e come tale proposta dalla Chiesa ai fedeli» (E.C. voce Eresia) o, anche solamente, «il dubbio ostinato su di essa» (Cod. Dir. Can., 751). Eretici sono coloro che «esteriormente rifiutano con pertinacia qualche verità della fede» (Casali, cit.).
A dimostrazione dello stretto legame tra le due figure l’Enciclopedia Cattolica specifica che «lo scisma è misto e puro a secondo che la separazione dall’unità sia accompagnata o non dall’eresia» e che «dopo che il Concilio Vaticano I definì verità di fede il primato del romano pontefice non è più possibile lo scisma senza l’eresia».
Restano comunque due peccati separati dal diverso oggetto formale: una va contro l’unità, l’altra contro la virtù della fede. Sia lo scisma che l’eresia sono formali e materiali, a seconda che siano o meno congiunti con la pertinacia; pubbliche o occulte, se dichiarato o meno.
Per poter gridare allo scisma però ci deve essere la piena avvertenza e l’ostinazione in materia grave, oltre la manifestazione pubblica o almeno il carattere per sé esterno e costatabile.
Per potersi dire eresia, invece, si devono riscontrare tre elementi: «1. una verità rivelata, contenuta cioè implicitamente o esplicitamente, ma formalmente in una almeno delle due fonti della Rivelazione (…) 2. Un intervento del magistero infallibile della Chiesa che attesti il carattere rivelato della dottrina, per cui ciò che prima era solo oggetto di fede divina, viene ad assumere la qualifica di verità da credersi per fede divina e cattolica. 3. Un’opposizione alla verità rivelata (…) immediata, diretta e contraddittoria» (E.C. voce Eresia). In mancanza, si parlerà di prossimità all’eresia o di erroneità, in base a quel che va a negare.
Sono ambedue scomunicati latae sententiae (C.D.C. 1364), ma per poter diventare oggetto di sanzioni canoniche lo scisma e l’eresia devono essere manifeste, pubbliche, non rimanere nel foro interno. E «tale manifestazione esterna può esprimersi in qualsiasi maniera, con segni, scritti, parole e azioni purché risulti sufficientemente che si tratta di un’adesione vera e propria e per di più pienamente deliberata» (E.C. voce Eresia).
Scisma «è la volontaria separazione dall’unità della Chiesa in quanto società risultante dai fedeli come membri e dal romano pontefice come capo» (Enciclopedia Cattolica, voce Scisma).
Scismatici sono, quindi, coloro che «ricusano di sottostare al pontefice e di comunicare con coloro che sono sottoposti a lui» (ivi), coloro «che ostinatamente e notoriamente vanno contro l’autorità della Chiesa e da essa si staccano cessano di essere membri» (Somma di Teologia dogmatica di P. Giuseppe Casali).
Eresia, invece, può definirsi «una dottrina che contraddice direttamente a una verità rivelata e come tale proposta dalla Chiesa ai fedeli» (E.C. voce Eresia) o, anche solamente, «il dubbio ostinato su di essa» (Cod. Dir. Can., 751). Eretici sono coloro che «esteriormente rifiutano con pertinacia qualche verità della fede» (Casali, cit.).
A dimostrazione dello stretto legame tra le due figure l’Enciclopedia Cattolica specifica che «lo scisma è misto e puro a secondo che la separazione dall’unità sia accompagnata o non dall’eresia» e che «dopo che il Concilio Vaticano I definì verità di fede il primato del romano pontefice non è più possibile lo scisma senza l’eresia».
Restano comunque due peccati separati dal diverso oggetto formale: una va contro l’unità, l’altra contro la virtù della fede. Sia lo scisma che l’eresia sono formali e materiali, a seconda che siano o meno congiunti con la pertinacia; pubbliche o occulte, se dichiarato o meno.
Per poter gridare allo scisma però ci deve essere la piena avvertenza e l’ostinazione in materia grave, oltre la manifestazione pubblica o almeno il carattere per sé esterno e costatabile.
Per potersi dire eresia, invece, si devono riscontrare tre elementi: «1. una verità rivelata, contenuta cioè implicitamente o esplicitamente, ma formalmente in una almeno delle due fonti della Rivelazione (…) 2. Un intervento del magistero infallibile della Chiesa che attesti il carattere rivelato della dottrina, per cui ciò che prima era solo oggetto di fede divina, viene ad assumere la qualifica di verità da credersi per fede divina e cattolica. 3. Un’opposizione alla verità rivelata (…) immediata, diretta e contraddittoria» (E.C. voce Eresia). In mancanza, si parlerà di prossimità all’eresia o di erroneità, in base a quel che va a negare.
