ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 9 marzo 2016

Per padre il diavolo?

COSA DIAVOLO STA DICENDO ?

    Ma padre Ronchi cosa diavolo sta dicendo? E la sua sparata improvvisa sconcertante:"la Chiesa per troppo tempo ha trasmesso una concezione di Dio basata sulla paura; ha fatto come si direbbe oggi del terrorismo psicologico"
di Francesco Lamendola  

Padre Ermes Ronchi, friulano di Racchiuso d’Attimis, classe 1947, è un sacerdote servita che, dal 2009, ha sostituito Raniero Cantalamessa nella conduzione della rubrica televisiva Le ragioni della speranza; inoltre, dal 2016, su incarico di papa Francesco, tiene le meditazioni degli esercizi spirituali presso la Curia romana.
Prima di entrare nel merito del suo stile di predicatore e commentatore del Vangelo, crediamo sia opportuno partire da un preciso dato biografico: a diciotto anni, quando ancora era studente di liceo, ma già sentiva la vocazione alla vita consacrata, Ermes Ronchi fece l’incontro decisivo della sua vita: quello con il teologo servita Giovanni Vannucci (nato a Pistoia nel 1913 ed ivi deceduto nel 1984), amico e collaboratore di padre David Maria Turoldo (1916-1992), altro servita friulano allora molto impegnato, a Firenze, nell’ambito sociale, ad esempio con le cosiddette Messe della carità, oltre che come scrittore, poeta e perfino come regista (di questo aspetto ci siamo già occupati nell’articolo: «Un film al giorno: “Gli ultimi” di Vito Pandolfi e David Maria Turoldo», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 23/02/2008).
Ora, bisogna sapere che padre Vannuccci, degno erede di Paolo Sarpi, aveva una idea tutta sua della teologia cattolica: al giovane Ermes Ronchi, infatti, trasmise l’idea, da questi accolta come fondamentale, che il mondo sacro e il mondo reale sono la stessa cosa (vedi l’intervista rilasciata da Ronchi sul sito della Fraternità di Romena): il che è una tautologia, se per “reale” si intende “sostanziale”, ma un’autentica eresia se s’intende “quello vero” nel senso di “terreno”. E incliniamo fortemente a pensare che si tratti proprio di questo secondo significato, il che spiegherebbe tutta l’impostazione “immanentistica” della predicazione di padre Ronchi.

E adesso veniamo al fatto. Incaricato da papa Bergoglio, come si è visto, di tenere gli esercizi spirituali per la Curia romana, alla presenza dello stesso Pontefice, presso la Casa del Divin Maestro di Ariccia, nel corso delle meditazioni quaresimali, durante la seconda giornata di esercizi spirituali, padre Ronchi ha preso lo spunto da un passo del Vangelo di Marco (4, 40), nel quale, dopo la tempesta sul lago di Tiberiade, Gesù domanda ai discepoli perché abbiano ancora paura e siano ancora così scarsi di fede. Rifacendosi anche a quanto da lui stesso già scritto in uno dei suoi numerosi libri («Perché avete paura? La speranza delle Scritture», con Marina Marcolini, Edizioni San Paolo, 2012), padre Ronchi si lancia in un discorso in cui ha definito la paura, per il cristiano, come una mancanza di fiducia in Dio, il che è esatto, pur essendo un pensiero tutt’altro che originale. Chi non ricorda il famoso discorso tenuto da papa Giovanni Paolo II ai giovani, nel 1985, in occasione della XVIII Giornata mondiale per la pace, in cui, fra l’altro, il pontefice diceva: «Non abbiate paura della vostra giovinezza e di quei profondi desideri che provate di felicità, di verità, di bellezza e di durevole amore!»; e proseguiva con una serie di esortazioni contro la paura: «Non abbiate paura della Verità! Non abbiate paura di annunciare il Vangelo! Non abbiate paura di essere santi! Non abbiate paura di rispondere alla vostra vocazione! Non abbiate paura del futuro! Non abbiate paura della sofferenza e della morte»?
Indi, sempre nel corso della seconda giornata di esercizi spirituali, padre Ronchi ha affermato che Dio non salva gli uomini dalla croce, ma nella croce (altrettanto giusto), anche se avremmo preferito che citasse qualche Padre della Chiesa o qualche buon autore cattolico, e non il solito Dietrich Bonhoeffer, che, oltre ad essere un teologo protestante, è stato anche un esponente di spicco di quella “teologia negativa” che esorta i cristiani a fare come se Dio non esistesse, e dunque è stato oggettivamente, se non proprio un cattivo maestro, un maestro perlomeno ambiguo e potenzialmente “pericoloso”, anche se la sua morte in un campo di concentramento nazista lo ha circonfuso di luce postuma (cfr. il nostro articolo: «Il “caso” Bonhoeffer alle origini della svolta antropologica nella teologia contemporanea», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 26/06/2008).
Ed ecco, nella terza parte del suo ragionamento, la sparata improvvisa, gratuita, sconcertante: la Chiesa, egli ha affermato, per troppo tempo ha trasmesso una concezione di Dio basata sulla paura; ha fatto, come si direbbe oggi, del terrorismo psicologico: ma adesso basta. Adesso è arrivato il tempo dei Vannucci, dei Turoldo, dei Ronchi: la Chiesa è rinsavita, ha smesso di agitare il Babau davanti ai fedeli terrorizzati, si è fatta adulta, fiduciosa, comprensiva, dolce, materna. Ha deciso di mostrare il suo volto buono, il suo volto “moderno” - o modernista? Ricordiamo, per chi se lo fosse scordato, che il modernismo non è una corrente come un’altra in seno al cattolicesimo, ma è una vera e propria eresia, anzi, la “sintesi di tutte le eresie”, e che il santo papa Pio X, che così l’aveva definita, ha minacciato la scomunica a tutti i suoi seguaci, con l’enciclica Pascendi dominici gregis(e, prima ancora, col decreto Lamentabili sane exitu), fin dal 1907: provvedimento che, almeno formalmente, non è mai stato abrogato, né, a quanto ci risulta, attenuato, dai suoi successori: tutti, nessuno escluso Insomma, un ritorno – con la buon’anima di Umberto Eco - al clima di denigrazione e di autentica demonizzazione della Chiesa medievale, se non addirittura di tutta la Chiesa pre-conciliare, fino al pontificato di Pio XII; ci piacerebbe sapere quando, secondo padre Ronchi, il Magistero della Chiesa cattolica ha perso il “vizietto” di voler intimorire i suoi fedeli, come altrettanti bambini timidi e inesperti, e quando è divenuta adulta e non ha più sentito il bisogno di servirsi di armi così rozze e meschine: con Leone XIII? O con Pio XI? O, magari, solamente con Giovanni XXIII?
Ma ecco, affinché il lettore possa formarsi una sua opinione al riguardo, il passaggio saliente di questa parte del discorso di padre Ronchi, presenti il papa in persona, l’immancabile e ineffabile cardinale Gianfranco Ravasi, così aperto, dialogante e conciliante verso tutti, e particolarmente con Giudei e massoni, tranne che con i cattolici cosiddetti, spregiativamente, “tradizionalisti”:

«Per un lungo tempo la Chiesa ha trasmesso una fede impastata di paura. Che ruotava attorno al paradigma colpa/castigo, anziché su quello di fioritura e pienezza. La paura è nata in Adamo perché non ha saputo neppur immaginare la misericordia e il suo frutto che è la gioia […]. La paura invece produce un cristianesimo triste, un Dio senza gioia. LIBERARE DALLA PAURA significa operare attivamente per sollevare questo sudario della paura posato sul cuore di tante persone: la paura dell’altro, la paura dello straniero. Passare dall’ostilità, che può essere anche istintiva, all’ospitalità, dalla xenofobia alla filoxenia […] e liberare i credenti dalla paura di Dio, come hanno fatto lungo tutta la storia sacra i suoi angeli: essere angeli che liberano dalla paura».

Ma padre Ronchi, cosa diavolo sta dicendo? Ma si rende conto del guazzabuglio teologico, della confusione inverosimile, delle vere e proprie enormità che lei è riuscito a mettere in fila, con incredibile sicumera e presunzione intellettuale, in queste poche frasi, rivolte a un uditorio tanto qualificato: i massimi vertici della Chiesa cattolica? E gliele hanno lasciate dire? E nessuno l’ha fermata, nessuno l’ha ripresa, nessuno l’ha corretta? Eppure, ci avevano sempre insegnato che riprendere e correggere un fratello che sbaglia è un atto di carità cristiana: molto più che udire e vedere l’errore, e tuttavia restarsene zitti, magari per una forma malintesa di delicatezza, oppure per una tendenza poco lodevole al compromesso, al “quieto vivere”. Ma quando è troppo, è troppo.
Tanto per cominciare, il pistolotto sui migranti/invasori se lo poteva proprio risparmiare: non c’entrava nulla con il tema della meditazione dal Vangelo di Marco, tanto più che riguarda un problema non morale, o non solo morale, ma politico: un problema che non esisteva all’epoca dei Vangeli e che l’Europa non ha mai dovuto fronteggiare, nelle proporzioni in cui oggi si presenta, da più di un millennio. Poteva avere almeno la decenza di non strumentalizzare il Vangelo per portare avanti questo buonismo all’ingrosso, che consiste nell’ipotecare il futuro dei nostri figli, spalancando le porte a milioni di musulmani, ben decisi a non convertirsi e neppure a integrarsi, ma, semmai, a convertire e integrare noi, per amore o per forza, al Corano e alla legge islamica: una forma di autodistruzione che Gesù non ha mai predicato, e meno ancora prescritto.
Ma, a parte questo, ci piacerebbe proprio sapere quando mai la Chiesa cattolica, nei secoli passati, in cui lei la descrive tutta intenta a predicare – addirittura! - un Vangelo impastato di paura (ma lei si sente, quando parla, padre? Si rende conto della portata delle sue affermazioni? Ne soppesa gli effetti e le possibili conseguenze, dentro e fuori il popolo dei credenti?), è stata egoista e priva di carità verso gli stranieri; quando mai è stata animata da odio (xenofobia) nei loro confronti; quando mai ha nutrito, o insegnato, la paura nei confronti dell’altro. Come se non bastasse questa imperdonabile imprudenza, questa maniera avventata e incosciente di lanciare accuse a tutto campo, tanto generiche quanto discutibili, lei dimostra anche di essere fermo a pregiudizi settecenteschi, lei che si mostra così desideroso di apparire al passo con i tempi, aperto e libero da vecchie strutture di pensiero. Ma dove ha studiato la storia, lei, caro padre, ce lo dica: forse su romanzi come «Il nome della rosa», o come «Il pendolo di Foucault» di Umberto Eco, o, meglio ancora, come «Il Codice da Vinci» di Dan Brown? Anzi, se ciò di cui stiamo parlando non fosse terribilmente serio, ci verrebbe quasi il dubbio che lei l’abbia studiata sull’Almanacco di Topolino.
Le sue parole non sono le parole di un pastore d’anime, né di un sacerdote cattolico: lei ha letto troppo Gibbon, Diderot e Voltaire, e ne ha fatto indigestione; lei è rimasto fermo ai tempi dell’illuminismo, e, con la boria e la superficialità dei philosphes della Encyclopédie, trincia giudizi più grandi di lei e più grandi di noi tutti: giudizi avventati, superficiali, generici e ingenerosi, che, ormai, solo gente totalmente screditata e sprovveduta, ma, in compenso, furba e avida di celebrità, come il famigerato Dan Brown, si sogna ancora di riesumare dalle catacombe del XVIII secolo. Non solo è fazioso, padre, ma è anche poco aggiornato: i suoi argomenti sono triti e banali, erano già vecchi ai tempi di Voltaire; e, se Voltaire suonava falso già nel 1700, il suo linguaggio, padre, suona anche ridicolo, perché non si addice a un uomo del Terzo millennio, che, come lei, ci tiene tanto a far mostra di essere “moderno” e culturalmente aggiornato.
Ma veniamo alla sostanza teologica delle sue meditazioni quaresimali. Lei, padre, dopo aver ripudiato l’idea di un Dio “triste” e “senza gioia” (ma la Croce, nel frattempo, dove è andata a finire?), arriva allo sproposito di paragonare, se non di equiparare, gli uomini alle creature angeliche: affermando che queste ultime non conoscono la paura, ne trae la conclusione che neppure gli uomini devono aver paura. Ma gli uomini non sono angeli, nessuno glielo ha mai detto? Che razza di teologia si studia, oggi, nei seminari cattolici? Dopo aver studiato male la storia, lei, padre, mostra di conoscere maluccio anche le basi più elementari della teologia. E allora, visto che le piacciono gli autori moderni, e che san Tommaso d’Aquino, probabilmente, non le andrà troppo a genio, le consigliamo di leggersi l’opera di padre Tomas Tyn «Metafisica della sostanza», nella quale il geniale teologo domenicano, morto nel 1990, distingue opportunamente fra la Persona di Dio, la persona degli Angeli e la persona umana: sempre persona, ma di natura ben diversa. E la differenza maggiore, oltre che nel fatto della creaturalità, consiste, per l’uomo, nel fatto della caduta. Sì, lo sappiamo: a lei, padre, non va troppo a genio parlare di queste cose; per lei, sanno di tristezza. Non le piace parlare di colpa e di castigo; anzi, nemmeno di peccato. Ma senza il peccato, non c’è la Redenzione: e Gesù Cristo, allora, il Dio-uomo, che cosa è venuto a fare sulla Terra? Forse un piccolo giro turistico? Se per annunciare il Vangelo è sufficiente parlare di “fioritura” e di “pienezza” (bello, questo linguaggio floreale: fa tanto New Age), allora essere cristiani diventa facile come bere un bicchier d’acqua. Sparisce il paradosso della fede, di cui parlava Kierkegaard; e la Croce, a cosa servirà mai, giunti a questo punto? E ci dica un’ultima cosa, padre: dove è andato a nascondersi il concetto del peccato, e quindi del bene e del male, nella sua teologia?
Una persona ingenua si potrebbe domandare perché mai vi siano così tanti preti e sedicenti teologi i quali si ostinano a rimanere nella Chiesa cattolica, pur dicendo e scrivendo cose che, di cattolico, hanno tutt’al più una frettolosa verniciatura; ma che, nella sostanza, sono tutto fuorché cattoliche: semmai panteiste, razionaliste, pelagiane, luterane. Perché non escono e non se ne vanno per la loro strada? Perché non portano avanti le loro tesi, lealmente e onestamente, mostrandosi per quello che sono: uomini che non credono alla Rivelazione, così come la insegna, e l’ha sempre insegnata, il magistero ecclesiastico? Ma sarebbero, appunto, domande ingenue. Se costoro rimangono dentro la Chiesa, a dire quel che dicono e a scrivere quel che scrivono, una ragione, evidentemente, c’è…

Ma padre Ronchi, cosa diavolo sta dicendo?

di Francesco Lamendola

http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=8198:ma-padre-ronchi-cosa-diavolo-sta-dicendo-&catid=70:chiesa-cattolica&Itemid=96

RIPULIRE LE STALLE DI AUGIAS

    Ripulire le stalle di Augias (pardon, le stalle di Augia). Colui che vive immerso nel sudiciume e nel fetore è l’ultimo a percepire quanto sia malsano il proprio ambiente, è l’ultimo a sentire la propria puzza o non la sente affatto 
di F. Lamendola