Sono ambedue scomunicati latae sententiae (C.D.C. 1364), ma per poter diventare oggetto di sanzioni canoniche lo scisma e l’eresia devono essere manifeste, pubbliche, non rimanere nel foro interno. E «tale manifestazione esterna può esprimersi in qualsiasi maniera, con segni, scritti, parole e azioni purché risulti sufficientemente che si tratta di un’adesione vera e propria e per di più pienamente deliberata» (E.C. voce Eresia).
2. Ci sono una legge divina e un magistero ordinario infallibile sulle tematiche del Sinodo?
Sappiamo che il Magistero ordinario è da considerarsi infallibile quando un particolare insegnamento è stato costante nel corso del tempo e universalmente seguito dalla Chiesa. Così, anche non impegnando l’infallibilità, il Magistero può “imporre” un assenso di fede per la sua costante e universale coerenza.
Il fatto che i divorziati civilmente risposati conviventi more uxorio non possono avvicinarsi alla Comunione è proposto a credere come rivelato dalla Chiesa, non è quindi più possibile rimetterlo in discussione. Questo, innanzitutto per legge divina.
Si ricorda infatti che N.S. Gesù Cristo prese esplicitamente le distanze dalla prassi veterotestamentaria del divorzio, concesso da Mosè solo a causa della «durezza del cuore» degli uomini, e ridette valore alla volontà originaria di Dio, rendendola così di nuovo legge intoccabile (Mc, 10, 5-9; cfr. Mt, 19, 4-9; Lc, 16, 18).
S. Paolo inizia l’insegnamento a cui la Chiesa si rifarà per 2000 anni, ricordando che «ordino non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito – e qualora si separi rimanga senza sposarsi o si riconcili col marito – e il marito non ripudi la moglie» (1Cor., 7, 10-11), per poi ammonire che «chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore (…) perché chi beve e mangia senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1Cor 11, 27-29).
Poiché, dunque, deriva dalla volontà del Signore, la Chiesa non ha nessun potere per eventuali cambiamenti. Evidente l’intoccabilità di tali disposizioni. Non ci sono leggi umane che possono derogare a quelle divine.
Se, però, a qualcuno non bastasse la legge divina (visti i tempi, non si sa mai…), c’è anche l’evidenza di un chiaro e infallibile magistero ordinario della Chiesa che, poggiando le basi sulle parole di Cristo, si estende nel corso dei secoli con una costanza temporale ininterrotta.
La Chiesa, infatti, sin dal tempo dei Padri esclude chiaramente divorzio e nuove nozze e i separati che si erano risposati non venivano riammessi ai sacramenti, nemmeno dopo un periodo di penitenza.
L’elenco degli atti di magistero ordinario che fondano l’infallibilità sarebbe lunghissimo e non è il caso di appesantire questo già lungo articolo, anche perché molti sono notissimi. Lascio alla curiosità del lettore l’eventuale ricerca degli stessi, senza tema di smentita.
Il Concilio di Trento, tra l’altro, impegna anche l’infallibilità presentando tutti gli elementi richiesti poi dalla Pastor aeternus, in particolare evidenziando la volontà di definire dato che «stabilisce che questa norma debba essere sempre osservata da tutti i cristiani…».
Sappiamo che il Magistero ordinario è da considerarsi infallibile quando un particolare insegnamento è stato costante nel corso del tempo e universalmente seguito dalla Chiesa. Così, anche non impegnando l’infallibilità, il Magistero può “imporre” un assenso di fede per la sua costante e universale coerenza.
Il fatto che i divorziati civilmente risposati conviventi more uxorio non possono avvicinarsi alla Comunione è proposto a credere come rivelato dalla Chiesa, non è quindi più possibile rimetterlo in discussione. Questo, innanzitutto per legge divina.
Si ricorda infatti che N.S. Gesù Cristo prese esplicitamente le distanze dalla prassi veterotestamentaria del divorzio, concesso da Mosè solo a causa della «durezza del cuore» degli uomini, e ridette valore alla volontà originaria di Dio, rendendola così di nuovo legge intoccabile (Mc, 10, 5-9; cfr. Mt, 19, 4-9; Lc, 16, 18).