Primo: ripulire le stalle di Augias (pardon, le stalle di Augia)…

di Francesco Lamendola



Come è noto, la quinta delle dodici fatiche di Eracle (Ercole per i Latini) consistette nel ripulire, in un solo giorno, le stalle del re dell’Elide, Augia,  figlio di Elio, il cui bestiame era immortale, perché di origine divina, e quindi, da moltissimo tempo, il letame vi si era accumulato, crescendo in proporzione geometrica, senza che alcuno potesse o sapesse smaltirlo per tempo. Ercole portò a termine la sua fatica deviando il corso di due fiumi, l’Alfeo e il Peneo, le cui correnti fecero irruzione nelle stalle e portarono via, in un colpo solo, l’immane sporcizia e restituendo salubrità alla zona, prima infestata dal fetore e da sciami di mosche e altri animali immondi.
Il mito, peraltro, tramanda che Ercole non ricevette da Augia il compenso pattuito, ossia un decimo del bestiame, perché il re, disonestamente, sostenne di essere stato ingannato, dal momento che non Ercole, ma i due fiumi avevano condotto a termine il lavoro; e che anche un giudizio esterno, richiesto dall’eroe per dirimere la controversia, gli fu sfavorevole. Per soprammercato, suo cugino Euristeo, re di Tirinto e Micene - il quale lo aveva mandato a compiere le dodici fatiche perché espiasse l’uccisione della moglie e dei figli, compiuta in un momento di follia – non riconobbe la validità di essa e non la volle conteggiare al pari delle altre, col pretesto che Ercole non l’aveva compiuta in spirito di servizio, ma pretendendo in cambio un compenso.
Da allora, “ripulire le stalle di Augia” è divenuta una espressione proverbiale per designare un compito immane e ai limiti dell’impossibile, almeno secondo il metro delle forze umane (ed Ercole, infatti, non era un uomo, ma un semidio, figlio di Zeus e di una donna mortale, Alcmena); e specialmente di questi tempi, tempi di magnifiche sorti e progressive della modernità, e di grande sensibilità ecologista e ambientalista, si capisce che ripulire le stalle dal letame è una cosa che appare utile e necessaria, senza bisogno di ulteriori motivazioni e spiegazioni. Ma quali sono le stalle più sozze e più urgenti da ripulire; quali sono le stalle che più puzzano e ammorbano l’aria, e dalle quali è giusto incominciare, per bonificare l’ambiente in cui viviamo?
In primo luogo, ci sembra di dover osservare che c’è un tipo di ecologia ancora più urgente e ancora più necessaria di quella relativa alla sopravvivenza dell’ambiente esterno, fisico e materiale, della nostra cara, vecchia Terra; ed è l’ecologia di una terra a noi ancor più vicina e per noi ancora più necessaria, cioè la nostra mente e la nostra anima, inquinate da innumerevoli anni, decenni e secoli di trascuratezza, sentito dire, luoghi comuni, formule preconfezionate, cattive abitudini, sistematico lavaggio del cervello da parte della scuola, dell’università, della televisione, del cinema, dei giornali, della pubblicità (cfr. il nostro vecchio articolo: «L’ecologia della mente come presupposto dell’equilibrio spirituale», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 06/09/2007).
Le stalle di Augias, dunque (pardon, le stalle di Augia), sporche fino all’inverosimile e  letteralmente seppellite sotto immani strati di letame, e nelle quali l’aria è resa irrespirabile per l’incessante accumularsi di annosa sporcizia, sono dentro le nostre menti: sono le nostre povere menti inquinate, ammorbate, avvelenate da una lunga abitudine alla trascuratezza intellettuale, al conformismo culturale e all’azione nefasta dei “poteri forti” a tutto interessati, tranne che alla nostra autonomia e dignità di persone, i quali, controllando praticamente l’insieme dei mezzi d’informazione e di comunicazione, sono riuscite a trasformare lo strumento della consapevolezza, l’intelligenza, in un deposito di escrementi maleodoranti: perché le verità mutilate, contraffatte e sconciate dalla menzogna, puzzano insopportabilmente. E, come suole accadere in tali casi, colui che vive immerso nel sudiciume e nel fetore, è l’ultimo a percepire quanto sia malsano il proprio ambiente e il proprio modo di vivere; è l’ultimo a sentire la propria puzza, anzi, per dire meglio, non la sente affatto.
Ed ecco la prima difficoltà veramente seria che si presenta ad un Ercole dei nostri giorni, il quale voglia provarsi a bonificare le moderne stalle di Augia: la totale mancanza di consapevolezza di coloro i quali vivono sprofondati nella sozzura, e, naturalmente, la loro pronta e sdegnata suscettibilità, se, per caso, qualcuno osasse anche solo sussurrare quel che loro soltanto non vedono e non sentono: che avrebbero bisogno di un bel bagno, e che i loro vestiti, i loro oggetti e le loro abitazioni andrebbero ripuliti e disinfestati in maniera radicale. Sporchi, loro? Puzzolenti, loro? Il minimo che possa accadere ad un tale Ercole contemporaneo, sarà di vedersi preso a coltellate dagli sdegnatissimi abitanti delle stalle di Augia: i quali, come è evidente, si credono i più belli, i più puliti, i più nobili e paludati esseri umani che mai siano vissuti al mondo, degni, semmai, non che di imparare, di insegnare agli altri che cosa siano la pulizia, l’igiene, il decoro, il buon odore e le buone maniere.
Ecco: questa è la difficoltà veramente immane e quasi insormontabile. Pazienza doversi sobbarcare un ciclopico lavoro di ripulitura, in perfetta solitudine, senza poter contare sull’aiuto di nessuno; ma, soprattutto, il doverlo fare non con il consenso e la (sperata) gratitudine di Augia, ossia del proprietario delle stalle, ma contro la sua volontà, o, come minimo, davanti alla sua diffidenza, al suo malvolere, alla sua suscettibilità tesa all’estremo e sempre pronta a scattare. Come aiutare qualcuno a ripulirsi, se costui ignora d’essere sporco? Come fargli capire che ha assolutamente bisogno di un bagno purificatore, se è convinto di profumare e di meritare, semmai, lodi e complimenti per la sua meravigliosa pulizia e per il suo smagliante lindore? Fuor di metafora: in una società di zombie, di rinoceronti, di bestioni puzzolenti, da dove incominciare, e come farlo, se ciascuno di essi si crede un Apollo, un Narciso, un Adone? E se, per giunta, anche l’ultimo di costoro, il più sciocco e volgare, il più stupido e presuntuoso, è convinto, fermamente convinto, di essere un Aristotele, una mente sopraffina, un giudice impareggiabile del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male?
E nondimeno, bisogna che qualcuno lo faccia: qualcuno deve almeno provarci. Perché la puzza delle stalle di Augia è divenuta tale che, ormai, ne va della salute e della sopravvivenza stessa non solo degli abitanti dell’Elide, ma dell’intero pianeta nel quale ci è stato dato in sorte di vivere. Non esistono più luoghi puri e incontaminati; non esistono più luoghi nei quali la volgarità, l’imbecillità e la solerte (e solenne) asineria di quanti si ritengono desti e consapevoli, sapienti e intelligenti, giudici esperti del bello e del brutto, non arrivi a far sentire i suoi pestilenziali effluvi e a provocare le sue grottesche conseguenze. I miasmi e le potenziali epidemie che regnano nelle odierne stalle di Augias (scusate di nuovo, era stato un lapsus per “Augia”) hanno invaso l’orbe terracqueo e né al Polo Sud, né in fondo agli oceani o alla grotta più abissale che si possa immaginare, è ormai possibile sottrarsi ai loro effluvi micidiali.
Ad esempio: qualcuno riesce a farsi un’idea del danno immenso, sistematico, che uno di codesti dormienti che si credono svegli, di codesti conformisti che si credono liberi, di codesti polli di allevamento che si credono aquile o falconi, è in grado di fare, se il destino ha voluto che giungesse a sedere su una cattedra di liceo o di università, e metterlo, pertanto, in condizioni di influire disastrosamente sulla mente (e sul cuore) di centinaia o migliaia di studenti: tanti se ne possono rovinare, forse in maniera irreparabile, in quarant’anni di “onorato” insegnamento e di “stimata” carriera? Magari senza mai più aver preso in mano, non diciamo un libro, ma neppure un giornale (a parte, forse, la Gazzetta dello Sport, oppure, se si tratta di una insegnante di sesso femminile, Io Donna o Cosmopolitan, privilegiando l’oroscopo e la posta dei lettori), dopo il fatidico giorno della laurea o, al massimo, dell’esame di abilitazione – ammesso e non concesso che codesti professori siano passati in ruolo per concorso, e non per semplice forza d’inerzia?
E c’è qualcuno che arriva a farsi un’idea del danno immenso, incalcolabile – e, in questo caso, esiziale per la salute dell’anima, oltre che per l’integrità della mente – che può fare un prete progressista e modernista, il quale si senta investito dal fuoco dello Spirito santo e si metta a predicare ai fedeli, dal pulpito, nonché al catechismo, rivolto ai bambini e ai ragazzi, che Gesù è stato solamente un uomo un po’ speciale; che non esiste alcuna certezza su Dio e sulla vita eterna; che non si dà alcuna verità etica o speculativa; che l’uomo è immerso nel caso e va verso il nulla o, al massimo, verso una vaghissima speranza, peraltro puramente umana; che il Vangelo è una raccolta di  miti o leggende, e che i miracoli, gli angeli, i santi, appartengono al regno delle favole, come Babbo Natale o la Befana? Che l’uomo ha in mano il proprio destino; che deve smetterla di pregare la Madonna; che deve guardare in faccia la “realtà” (relativista, materialista e nichilista); e che tutto quel che si chiede ad un buon “cristiano” è di essere accogliente e incondizionatamente, illimitatamente disponibile verso i migranti/invasori, verso gli emarginati/delinquenti, verso le minoranze “discriminate”/arroganti?