S. Paolo inizia l’insegnamento a cui la Chiesa si rifarà per 2000 anni, ricordando che «ordino non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito – e qualora si separi rimanga senza sposarsi o si riconcili col marito – e il marito non ripudi la moglie» (1Cor., 7, 10-11), per poi ammonire che «chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore (…) perché chi beve e mangia senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1Cor 11, 27-29).
Poiché, dunque, deriva dalla volontà del Signore, la Chiesa non ha nessun potere per eventuali cambiamenti. Evidente l’intoccabilità di tali disposizioni. Non ci sono leggi umane che possono derogare a quelle divine.
Se, però, a qualcuno non bastasse la legge divina (visti i tempi, non si sa mai…), c’è anche l’evidenza di un chiaro e infallibile magistero ordinario della Chiesa che, poggiando le basi sulle parole di Cristo, si estende nel corso dei secoli con una costanza temporale ininterrotta.
La Chiesa, infatti, sin dal tempo dei Padri esclude chiaramente divorzio e nuove nozze e i separati che si erano risposati non venivano riammessi ai sacramenti, nemmeno dopo un periodo di penitenza.
L’elenco degli atti di magistero ordinario che fondano l’infallibilità sarebbe lunghissimo e non è il caso di appesantire questo già lungo articolo, anche perché molti sono notissimi. Lascio alla curiosità del lettore l’eventuale ricerca degli stessi, senza tema di smentita.
Il Concilio di Trento, tra l’altro, impegna anche l’infallibilità presentando tutti gli elementi richiesti poi dalla Pastor aeternus, in particolare evidenziando la volontà di definire dato che «stabilisce che questa norma debba essere sempre osservata da tutti i cristiani…».
3. Le argomentazioni pre e intra Sinodo
Nel corso degli ultimi tempi, anche durante il Sinodo, si sta assistendo a continue esternazioni da parte di uomini di Chiesa, a volte anche di alte cariche, che oggettivamente contrastano con la legge divina e il Magistero ordinario infallibile.
Si ricordano, ad esempio, alcune affermazioni del Card. Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e presidente dei vescovi tedeschi, che ricorda come una schiacciante maggioranza dei vescovi tedeschi è favorevole a dare la Comunione ai divorziati.
Senza voler approfondire altre sue affermazioni opposte al costante e immutabile insegnamento della Chiesa («Non siamo una filiale di Roma e non sarà un Sinodo a dirci cosa fare qui», contrario al Primato petrino; apertura alla coppia omosessuale:«I cattolici possono imparare da Lutero»), ricordiamo che il Card. Marx, trova appoggio in un documento dell’altro grande protagonista tedesco degli ultimi tempi: il Card. Kasper.
Sempre in terra teutonica la Conferenza Episcopale il 24 giugno 2014 ha approvato un documento che svela come in Germania già si mette in pratica l’assoluzione e la Comunione eucaristica ai divorziati risposati e la ZdK (Commissione centrale dei cattolici tedeschi) in un documento del 9 maggio 2015 auspica forme di benedizione delle convivenze omosessuali così come di quelle eterosessuali.
Non è solo in terra di Germania che si sentono dichiarazioni o si leggono documenti di questo tipo. Lo dimostra l’Instrumentum laboris del Sinodo 2015 che al suo interno ha frasi molto chiare.
Il punto 122 espressamente afferma di aver «riflettuto sulla possibilità che i divorziati e risposati accedano ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia», in palese contrasto con il costante insegnamento della Chiesa che ha sempre ribadito l’impossibilità del dubbio volontario in materia di fede (Cfr. Concilio Vaticano I e can. 2088 Catechismo della Chiesa Cattolica).
In sostanza, questo documento «ammette la possibilità di ciò che, per un cattolico, è del tutto impossibile. L’accesso alla comunione sacramentale ai divorziati risposati è presentata come una legittima possibilità, quando, invece, tale possibilità è stata già definita illecita dal magistero precedente». È proprio il n. 122 a dirci che è così e che non stiamo esagerando.
Ci porta, infatti, a conoscenza del fatto che «diversi Padri sinodali hanno insistito a favore della disciplina attuale (…) altri si sono espressi per un’accoglienza non generalizzata alla mensa eucaristica, in alcune situazioni particolari ed a condizioni ben precise» e concludendo che «va ancora approfondita la questione».