Infatti, nei loro microscopici cervelli di preti di sinistra, che non hanno capito niente del Vangelo e hanno scambiato quella contraffazione della bontà che è il buonismo, ossia un vizio capitale e dalle conseguenze terribili, per una virtù, costoro forse non si rendono nemmeno conto del sacrilegio che quotidianamente perpetrano, seminando scandalo e confusione nelle anime dei “piccoli” e dei “semplici” tanto cari a Gesù, e insuperbendo della loro “maturità” e della loro abilità nel “tradurre” il messaggio evangelico nei modi e nelle forme, e persino nei significati, al fine di renderlo compatibile con la mentalità del mondo moderno. Cosa che è perfettamente contraria all’esplicito mandato del Divino Maestro, il quale ha affermato, e continuamente ribadito, fino all’ultimo giorno della Sua vita terrena, che il Suo regno non è di questo mondo (e tanto meno, evidentemente, del mondo moderno: che è dichiaratamente anticristiano e post-cristiano): «Se il mio regno fosse di questo mondo – disse a Pilato, pochi minuti prima di affrontare la via Crucis, la via della Croce – i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Sì, cari amici del “dialogo” col giudaismo e con le altre religioni che si riduce a relativismo e sudditanza: il vangelo di Giovanni dice proprio così, capitolo versetto 18, 36: «perché non fossi consegnato ai Giudei»);
Vi è chiaro il concetto, cari preti di sinistra alla don Gallo (pace all’anima sua) e alla don Barbero (ex don Barbero, visto che la Chiesa ha dovuto cacciarlo fuori)? Il Vangelo non lo fate voi, lo ha fatto Gesù Cristo con le sue parole e le sue azioni. E niente e nessuno riusciranno a distorcerne il significato sino a trasformarlo in una specie di breviario rivoluzionario e antiborghese, come voi vorreste, ma senza neanche avere il coraggio di dirlo chiaro e tondo, perché, vili come siete, non osate confessare che quel che vi manca non è la grazia della vita divina e soprannaturale, ma un’ideologia puramente umana, che la storia ha sbugiardato e affossato, il comunismo; e allora, simili a serpenti, vi intrufolate nelle pieghe della Chiesa, nei varchi incustoditi per la scarsità di vocazioni sacerdotali, e, senza averne l’aria, mordete e spargete ovunque il veleno della vostra interpretazione secolarizzata, politicizzata e comunisteggiante della Rivelazione divina, infettando le pecorelle del gregge che dovreste custodire.
Tale è lo stato dell’arte; tali sono le condizioni delle stalle di Augia dei nostri tempi, e che sono dentro di noi, dentro le nostre menti. Dobbiamo incominciare da noi stessi, questo è ovvio: dobbiamo levarci la trave dall’occhio, prima di avere la pretesa di levare il bruscolo dall’occhio altrui. Quanto conformismo, quanta ottusità, quanta falsa coscienza si sono installate, da padrone, nelle nostre menti, e vi regnano sovrane e incontrastate! Al lavoro, dunque, uomini di buona volontà! Ed è un lavorio davvero immane: umanamente parlando, diciamolo pure, impossibile. E siccome nessuno di noi è un semidio, come lo era Ercole,  non ci resta che chiedere l’aiuto di Dio: del Dio predicato da Gesù Cristo, Dio egli stesso; e non del Dio dei Gallo e dei Barbero, inventato da loro per la confusione delle anime e per lo scandalo del gregge. Ce n’è, di sporcizia da ripulire e di fetore da disperdere! Pure, serve uno scatto di consapevolezza: vogliamo seguitare a vivere così? A farci abbindolare, manipolare, prendere in giro, continuando, per giunta, a crederci bene informati e perfettamente in grado di capire, di valutare, di giudicare su tutto e su tutti, ma, in realtà, ripetendo come pappagalli ammaestrati un ritornello insensato e vergognoso? «Fatti non foste a viver come bruti – fa dire a Ulisse il padre Dante – ma per seguir virtute e conoscenza». Solo, non dobbiamo ripetere il suo errore, ma affidare il nostro ingegno a Dio, «perché non corra, che Virtù no’l guidi»...
http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=8200:ripulire-le-stalle-di-augias&catid=121:lo-smemorato-siberiano&Itemid=152