Come si nota, passa il messaggio che sul punto c’è una “sana” discussione. Peccato che su questi temi discussione, men che meno sana, non ci possa essere perché sono definiti infallibilmente.La Relazione finale del Sinodo 2015 è l’ulteriore conferma di questa situazione.
Anche qui non entro nel merito (rimando a chi, più qualificato di me, l’ha già fatto), ma, per quel che serve a questo articolo, basta mettere l’accento su quel «membra vive della Chiesa» (par. 84) riferito ai divorziati risposati che porta dritto dritto allo stato di grazia di un peccatore, cosa inaudita nella Chiesa.
La stessa divisione nella votazione di questi paragrafi, tra l’altro, in sé è un chiaro segnale.
In conclusione vi è una parte della Chiesa che espressamente e oramai senza timore, quasi con ostentazione, si schiera con soluzioni oggettivamente in contrasto con la legge divina e il Magistero ordinario infallibile della Chiesa di cui fanno parte.
Nel corso degli ultimi tempi, anche durante il Sinodo, si sta assistendo a continue esternazioni da parte di uomini di Chiesa, a volte anche di alte cariche, che oggettivamente contrastano con la legge divina e il Magistero ordinario infallibile.
Si ricordano, ad esempio, alcune affermazioni del Card. Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e presidente dei vescovi tedeschi, che ricorda come una schiacciante maggioranza dei vescovi tedeschi è favorevole a dare la Comunione ai divorziati.
Senza voler approfondire altre sue affermazioni opposte al costante e immutabile insegnamento della Chiesa («Non siamo una filiale di Roma e non sarà un Sinodo a dirci cosa fare qui», contrario al Primato petrino; apertura alla coppia omosessuale:«I cattolici possono imparare da Lutero»), ricordiamo che il Card. Marx, trova appoggio in un documento dell’altro grande protagonista tedesco degli ultimi tempi: il Card. Kasper.
Sempre in terra teutonica la Conferenza Episcopale il 24 giugno 2014 ha approvato un documento che svela come in Germania già si mette in pratica l’assoluzione e la Comunione eucaristica ai divorziati risposati e la ZdK (Commissione centrale dei cattolici tedeschi) in un documento del 9 maggio 2015 auspica forme di benedizione delle convivenze omosessuali così come di quelle eterosessuali.
Non è solo in terra di Germania che si sentono dichiarazioni o si leggono documenti di questo tipo. Lo dimostra l’Instrumentum laboris del Sinodo 2015 che al suo interno ha frasi molto chiare.
Il punto 122 espressamente afferma di aver «riflettuto sulla possibilità che i divorziati e risposati accedano ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia», in palese contrasto con il costante insegnamento della Chiesa che ha sempre ribadito l’impossibilità del dubbio volontario in materia di fede (Cfr. Concilio Vaticano I e can. 2088 Catechismo della Chiesa Cattolica).
In sostanza, questo documento «ammette la possibilità di ciò che, per un cattolico, è del tutto impossibile. L’accesso alla comunione sacramentale ai divorziati risposati è presentata come una legittima possibilità, quando, invece, tale possibilità è stata già definita illecita dal magistero precedente». È proprio il n. 122 a dirci che è così e che non stiamo esagerando.
Ci porta, infatti, a conoscenza del fatto che «diversi Padri sinodali hanno insistito a favore della disciplina attuale (…) altri si sono espressi per un’accoglienza non generalizzata alla mensa eucaristica, in alcune situazioni particolari ed a condizioni ben precise» e concludendo che «va ancora approfondita la questione».
Come si nota, passa il messaggio che sul punto c’è una “sana” discussione. Peccato che su questi temi discussione, men che meno sana, non ci possa essere perché sono definiti infallibilmente.La Relazione finale del Sinodo 2015 è l’ulteriore conferma di questa situazione.
Anche qui non entro nel merito (rimando a chi, più qualificato di me, l’ha già fatto), ma, per quel che serve a questo articolo, basta mettere l’accento su quel «membra vive della Chiesa» (par. 84) riferito ai divorziati risposati che porta dritto dritto allo stato di grazia di un peccatore, cosa inaudita nella Chiesa.
La stessa divisione nella votazione di questi paragrafi, tra l’altro, in sé è un chiaro segnale.
In conclusione vi è una parte della Chiesa che espressamente e oramai senza timore, quasi con ostentazione, si schiera con soluzioni oggettivamente in contrasto con la legge divina e il Magistero ordinario infallibile della Chiesa di cui fanno parte.
4. Conclusioni
Non mi stupisce che la dottrina sulla indissolubilità del matrimonio e la conseguente impossibilità di avvicinarsi all’Eucaristia dei divorziati risposati civilmente, in un mondo secolarizzato come il nostro, incontri incomprensione e sia mal tollerata.
Mondo secolarizzato d’altronde non vuol dir altro che aver smarrito le ragioni e le basi fondamentali della propria fede e, in questi casi, una adesione strettamente convenzionale alla Chiesa non può essere d’aiuto nelle crisi del matrimonio, rivelandosi anzi controproducente.
Quel che lascia invece basiti è il notare l’espandersi a macchia d’olio e senza freni di alcune idee, tipiche del mondo secolarizzato, all’interno della Chiesa, della gerarchia ecclesiastica.
Sia ben chiaro, sono il primo a sapere che la Chiesa ha sempre avuto problemi nel far comprendere e accettare la dottrina pervenutale da Cristo e che ha sempre dovuto combattere per rintuzzare ogni volta un errore diverso. So bene, però, anche che la Chiesa ha sempre risposto in modo forte e fermo, ufficializzando quel che era scisma e quel che era eresia. Mai lasciando correre, mai lasciando che si creassero situazioni che permettessero confusione, equivoci.
Qui invece siamo alla luce del sole. Siamo a frasi, dichiarazioni, documenti ufficiali che apertamente e in modo oggettivo affermano e chiedono, quasi pretendono, di passare pur in contrasto con l’insegnamento di Cristo e della Chiesa, senza che ci sia un fiato da parte di quasi tutta la gerarchia, dell’autorità a chiarire le cose.
Alla luce di quanto esposto, continuo a chiedermi se sono io a sbagliare nel temere che… altro che scisma, qui siamo all’eresia, almeno materiale, “latente”.
Ci sta tutta la definizione sopra riportata: «Una dottrina che contraddice direttamente a una verità rivelata e come tale proposta dalla Chiesa ai fedeli»: apertura all’accesso dei divorziati risposati civilmente all’Eucaristia contro insegnamento infallibile sull’impossibilità di accedervi.
O, anche solamente, «il dubbio ostinato su di essa»: aver «riflettuto sulla possibilità che i divorziati e risposati accedano ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia» (Instrumentum laboris 2015) contro il constante insegnamento della Chiesa che ha sempre ribadito l’impossibilità del dubbio volontario in materia di fede (Cfr. Concilio Vaticano I e can. 2088 Catechismo della Chiesa Cattolica).
A chi, istintivamente o meditatamente, si accingesse a rispondermi con la storia della pura discussione, del sano dialogo, rispondo che la cosa non regge. Nessun dialogo è sano quando si tratta di verità di fede. Non vi sembra infatti che anche solo ammettere che si possa dialogarne, non per approfondirle senza mutarne il senso, ma per ragionare sulla loro esattezza (perché è di questo che si discute, se si vogliono cambiare!), non sia già abbondantemente dentro il concetto di “dubbio volontario (e pertinace) in materia di fede”?
Era giusta la sensazione che alla fine del Sinodo si sarebbe adottata la tattica molto democristiana di non prendere decisioni epocali e di lasciar solo passare il concetto che comunque se ne può discutere (se è stato fatto in un Sinodo…). Con il conseguente passo di lasciare anche stavolta tutto all’azione pastorale, appoggiandosi a documenti non chiarissimi, che è diventata l’arma più efficace di chi mira allo stravolgimento della Chiesa e della sua dottrina. Men che meno si pensava ci sarebbe stato alcuno scisma dichiarato, o addirittura formalizzazioni di eresie.
Alla luce di quanto esposto però mi sembra che la mancanza di una dichiarazione non renda meno grave quel che oramai è sotto gli occhi di tutti, almeno di chi vuol vedere e non normalizzare anche l’impossibile. E, forse, sarebbe ora che qualcuno si alzasse e formalizzasse il tutto invece di limitarsi al brontolio e al puro parlare senza agire.
Lo scampato pericolo, quindi, lascia ancor di più l’amaro in bocca, perché, è vero, sarebbe una catastrofe, ma sarebbero forse le classiche macerie su cui ricostruire definitivamente e tornare a parlare “sì sì no no”.
Non mi stupisce che la dottrina sulla indissolubilità del matrimonio e la conseguente impossibilità di avvicinarsi all’Eucaristia dei divorziati risposati civilmente, in un mondo secolarizzato come il nostro, incontri incomprensione e sia mal tollerata.