2° NON PIANGERE MA COSTRUIRE

    II°: Smetterla di piangersi addosso e cominciare a ricostruire. È evidente che non serve a nulla ripulire le stalle di Augia se si ricomincia subito con le cattive abitudini se si permette allo sterco di rioccupare lo spazio di Francesco Lamendola  



Secondo: smetterla di piangersi addosso e cominciare a ricostruire

di

Francesco Lamendola



Proviamo a immaginare, per semplice amore d’ipotesi (pazzesca e fantascientifica) che le stalle di Augia siano state ripulite; che un discreto numero di esseri umani, se non proprio tutti, e neppure la maggioranza, si siano impegnati seriamente a spalare tutta la sporcizia che vi si è accumulata, strato sopra strato, anno dopo anno, fino a nascondere completamente il lume del buon senso, la retta coscienza individuale, la capacità di distinguere il bene dal male, il vero dal falso, ciò che è secondo la legge morale naturale e ciò che va contro di essa.
A questo punto, è finita l’opera preliminare: ma resta da fare tutto il resto. Compito ancora più immenso, ancora più ciclopico, ancora più smisurato del precedente: adesso non basterebbe nemmeno un Ercole, anzi, nemmeno una squadra di semidei simili ad Ercole; adesso ci vorrebbe, anzi, ci vuole, l’aiuto di Dio. Che cosa si tratta di fare? Essenzialmente due cose: smettere di piangersi addosso, schizzando ovunque fango e lacrime da coccodrilli, e incominciare a ricostruire, dopo aver sgombrato il terreno dalle macerie.
Smetterla di piangersi addosso. È evidente che non serve a nulla ripulire le stalle di Augia, se si ricomincia subito con le cattive abitudini; se si permette allo sterco di rioccupare lo spazio, di intasare ogni angolo, di infettare e ammorbare gli ambienti. Vorrebbe dire che il ciclo della sozzura ricomincia daccapo; e che si è lavorato per nulla. Ma che cosa vuol dire, in concreto, smetterla di piangersi addosso? Dobbiamo capirlo, e capirlo bene.
Ci sono molte maniere di piangersi addosso: e, per la maggior parte, esse sono così astute (cioè non loro, ovviamente, ma noi che le pratichiamo) da camuffarsi per qualcosa di diverso: ad esempio, da sacrosanta denuncia e da sacrosanta indignazione; intanto, però, con la scusa della denuncia e dell’indignazione, non si fa un passo avanti, non si cava un ragno dal buco: si resta sempre fermi e impotenti. Un’altra maniera è quella di approfondire esageratamente, esasperatamente, nevriticamente; studiare, cavillare, sofisticare, arzigogolare, cerebralizzare, non già per capire, ma per rimandare il momento dell’impegno e della prova. È il pirandellismo: il piacere malato di grattarsi la rogna, ancora e ancora, fino alla carne viva, fino a far sprizzare il sangue; e, arrivati a questo punto, provare un’estasi di voluttà, naufragare in un mare di delirio.
L’uomo moderno è stato un vero campione di pirandellismo: un campione del rancore, del rimprovero a trecentosessanta gradi, della denuncia, del dito perennemente puntato contro qualcosa o contro qualcuno: contro la vita che non mantiene le promesse, che imprigiona se stessa, il suo libero fluire; contro la trappola sociale, a cominciare dalla famiglia e dal lavoro, visti esclusivamente sotto una luce negativa, demoniaca; contro gli altri, nel senso più concreto della parola («l’inferno sono gli altri», diceva un altro maestro di pirandellismo e di sofisticherie nichiliste, Jean-Paul Sartre). Ma una intellighenzia che sputa sulla famiglia e sulla società, che disonora il padre e la madre e che deride e disprezza la nobiltà del lavoro, è una accolita di ciarlatani astuti o masochisti: ciechi che guidano altri ciechi, se non peggio: lupi travestiti da agnelli, che mirano solo a sbranare il gregge (o a tosarlo sistematicamente, non essendo nel loro interesse privarsi della loro comoda fonte di profitti e privilegi).
Da Petrarca in avanti, coi suoi lagnosi ahi, lasso!, fino a Leopardi, con la sua natura empia e matrigna; a Montale, col suo male di vivere; a Sartre, con la sua nausea; a Heidegger, con il suo essere per la morte, è tutta una geremiade di vittimismo, una sarabanda di autocommiserazione, un’orgia di nichilismo e di cupio dissolvi. Poi ci sono gli intellettuali che parlano solo a se stessi e a pochissimi intimi, cerebrali e incomprensibili come loro (Hegel ammetteva che certi suoi pensieri non li capiva nemmeno lui stesso, figuriamoci gli altri; e chissà quanti lettori capiscono un poeta come Zanzotto, o un pensatore come Cacciari, o quante persone comuni capiscono i “capolavori” di certi pittori, di certi scultori o di certe archistar, peraltro contese da tutti e pagate a peso d’oro); quelli che sbeffeggiano, deridono, scherzano sulle cose serie e fanno la parodia della vita buona: cinici, vuoti e impenitenti, che affastellano parole senza senso ed espongono alle mostre d’arte i loro bravi stracci e pezzi di legno (come Alberto Burri) o i loro bravi pisciatoi (come Marcel Duchamp), con seriosa compunzione. E poi, quelli che si aggirano come pazzi furiosi, delirando in maniera tale da lasciare in dubbio se stiano scherzando o se facciano sul serio(come Carlo Emilio Gadda, ma anche, spesso, come Pirandello); quelli che la buttano sulla pornografia, a volte giocosa e spensierata, a volte trucida e sado-masochista (come fanno, rispettivamente, Alberto Moravia e, soprattutto come regista, Pier Paolo Pasolini); quelli che psicanalizzano, vivisezionano e spaccano il capello dell’inconscio in quattro, in otto e in sedici, per trovarvi, in fondo, qualsiasi cosa ed anche il suo contrario; e così via.
Osservava padre Tomas Tyn. Uno dei più grandi teologi e metafisici del pensiero contemporaneo, che nella civiltà moderna vi è un continuo voler schizzare fango su tutto, quasi per insozzare la parte divina e soprannaturale della persona umana, che tende verso l’Alto. Ebbene: tutto questo deve finire; abbiamo toccato il fondo; ora deve incominciare la risalita. I cattivi maestri dello sberleffo, del cachinno, della dissacrazione, del nulla e del disprezzo verso la vita, devono essere ridotti al silenzio mediante il silenzio stesso: bisogna smettere di parlare di loro, di recensire i loro “capolavori”, e non subire più il ricatto intellettuale (per non parlare di quello professionale) che consiste nel dare loro spazio, più spazio di quanto essi meritino, sempre più spazio, con il pretesto che è giusto e doveroso ascoltare i “testimoni” della crisi della nostra civiltà e prendere atto della “serietà” delle loro obiezioni alle “vecchie certezze”. È il cavallo di Troia del relativismo: far passare la Cultura, il Sapere, il Bello, il Vero, per “cultura tradizionale”, per “conservatorismo”, per “totalitarismo intellettuale”; e, con ciò, aprire la porta, e stendere tanto di tappeti rossi, davanti a qualunque buffone, a qualunque mariolo, a qualunque disperato in buona o in mala fede, il quale voglia profanare, insozzare, dissacrare ogni cosa, spacciandosi per un “coraggioso” esploratore del lato oscuro della realtà, e, magari, niente di meno che un “profeta” di nuovi cieli e nuove terre, a noi comuni mortali ancora sconosciute, ma foriere, essi dicono, di chissà quali meravigliosi cambiamenti e profondi significati.
Dunque: smetterla di produrre sporcizia intellettuale, spirituale, morale; smetterla di vomitare addosso agli altri le proprie basse pulsioni, i propri peggiori istinti; e, soprattutto, smettere di accoglierla, porre fine alla domanda. Non ci serve di sapere che Leopold Bloom, il protagonista dell’«Ulisse» di Joyce, si masturba guardando una ragazza sulla spiaggia,  e meno ancora ci serve di seguirlo al gabinetto, quando vi si reca a defecare: quel che fa dietro la porta del bagno, gli odori che vi regnano, la carta che utilizza per pulirsi: tutto questo non c’interessa, non è arte, non è indagine psicologica, non è letteratura, non è niente di niente: è solo e unicamente spazzatura, compiacimento malsano della volgarità, ebbrezza di rotolarsi e avvoltolarsi ben bene in mezzo al fango. Non abbiamo bisogno di scrittori di tal fatta, di artisti di tal fatta, di pensatori di tal fatta: gente che sa solo schizzare fango dappertutto e che vorrebbe trascinarci nella sua stessa lordura, magari per sentirsi meno abietta – e, nei casi più fortunati (beninteso, fortunati per loro), persino per ricavarci dei soldi, della celebrità, forse delle cattedre universitarie. Di loro e delle loro opere, ne facciamo volentieri a meno. Bisogna smettere di dar loro importanza; bisogna fronteggiarli col silenzio. Non meritano tutta l’attenzione che riserviamo loro: prosperano sulla nostra curiosità morbosa, sulle nostre frustrazioni segrete e sui nostri pruriti insoddisfatti. Ma se il pubblico diviene moralmente e spiritualmente sano, nonché intellettualmente onesto, per costoro è finita. Lasciamoli rimestare nei loro stessi escrementi; nessuno ne sentirà la mancanza.
Incominciare a ricostruire: ecco finalmente la pars construens; a ricostruire dopo aver sgombratole macerie e dopo essersi liberati dalle cattive abitudini.
Ma ricostruire che cosa? Tutto, semplicemente. È tutto da rifare; c’è ben poco che si possa ancora utilizzare. I vecchi materiali sono sporchi, contaminati; bisogna rifondare le basi stesse della vita intellettuale, spirituale, morale. Compito vertiginoso, da far tremar le vene e i polsi; umanamente impossibile: ma non a Dio, se noi lo desideriamo: perché a Dio nulla è impossibile, e noi stessi possiamo spostare anche le montagne e trasportarle in mare, con il soccorso della Sua grazia.