Mondo secolarizzato d’altronde non vuol dir altro che aver smarrito le ragioni e le basi fondamentali della propria fede e, in questi casi, una adesione strettamente convenzionale alla Chiesa non può essere d’aiuto nelle crisi del matrimonio, rivelandosi anzi controproducente.
Quel che lascia invece basiti è il notare l’espandersi a macchia d’olio e senza freni di alcune idee, tipiche del mondo secolarizzato, all’interno della Chiesa, della gerarchia ecclesiastica.
Sia ben chiaro, sono il primo a sapere che la Chiesa ha sempre avuto problemi nel far comprendere e accettare la dottrina pervenutale da Cristo e che ha sempre dovuto combattere per rintuzzare ogni volta un errore diverso. So bene, però, anche che la Chiesa ha sempre risposto in modo forte e fermo, ufficializzando quel che era scisma e quel che era eresia. Mai lasciando correre, mai lasciando che si creassero situazioni che permettessero confusione, equivoci.
Qui invece siamo alla luce del sole. Siamo a frasi, dichiarazioni, documenti ufficiali che apertamente e in modo oggettivo affermano e chiedono, quasi pretendono, di passare pur in contrasto con l’insegnamento di Cristo e della Chiesa, senza che ci sia un fiato da parte di quasi tutta la gerarchia, dell’autorità a chiarire le cose.
Alla luce di quanto esposto, continuo a chiedermi se sono io a sbagliare nel temere che… altro che scisma, qui siamo all’eresia, almeno materiale, “latente”.
Ci sta tutta la definizione sopra riportata: «Una dottrina che contraddice direttamente a una verità rivelata e come tale proposta dalla Chiesa ai fedeli»: apertura all’accesso dei divorziati risposati civilmente all’Eucaristia contro insegnamento infallibile sull’impossibilità di accedervi.
O, anche solamente, «il dubbio ostinato su di essa»: aver «riflettuto sulla possibilità che i divorziati e risposati accedano ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia» (Instrumentum laboris 2015) contro il constante insegnamento della Chiesa che ha sempre ribadito l’impossibilità del dubbio volontario in materia di fede (Cfr. Concilio Vaticano I e can. 2088 Catechismo della Chiesa Cattolica).
A chi, istintivamente o meditatamente, si accingesse a rispondermi con la storia della pura discussione, del sano dialogo, rispondo che la cosa non regge. Nessun dialogo è sano quando si tratta di verità di fede. Non vi sembra infatti che anche solo ammettere che si possa dialogarne, non per approfondirle senza mutarne il senso, ma per ragionare sulla loro esattezza (perché è di questo che si discute, se si vogliono cambiare!), non sia già abbondantemente dentro il concetto di “dubbio volontario (e pertinace) in materia di fede”?
Era giusta la sensazione che alla fine del Sinodo si sarebbe adottata la tattica molto democristiana di non prendere decisioni epocali e di lasciar solo passare il concetto che comunque se ne può discutere (se è stato fatto in un Sinodo…). Con il conseguente passo di lasciare anche stavolta tutto all’azione pastorale, appoggiandosi a documenti non chiarissimi, che è diventata l’arma più efficace di chi mira allo stravolgimento della Chiesa e della sua dottrina. Men che meno si pensava ci sarebbe stato alcuno scisma dichiarato, o addirittura formalizzazioni di eresie.
Alla luce di quanto esposto però mi sembra che la mancanza di una dichiarazione non renda meno grave quel che oramai è sotto gli occhi di tutti, almeno di chi vuol vedere e non normalizzare anche l’impossibile. E, forse, sarebbe ora che qualcuno si alzasse e formalizzasse il tutto invece di limitarsi al brontolio e al puro parlare senza agire.
Lo scampato pericolo, quindi, lascia ancor di più l’amaro in bocca, perché, è vero, sarebbe una catastrofe, ma sarebbero forse le classiche macerie su cui ricostruire definitivamente e tornare a parlare “sì sì no no”.