Da dove partire? Ma dal bene e dal male, naturalmente. Dobbiamo ricominciare a parlare del Bene e del Male: dobbiamo rimettere la questione etica all’ordine del giorno. Dobbiamo recuperare la semplice, ma impegnativa verità, che tutta la vita, tutta l’esistenza terrena, tutto l’universo con lo spazio, il tempo, le galassie e i miliardi di anni luce, altro non sono che lo scenario d’una perenne lotta fra il Bene e il Male, alla quale siamo chiamati, e rispetto alla quale non possiamo restare neutrali. E, naturalmente, dobbiamo ricominciare a parlarne, e soprattutto a dare il buon esempio, ai bambini, agli adolescenti, ai nostri figli e nipoti: dobbiamo responsabilizzarli, far capire loro la serietà della vita, persuaderli che la vita non è una caccia al tesoro, un eterno Luna Park, un perenne carpe diem, finanziato dai genitori come fossero uno sportello del Bancomat:; ma che è impegno e sacrificio da parte di ciascuno, in vista della felicità vera, quella che non delude, non tradisce, né lascia mai l’amaro in bocca, ma anzi, un senso perfetto di appagamento e di vera pace interiore.
Osservava giustamente, a proposito di alcuni recenti, raccapriccianti fatti di cronaca nera, Maurizio Blondet, uno dei rarissimi scrittori e giornalisti che conservano ancora la schiena ben dritta, in mezzo a una marea di servi e di buffoni di regime (e che, appunto per questo, non ci è più dato di vedere in televisione, né di leggere sui giornali), che la psichiatria e la sociologia invano si affaticano per dare un nome e un significato a certi crimini insensati, immensamente malvagi, e, nello stesso tempo (stridente paradosso) inspiegabilmente futili: non vi è un nome, né un significato (aggiungiamo noi), se non il nome e il significato che a cose simili davano, con il loro elementare buon senso contadino, i nostri nonni, e che i preti e i teologi di un tempo che sembra già lontano, mentre è vecchio di alcuni decenni appena, confermavano con linguaggio e con concetti un po’ più elaborati, ma, nella sostanza, perfettamente concordanti: si tratta di una vittoria del Male. Semplicemente, si fa per dire, vi sono persone che cedono al richiamo del Male: così, senza un perché particolare. Persone che hanno una famiglia normale, un lavoro normale, una casa normale, dei passatempi abbastanza normali, delle amicizie più o meno normali. Persone che hanno detto “sì” al Male, al Diavolo: perché ciascuno di noi è chiamato a scegliere fra il Bene e il Male, e la risposta che daremo non è mai scontata in partenza. Nessuno, neppure i santi più grandi, sono immuni dalla tentazione dell’Inferno, specialmente se per caso abbassano la guardia e si lasciano afferrare dalla maledizione dell’io, della vanità, della superbia, dell’orgoglio, e si dimenticano che ciascun essere umano, anche il più forte, anche il più virtuoso, è fatto sempre e solo di fragile carne piena di debolezze e che, senza l’aiuto di Dio, non possiamo fare niente, siamo indifesi come bambini, basta un attimo di tentazione, il cedimento d’un istante, e il Diavolo può scatenarsi dentro di noi e travolgere le nostre vite e, insieme a quelle di altre persone.
Però la civiltà moderna ha abolito questi concetti, questi pensieri, perfino questo linguaggio. La cultura moderna non vuol sentir parlare del Bene e del Male, né di Dio e del Diavolo; non vuol sentire parlare di debolezza della carne, di tentazione, di caduta e di peccato; meno ancora vuol sentir parlare della Redenzione. La cultura moderna afferma e proclama che l’uomo è arbitro del suo destino, con le sue sole forze, e che da solo può salvarsi, oppure da solo perisce: senza chiedere aiuto a nessuno (tranne che ad una scienza incapace di aiutarlo, quando non lo sprofonda nel male ancor di più), senza aspettarsi nulla da nessuno, in quel deserto che è la vita umana – in quel deserto allucinante, stralunato, mostruoso, che la modernità ha fatto della vita umana, dopo averne strappato via, ad uno ad uno, i frutti più belli, i profumi più dolci, le gemme più preziose.
Ebbene: è da qui che dobbiamo ricominciare. Dobbiamo ritornare alla consapevolezza del libero arbitrio: dobbiamo riassumere la responsabilità del Bene e del Male che incessantemente c’interpellano. Troppi scrittori moderni – Italo Svevo, per esempio, o Luigi Pirandello – hanno affermato che il male non è opera di qualcuno: che esso accade, semplicemente. Funesta menzogna. Se il male avviene, c’è qualcuno che lo ha scelto: qualcuno che ha detto di no al Bene e all’Amore...

2 commenti:

  1. E chi è che avrebbe dovuto fermare questo eretico? Forse l'apostata argentino che lo ha inviato?

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  2. Su padre Ermes Ronchi:
    dura e faticosa la vita degli yes men (tutti i 'Fantozzi' ne sanno qualcosa).
    Marisa

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