Nullità matrimoniali, la riforma si applica pienamente anche in Italia
Il Decano della Rota Romana: ogni vescovo può recedere dai tribunali regionali interdiocesani e costituire il proprio tribunale diocesano senza chiedere l'autorizzazione alla Santa Sede. Il Sostituto Becciu: mai negata lungo la storia l'autorità e la potestà di giudicare del vescovo
ANDREA TORNIELLI Città del VaticanoLe norme del motu proprio «Mitis iudex dominus Iesus», con le quali Papa Francesco ha rinnovato i processi per le nullità matrimoniali, snellendo e velocizzando le procedure, eliminando la necessità della doppia sentenza conforme e attribuendo nuove e dirette responsabilità ai singoli vescovi, si applica pienamente anche in Italia, nonostante la presenza nel nostro Paese dei tribunali regionali interdiocesani.
Lo ha spiegato il Decano della Rota Romana, Pio Vito Pinto, aprendo mercoledì scorso le attività accademiche 2015-2016 dello Studio rotale, un atto al quale è intervenuto il Sostituto della Segreteria di Stato Angelo Becciu. L'intervento di Pinto ha chiarito che i tribunali regionali in Italia, stabiliti nel 1938 da Pio XI e non specificamente aboliti da Papa Francesco nel suo motu proprio pubblicato l'8 settembre scorso, non impediscono l'applicazione della riforma.
Lo scorso 13 ottobre il Pontificio consiglio per i testi legislativi - con una risposta a firma del presidente Francesco Coccopalmerio e del segretario Juan Ignacio Arrieta - aveva dichiarato che le disposizioni date da Pio XI «vigenti finora, sulla cui base sono stati poi adottati dall'episcopato italiano altri provvedimenti, anche di natura economica, devono ritenersi in pieno vigore». Inoltre, si avvertiva: i vescovi «che eventualmente ritenessero di dover recedere dai Tribunali regionali dovranno ottenere la relativa "dispensa" della Santa Sede dalla norma generale», rivolgendosi al Tribunale della Segnatura Apostolica.
In realtà, ha detto il Decano della Rota, in forza del motu proprio papale, il vescovo diocesano non deve chiedere il permesso alla Santa Sede se intende recedere dal Tribunale regionale per costituire il proprio tribunale diocesano. Secondo quanto stabilito dalla riforma papale, questo nulla osta vaticano non è da chiedere nemmeno se due vescovi della stessa provincia ecclesiastica decidono di recedere dal tribunale regionale e di costituire un tribunale comune per le due diocesi. Il permesso alla Santa Sede va chiesto soltanto nel caso in cui quest'ultima iniziativa comune venga presa da due vescovi che appartengono a due diverse province ecclesiastiche. Insomma, la riforma delle nullità matrimoniali si applica pienamente anche in Italia ed entrerà in vigore come previsto l'8 dicembre.
«Il Santo Padre, al fine di una definitiva chiarezza nell’applicazione dei documenti pontifici sulla riforma matrimoniale, ha chiesto al decano della Rota romana che venga chiaramente manifestata la mens del supremo legislatore della Chiesa sui due motu proprio promulgati l’8 settembre 2015», ha affermato Pinto. «Il vescovo diocesano ha il diritto nativo e libero in forza di questa legge pontificia di esercitare personalmente la funzione di giudice e di erigere il suo tribunale diocesano». Inoltre, «i vescovi all’interno della provincia ecclesiastica possono liberamente decidere, nel caso non ravvedano la possibilità nell’imminente futuro di costituire il proprio tribunale, di creare un tribunale interdiocesano; rimanendo, a norma di diritto e cioè con licenza della Santa Sede, la capacità che metropoliti di due o più province ecclesiastiche possano convenire nel creare il tribunale interdiocesano sia di prima che di seconda istanza».
Nella sua prolusione, in quella stessa occasione, monsignor Becciu aveva notato che «il concetto di una potestas iudiciaria demandata a un tribunale interdiocesano o regionale, nella legislazione canonica era pressoché ignorato almeno fino al 1938, anno in cui Pio XI costituì in Italia i tribunali regionali, per le cause contenziose di nullità di matrimonio». Attraverso un documentato excursus storico, il Sostituto della Segreteria di Stato ha osservato che «la dottrina non ha mai negato la potestas iudicialis episcopalis e, nel solco di questa antica traditio Ecclesiae, l’intero magistero dei successori di Pietro lo ha più volte ribadito, soprattutto in occasione delle allocuzioni alla Rota Romana». Il «ritorno alla funzione personale del vescovo diocesano nel processo per la dichiarazione di nullità del matrimonio», stabilita da Papa Francesco, «è la risposta emersa dal Sinodo straordinario sulla famiglia».
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